L’organizzazione del lavoro – Il Maestro
di Mario Colomba
L’organizzazione del lavoro nel settore edile (ma anche nelle altre categorie artigianali) era di tipo gerarchico, piramidale, e faceva capo ad un unico soggetto. Il Maestro era solitamente una persona di notevoli competenze sia specificatamente tecniche che amministrative. In pratica era un imprenditore dotato di facoltà organizzative, capace di direzione tecnica ed amministrativa, spesso acquisite per discendenza familiare, direttamente dal padre o da un parente prossimo e, comunque, da un altro maestro che ne aveva curato la formazione e la crescita culturale.
Le caratteristiche personali tecnico-culturali-morali del maestro erano quelle tramandate da tante generazioni e abbastanza corrispondenti alla connotazione formulata da Vitruvio “…non sia avido o con la mente preoccupata di ricevere gratificazioni, ma tenga con decoro la sua posizione ben curando la propria reputazione. Nessun lavoro può condursi a buon fine senza onestà e incorruttibilità” e, sempre secondo le raccomandazioni di Vitruvio. “…e i capicostruttori stessi non avrebbero fatto scuola a nessuno che non fosse loro proprio figlio o parente, ma poi li allevavano in modo che riuscissero buoni uomini “.
Generalmente era una figura carismatica che si faceva carico dei problemi anche personali dei suoi dipendenti, tanto da poter disporre di questi con la stessa ed anche maggiore autorità del padre di famiglia dal quale riceveva ampia delega all’uso ove necessario anche di maniere forti come avveniva normalmente anche per gli scolari che venivano affidati al maestro al quale nessun genitore si permetteva di rimproverare l’uso di qualche scappellotto.
Non era infrequente che il maestro, come datore di lavoro, venisse anche investito della responsabilità di recupero di qualche ex detenuto perché venisse ricondotto al mondo del lavoro, spesso con sorprendenti risultati di integrazione.
La possibilità di ottenere nuove commesse o nuovi appalti dipendeva non solo dalla competenza dimostrata in precedenti realizzazioni ma anche dalle sue qualità morali e dalla stima di cui godeva nella società.
A questi veniva riconosciuta automaticamente una autorevolezza sociale, una rispettabilità ed un prestigio corrispondenti alla qualità ed alla importanza delle opere precedentemente realizzate, cioè alla capacità dimostrata sul campo, alla provata esperienza.
Tuttavia, non era per niente facile immettersi nell’attività produttiva, pur con la necessaria stima della collettività, senza adeguate referenze. Per questo, aver realizzato opere importanti per conto di personaggi celebri o notoriamente conosciuti, che avevano un notevole ascendente sulla cittadinanza, contribuiva ad accrescere l’affidabilità e costituiva una sorta di referenza, come reminiscenza di una sorta di “patronato” di romana memoria, utile anche per proporsi e proporre la propria opera presso nuovi clienti anche di altri paesi.
Il maestro, oltre ad essere il detentore dei beni strumentali necessari alla produzione e di un minimo di capitale che gli permettesse di anticipare le paghe settimanali degli addetti alle sue dipendenze ed il costo dei materiali impiegati, era, certamente, una persona dotata di ingegno e di spiccata sensibilità, non rara nell’ambiente artigianale, dove la ricerca della perfezione e l’apprezzamento dei canoni estetici espressi nelle varie attività creative erano condensate nel bagaglio culturale personale (background).
Pur essendo condizionato dal rispetto e dalla conservazione delle conoscenze tradizionali, era aperto al forte richiamo di tutto ciò che rappresentava il progresso ed era stimolato da quell’ansia creatrice che è propria degli innovatori convinti. Tuttavia nelle sperimentazioni e nell’attuazione delle innovazioni (basta pensare alle innumerevoli varianti delle volte lunettate) non sempre l’esito risultava positivo e per questo veniva accettata una certa tolleranza, condensata nel proverbio dialettale “ci face pane e cofane li sbaglia” (chi fa il pane e il bucato può sbagliare) come dire :solo chi non fa niente non sbaglia mai.
Era, generalmente, una persona dotata di profonda umanità per cui era benvoluto dai suoi dipendenti con cui, nel rispetto dei rispettivi ruoli, sorgevano spesso vincoli di amicizia e familiarità. La sua provata onestà era dimostrata dal fatto che non venivano mai registrati arricchimenti improvvisi e che la mole delle opere, anche notevole, prodotta con il coinvolgimento, senza corrispettivo, dell’intero proprio nucleo familiare, gli procurava una certa agiatezza, non certo la ricchezza. Era dotato di coraggio nell’intraprendere, di passione per l’arte con le sue regole e di una buona dose di ambizione per conseguire il consenso e la stima necessarie non solo per lo sviluppo della propria attività ma anche come mezzo di distinzione e superamento dello stato sociale attraverso il riconoscimento del proprio talento e delle proprie capacità realizzative.
Soprattutto, però, era il geloso custode delle norme e delle tecniche non scritte dell’arte muraria che gli permettevano anche, in assoluta autonomia, di realizzare importanti opere pubbliche e private, utilizzando l’esperienza accumulata dalle precedenti generazioni che gli avevano tramandato, nel bene e nel male (cioè con le esperienze positive e negative), le informazioni orali e le conoscenze su tutto ciò che era stato costruito, necessarie per perseguire il fine ultimo della firmitas – utilitas – venustas ( stabilità – utilità – bellezza), sempre secondo le raccomandazioni di Vitruvio.
Il maestro trasmetteva tutto ciò, insieme ai cosiddetti segreti del mestiere, a quei soggetti (discepoli) che riteneva più dotati non solo di talento naturale ma anche di interesse e curiosità, inclini e capaci di recepire e ritrasmettere successivamente quanto veniva loro rivelato: cioè un apparato di regole generato dalla conoscenza degli effetti (L. B. Alberti: è la conoscenza degli effetti che genera l’apparato di regole cui deve sottostare chi costruisce), dall’esperienza, cioè dalla verifica sul campo della teoria, che in chissà quante occasioni aveva prodotto esiti infelici prima di pervenire a risultati definitivamente positivi.
Per questo c’era da parte degli interessati (discepoli-apprendisti) una grande attenzione nell’apprendere tutto ciò che il maestro insegnava loro giorno per giorno e nel ripeterne non solo gli insegnamenti ma anche i comportamenti morali. poiché l’apprendimento delle regole dell’arte rappresentava un possibile avanzamento anche sociale oltre che professionale; si faceva di tutto per essere nelle grazie del maestro, dimostrando innanzitutto buona educazione, obbedienza e rispetto.
Il rispetto consisteva principalmente nel non mettere in discussione gli apprezzamenti anche negativi del maestro ma nell’accettare lealmente le conseguenze dei propri errori assumendosene le relative responsabilità anche perché non si era ancora affermata la cultura o meglio l’andazzo della giustificazione a tutti i costi col risultato, come avviene ai nostri giorni, di una illimitata impunità.
Non era infrequente, però, il caso di chi, bruciando le tappe, approfittando di favorevoli transitorie occasioni, si organizzava a lavorare in proprio, per poi tornare, a volte, dopo esperienze infelici, al lavoro subordinato (lu discipulu diventa mesciu e ti mesciu torna a ‘mparare) o di chi assumendo una autonoma capacità produttiva non mostrava più alcuna riconoscenza per la formazione ricevuta, disconoscendo anche l’origine della propria competenza, fornendo così, a quanti invece ne erano informati, la dimostrazione della propria profonda ignoranza anche di quei principi di onestà e lealtà che qualcuno aveva tentato di insegnargli, dando così credito a quell’antico adagio “l’ingratitudine umana è più grande della misericordia divina”.
All’interno della struttura produttiva esisteva un’atmosfera di sana competizione in cui emergevano le migliori capacità tecniche ed attitudinali personali, corrispondenti non solo ad una maggiore produttività (destrezza, velocità di esecuzione, precisione, ecc.) ma anche a sensibilità e talenti insospettati che progredivano col tempo e con l’acquisizione di sempre nuove conoscenze alimentate dalla passione per l’arte, da una moderata ambizione e da una inappagata curiosità che resta sempre la base della conoscenza. Sensibilità e talenti che si manifestavano anche nella continua ricerca ed acquisizione del gusto del bello che non era riferito soltanto all’ambito figurativo, per esempio nella scelta della sagoma di una voluta di un capitello o di un pezzo scorniciato, ma anche nella competenza per saper apprezzare un “pezzo” di musica operistica eseguito da una tale banda musicale o tal’altra, per la quale si faceva il “tifo” ai piedi della cassa armonica in occasione delle feste di paese.
Da parte del maestro queste caratteristiche individuali venivano ricercate e recepite come sinonimo di intelligenza e disponibilità all’apprendimento e costituivano l’indispensabile premessa per conseguire quel trasferimento di capacità che si ripeteva di generazione in generazione e che rappresentava la naturale gratifica degli insegnamenti, fino all’orgoglio, specialmente dei maestri di bottega, di vedersi anagraficamente sostituire da chi era stato professionalmente allevato come una propria creatura.
Il cantiere, anche di piccole dimensioni, oltre ad essere una scuola di formazione professionale era una scuola di vita. La prima regola fondamentale era il rispetto. Rispetto non solo per l’anzianità anagrafica ma soprattutto per le capacità tecniche. una parola fuori posto o un comportamento screanzato potevano costituire una bocciatura definitiva ed una emarginazione in ruoli secondari e chiusi a qualsiasi prospettiva di miglioramento nell’organizzazione produttiva o addirittura il licenziamento in tronco.
La fame e una certa dose di ambizione erano le molle che facevano tendere al progresso e all’espansione della capacità produttiva, sempre commisurata alle reali possibilità tecniche ed economiche del maestro. Queste caratteristiche erano il germe naturale originario dal quale pervenire alla costituzione di una vera impresa industriale intesa come complesso di addetti e beni strumentali razionalmente coordinati ai fini della produzione in cui il maestro-imprenditore aveva trovato, fino agli anni ‘90, il massimo riconoscimento con l’inclusione, nei vari scaglioni, nell’Albo Nazionale dei Costruttori, prima della sua soppressione con la nuova legislazione dei LL.PP., in cui viene privilegiato l’aspetto eminentemente finanziario e capitalistico delle strutture produttive anche nel campo delle costruzioni, eliminando il merito e le capacità individuali e collettive e deresponsabilizzando le persone, con i risultati che sono facilmente riscontrabili sia in termini di qualità che di quantità della produzione, di controllo della spesa e di corruzione dilagante.
Il libro può essere acquistato presso la libreria “I Volatori” di Nardò