di Paolo Vincenti
“La Taranta. Il dialetto galatinese (ovvero la lingua del popolo)”, è l’ultima proposta editoriale di Rino Duma, scrittore e attivo operatore culturale galatinese.
L’opera, dalla mole consistente, 569 pagine, con elegante copertina cartonata bianca, pubblicata da Editrice Salentina (2016), è una raccolta di commedie, poesie, proverbi, modi di dire, soprannomi, filastrocche, indovinelli e materiali vari, in dialetto galatinese. Un viaggio letterario, un excursus filologico nella saggezza popolare, nella lingua madre dell’autore e nelle tradizioni ormai in via d’estinzione di una micro realtà municipale, quale Galatina, ricca di arte e di storia.
Alla confluenza con l’era digitale informatica, Duma, facendosi aedo di un tempo perduto, compartecipe cantore della cultura genuina e spontanea del popolo salentino, ha voluto regalare ai suoi lettori ed estimatori questo scrigno di saggezza, divertimento e leggerezza.
La taranta riportata in copertina è opera del maestro Antonio Mele Melanton: una libera interpretazione di uno spaccato sociale che ha caratterizzato in maniera indelebile il passato di questa città, il tarantismo, col suo portato di sofferenza, folklore, cultura. Ancora oggi il nome di Galatina è legato al culto di San Paolo e alle tarante, sebbene il fenomeno sia ormai estinto. Ma Rino Duma, Presidente del Circolo culturale Athena e direttore della rivista “Il filo di Aracne”, da studioso e appassionato ricercatore di memorie patrie, ha voluto riportare all’attenzione dei suoi concittadini, degli anziani e dei giovani, il recupero delle cose di un tempo, nel vecchio “scascione de dialettu”, cioè “trabiccolo di dialetto”, come scrive nella sua Prefazione, perché esso “è l’antica e inalienabile carta d’identità della nostra anima cittadina”.
E lo ha fatto con un corposo volume, una miscellanea, florilegio di brani diversi, raccolti insieme e accomunati dalla lingua usata; lingua che diventa un formidabile strumento di diffusione del sapere, se solo la si consideri non museificata, imbalsamata, cioè immobile, inerte nel suo stanco perpetuarsi o sopravvivere a sé stessa, ma come materia viva, cultura fermentante di un popolo, sua riappropriazione identitaria. Si tratta insomma non di stereotipi, anacronismi, mero divertissement, bensì di letteratura, disimpegnata, ma di sicuro interesse. Il presente repertorio linguistico espressivo assume una doppia valenza: quella di recupero memoriale per chi è agé, e quella di scoperta, riproposizione delle radici, per i più giovani, sol che questi ditteri, modi di dire, aneddoti e tranches de vie siano guardati come strumenti in grado di attivare processi collettivi.
Nel libro sono proposte quattro commedie, ovverosia farse in dialetto galatinese: si comincia con “Reparto Ortopedia” (in tre atti), poi si passa a “Befana miliardaria a Corte Vinella”(tre atti), poi a “La telefunata” (in quattro atti), e quindi “Natale tra vecchie comari” (in due atti), tutte scritte interamente dall’autore. Le poesie sono: “Poveru mmie”, “L’urtima taranta” che è un vero poemetto in dialetto al centro del quale è il mitico animale, “Pizzaca, Taranta beddhra!”, “Vulia cu èggiu”. A contrappuntare i testi, numerose fotografie in bianco e nero davvero pregevoli, che provengono dal patrimonio comune galatinese. Nella seconda parte del libro, viene pubblicata una sezione dedicata ai Modi di dire galatinesi, una ai Proverbi, una alle Filastrocche, Ninnananne, scioglilingua e Indovinelli, e un’altra, gustosissima, ai Soprannomi galatinesi, divisi in ordine alfabetico. A questo punto del libro, Duma propone la coniugazione di alcuni verbi in dialetto e qui la trattazione si fa ancora più divertente, per sfociare poi nella goliardia e nella risata crassa con “Frizzuli dialettali”, e con l’esilarante “Ma cce cazzu!”. Nell’ultima parte del libro, trovano posto una foto dell’indimenticato pasticcere galatinese Andrea Ascalone, scomparso l’anno passato, ed una scheda bio-bibliografica dell’autore.
Questo patrimonio di fiabe e proverbi acquista un enorme significato non solo storiografico ma anche valoriale, e riallaccia i fili consunti di una comunità che vi si ritrova, che si specchia in questo “come eravamo”, con il sorriso nostalgico e bonario dell’uomo della strada ma anche con la riflessione del ricercatore, dello studioso.
Così il libro è in grado di suscitare sentimenti che credevamo relegati nel passato, perché riesce ad accendere “la miccia esplosiva riposta nel già stato”, per citare Walter Benjamin . E tali sentimenti sono profonde scaturigini dell’immaginario collettivo e della enorme ricchezza che è il deposito culturale di un territorio.