di Igor Agostini
Quando in italiano, genericamente, si parla di Cernia, si pensa ad una specie ittica ben precisa: la cosiddetta Cernia bruna, il cui nome scientifico è Epinephelus marginatus (Lowe, 1834), purtroppo oggi sempre più rara a motivo della pressione esercitata da parte della pesca, in tutte le sue forme.
In realtà, però, la Cernia bruna costituisce solo una delle sei specie autoctone di Cernie nei mari italiani e che il Salento, sul versante ionico, possiede ancora tutte.
Fra di esse, v’è la Cernia bianca, che, tuttavia, a motivo del colore della sua pelle, meglio sarebbe denominare Cernia bronzina (dal nome latino, Epinephelus aeneus, Geoffroy Saint-Hilaire, 1809), come ancora faceva, alla fine del secolo scorso, il grande studioso dalmata Pietro Doderlein (1809-1895).
Il suo tratto inconfondibile sono due sottili linee bianche – più visibili nei giovani che negli adulti, ma sempre presenti – che, quasi come solchi, attraversano, partendo dall’occhio, opercolo e preopercolo.
Molto genericamente, nei vari repertori sui pesci del Mediterraneo, si trova indicato, quale nome dialettale per designare questo serranide, quello di ‘Dotto’.
Il che è vero, ma non è tutta la verità, anzi ne è una parte esigua, perché il termine italiano ‘Dotto’, così come la corrispettiva forma dialettale salentina Dòttu (o Ddòttu), possiede una gamma di significati estremamente più ampia e, anzi, seppur parzialmente, persino equivoca.
Rinviando ad un’altra occasione un’indagine a tal proposito, per quel che riguarda questa scheda, basterà dire che in molte località salentine, ed anche ad Otranto, questo nome è talvolta utilizzato per designare anche la Cernia bianca, ma non è riservato esclusivamente ad essa: infatti, il termine ‘Dotto’ è usato molto genericamente, spesso anche da pescatori esperti, per indicare alcune (e, in taluni rari casi, tutte) le specie di Cernia che non siano la Cernia bruna, la sola qualificata propriamente Cèrnia, o Cèrgna (in accordo, d’altronde, con la tradizionale idea che il Dòttu, o Ddòttu sia il maschio della Cernia, certo erroneamente, perché – come è noto agli stessi pescatori – le Cernie sono ermafroditi).
Esistono, invece, nomi molto più precisi per indicare la Cernia bianca: in Salento, i più diffusi (ma per nulla affatto i soli) sono quello gallipolino (ma largamente attestato altrove) di Mozzàcanasse e quello leucano di Spunnanasse: quest’ultimo deriva dall’azione esercitata dalla Cernia bianca all’interno della nassa, da dove, una volta catturata, cerca di uscire, prendendo lo slancio, attraverso colpi violenti esercitati sulla stessa, mediante il capo, particolarmente stondato, soprattutto negli esemplari adulti (donde la regola: ‘Pesce grande nassa piccola, pesce piccolo nassa grande’)[1].
Ma, se con i più vecchi pescatori otrantini parlerete di Spunnanasse, o anche di Mozzàcanasse, sarà estremamente difficile che vi intendano. Questo non perché questo pesce sia, effettivamente, ad Otranto molto più raro che a sud della Palascía (la sua zona di massima concentrazione è, difatti, nella Provincia leccese, da Porto Cesareo sino al Capo di Leuca), ma perché qui il nome che è utilizzato per designarlo è un altro: Pèšce mármuru, italianizzato in Pesce marmo.
Qui e solamente qui, perché il nome di Pesce marmo è conosciuto esclusivamente ad Otranto.
All’origine del termine stanno, senz’altro, i tratti marmorei del corpo, peraltro già rilevati da Doderlein: «Il colore del corpo negli esemplari del nostro Museo è verde-oliva o grigio-verdastro, marmorato di più chiaro e col ventre biancastro».
Ma si faccia attenzione ad una cosa: se a qualcuno dovesse capitare di parlare con i pochi pescatori otrantini che ancora conoscono il nome di Pesce marmo, chiedendo loro di quale pesce si tratti, riceverà un’informazione apparentemente enigmatica, eppure decisiva: che si tratta di un pesce il cui peso va dai sei chili circa sino ai quindici, o poco più.
E quand’era più piccolo – ci si chiederà?
La risposta sarà una non risposta: il Pesce marmo è quello, punto e basta.
Di questo, però, non c’è da stupirsi: la classificazione dialettale segue regole diverse da quella scientifica e distingue talvolta, quali specie a sé, anche pesci che nella classificazione scientifica sono riuniti sotto la medesima specie.
Non si tratta di un errore, bensì solo di una diversa accezione di specie: la specie scientifica non combacia perfettamente con quella della nomenclatura popolare, non tanto ed anzitutto per la classificazione che si porta dietro, ma nel suo stesso concetto, perché per il pescatore sono definitori della specie l’età e l’habitat, spesso considerati interdipendenti (vi è una scienza precisa che oggi studia la correlazione fra classificazione scientifica e popolare, anche se i passi da fare sono tanti: la Folkbiology).
Così, gli esemplari più piccoli di Cernia bianca, se ne verranno mostrate le foto ai pescatori otrantini, saranno designati col nome di Dòttu, forse seguito da qualche aggettivo, posposto al nome, al fine di distinguere la Cernia bianca dagli altri ‘dotti’.
Questo spiega quando, nel corso delle mie indagini, nonostante avessi esibito loro foto di tutte e sei le specie di Cernie, gli ultimi grandi pescatori otrantini non riconoscevano in nessuna di esse il Pesce marmo: il motivo è che avevo con me solo foto di Cernie bianche in stato giovanile.
Ma, oltre a questo, c’è da fare i conti con la rarità del pesce, ad Otranto, cui sopra accennavo, ed anche con una cultura popolare che si sta ormai sgretolando, sulla scia della crisi irreversibile della piccola pesca.
Innumerevoli pescatori del luogo, anche di grande esperienza, che pure ho intervistato, non erano neppure in grado di identificare il Pesce marmo, o perché, con grande onestà, dichiaravano di non averlo mai visto (Angelo Sammarruco), oppure perché, nel tentativo di rispondere, lo confondevano grossolanamente (in un caso, fu identificato con un esemplare estero, raffigurato in foto, di Cernia dorata; in altri, il pesce venne ricondotto addirittura a generi diversi e presentato come appartenente alla ‘famiglia’ dei Dentici o, anche, dei Merluzzi).
L’identità del Pesce marmo mi è stata svelata da Antonio Milo, detto Uccio Capoano, il più anziano pescatore otrantino di nasse, e da Franco Muoio, grande sommozzatore.
È stata la loro precisione, sono stati i ‘no’ con cui Uccio, Franco, ma anche Angelo, respingevano l’identificazione del Pesce marmo con tutti gli esemplari delle sei specie di Cernia presenti nel mio (assicuro, alquanto voluminoso) dossier di foto, che mi hanno spinto a non accontentarmi e, poi, un po’ per fortuna, un po’ per esclusione, un po’ per congettura, ad ipotizzare che il Pesce marmo potesse essere un esemplare adulto di Cernia bianca.
Dalla mia, però, avevo ancora un suggerimento prezioso, trasmessomi da Franco: il dettaglio della testa stondata, che non solo, un giorno, mi richiamò improvvisamente la motivazione alla base della nominazione Spunnanasse a Leuca, ma potei mettere in correlazione con un fenomeno largamente attestato negli Sparidi (in particolare nei Pagri e nei Dentici), per cui, per ragioni con ogni probabilità legate allo sviluppo delle funzioni predatorie, crescendo, la fisionomia tipicamente fusiforme della Cernia bianca si attenua a favore di una forma leggermente più arrotondata e con un caratteristico scalino fra la testa ed il muso: forma che potei verificare puntualmente in esemplari di grossa taglia.
Il nome di Pesce marmo è ormai quasi scomparso: è grazie a Uccio, Franco ed Angelo se queste pagine contribuiranno a sottrarlo dall’estinzione; ed a loro sono dedicate.
[1] Nonostante l’affinità del nome, diversa è la spiegazione che sta dietro al termine gallipolino di Mozzàcanasse, a mio avviso estremamente problematico, legato ad una pretesa azione di perforazione esercitata dal pesce dall’esterno delle nasse, allo scopo di mangiar i pesci ivi catturati.
Fantastico articolo! Particolarmente interessante l’approfondimento sulle diverse concezioni della nomenclatura rispetto a quella scientifica.
Ciò spiega (credo) ad esempio l’uso diffuso tra i Gallipolini di chiamare Mofia le grosse ricciole, Capozze i grandi cefali autunnali o Mataloni i polpi di una certa taglia.
Per quel che ne so io le capozze sono una varietà di cefali che nuotano quasi in superficie (mentre il cefalo classico nuota in profondità), altra varietà di cefalo, peraltro la più buona da mangiare arrosto, è l’AURUTA, che è caratterizzata da una macchia rossa sulle branchie.
Interessantissimo articolo.
Articolo stimolante