di Gianfranco Mele
Avvertenza preliminare: la Mandragora autumnalis è una solanacea dagli effetti estremamente pericolosi (vari effetti neurotossici, fino all’arresto cardiaco: si rimanda per info dettagliate su queste caratteristiche alle varie trattazioni sia divulgative che scientifiche di farmacologia e tossicologia, molte delle quali presenti anche in rete). Si sconsiglia perciò vivamente qualsiasi forma di sperimentazione suscitata da curiosità.
Introduzione
In Puglia sono documentate e testimoniate presenze di Mandragora autumnalis nella flora spontanea a partire dalle ricerche di botanici e letterati cinquecenteschi. Da una serie di ricognizioni nonché dai testi di botanica locale risultano ancora discrete presenze di stazioni di questa pianta, nonostante una diminuzione rispetto ai secoli passati che è correlabile a diversi fattori ivi compresa la scriteriata abitudine dei diserbi chimici.
E’ ormai un dato accertato il fatto che le varie solanacee psicoattive (Dature, Giusquiamo e Mandragore) abbiano avuto un ruolo nella stregoneria medievale e post-medievale. Gli effetti di queste piante sono di tipo narcotico-allucinogeno o, che dir si voglia, delirogeno, con complicanze che possono portare all’arresto cardiaco, e dunque è sconsigliabile nel modo più assoluto ogni tipo di approccio dettato da curiosità o voglia di sperimentazione. Attraverso una serie di sperimentazioni che a volte costavano care, e quindi innumerevoli tentativi ed errori anche letali, a partire dall’antichità furono stabilite conoscenze approfondite (e poi, via via disperse) di questa tipologia di piante, impiegate sia in medicina (principalmente come anestetici, ma anche, a dosaggi inferiori, come broncodilatatori, antiinfiammatori, ecc.) che nell’ambito della stregoneria allo scopo di ottenere alterazioni degli stati ordinari di coscienza.
La Mandragora nella stregoneria salentina
In uno scritto di prossima pubblicazione parlo dettagliatamente della presenza delle varie Solanacee psicoattive nell’esperienza della stregoneria salentina; in questa sede riporterò alcuni passaggi significativi rapportabili al possibile utilizzo specifico della Mandragora.
Solanacee tropaniche di vario genere paiono inequivocabilmente presenti nella composizione di unguenti, polveri e bevande afrodisiache e affatturanti. In un testo del Chiaia si legge di una misteriosa “Erba del trasporto” utilizzata da un masciàro pugliese[1] che potrebbe essere la Mandragora stessa o altra solanacea dagli effetti analoghi, mentre nei resoconti forniti al tribunale del santo Officio della diocesi di Oria tra ‘600 e ‘700, si leggono esperienze significative, benchè, ovviamente, mediate dalla penna dell’ inquisitore. Non sappiamo quali Solanacee in particolare rientrassero nelle varie composizioni (probabilmente tutte quelle di tipo tropanico disponibili e reperibili, vista l’interscambiabilità a livello di proprietà), ma alcuni passi ci suggeriscono la possibile presenza della Mandragora. Li analizziamo a seguire.
Grazia Gallero viene iniziata come masciàra da Cinzia la Napoletana detta la Pignatara. Nella sua deposizione racconta i particolari della iniziazione, e degli incontri con le altre streghe (masciàre e masciàri). Dopo essersi unti con l’unguento, Grazia e compagni masciàri/e si recano al Ballo, avvolti da una suggestiva atmosfera evocata dagli effetti dell’unzione dell’unguento:
“Et all’ hora cavalcò ciascheduna di noi, come ancora l’ huomini sopradetti asini negri, et ogn’uno sopra il suo, li quali animali ci portarono per aria, et in poco tempo conforme mi parse tutti arrivassimo in un luoco, che mi disse la napoletana chiamarsi la noce di Sobrino, dove ci era oscuro e doppo comparse una certa luce com’un fuoco, che non faceva luce chiara, ma era bastante a poter conoscere le persone, e vedere quanto si faceva in detto luoco, nel quale viddi una quantità di genere d’huomini, e donne tutti ignudi colli capelli sciolti le donne particolarmente, e viddi e conobbi di nuovo li soprannominati compagni, colli quali eramo partiti di questa terra di Francavilla à cavallo in detti asini negri, et in mezzo stava come in un tribunale seduta una brutta forma d’huomo, con diversi altri intorno in piedi, che mi parvero fatti come le figure delli demonij depinti nel quadro, e chiesa di Sant’Antonio Abbate di questa Terra, e la detta Cinzia mi disse, che quello che sedeva in mezzo era il più grande diavolo e che quell’altri brutti fatti erano tutti diavoli”. [2]
Più volte Grazia descrive il rituale dell’unzione a cui segue la partenza per il Ballo:
“Et io mi ungeva col mio unguento et ignuda come di sopra usciva dalla casa dove abitava, e fuori dalla porta d’essa ritrovava il detto Martiniello, sempre in forma di asino negro, sopra del quale cavalcava e mi portava al sopradetto luoco e nell’istesso tempo ci univamo in qualche crocevia colli sopra nominati […] et andavamo al detto luoco di Sobrino, dove retrovavamo la stessa moltitudine di gente come di sopra […] et alle volte vedeva come si diceva la messa, e s’alzava in loco dell’ostia una cosa, che pareva negra, che non conosceva che fosse, e noi inginocchiati l’adoravamo, e viddi ancora alle volte incensare, come ho visto fare nella chiesa, però con una cosa fetente, e prima s’incontrava il più grande, e poi tutti l’altri diavoli, et in questa maniera continuai ad andare, e fare l’istesse cose”[3]
Il particolare di questo misterioso oggetto innalzato e utilizzato come sacramento nel convegno, “una cosa che pareva negra, che non conosceva che fosse”, più avanti definita come “una cosa fetente” ci suggerisce l’ipotesi di un oggetto che, se non era un simbolo fallico (ipotesi da non scartare assolutamente)[4], non poteva essere altro che una radice scura, nella fattispecie, appunto, una grossa radice intera di Mandragora che proprio a causa del suo aspetto particolare, inusuale e inquietante aveva evocato in Grazia quelle definizioni.
Composizione degli unguenti: il possibile ruolo della Mandragora
Nel corso della sua deposizione, a richiesta dell’ inquisitore, Grazia fornisce anche una descrizione della composizione dell’unguento:
“Nel fare il detto unguento, conforme m’imparò la detta Cinzia, ci vogliono due cose, cioè oglio di Mastice, e succo di carne di creatura morta senza battesimo, et in mancanza di questo succo di carne d’homini uccisi, e si fa in questa maniera, primo compramo l’oglio di mastice dalla speziaria, e per la strada chiamiamo trè volte il Diavolo, dicendo della crocevia trè volte, Diavolo vieni, Diavolo vieni, Diavolo vieni, doppo c’informamo dove stanno seppelliti le creature senza battesimo e propriamente ce lo viene a dire l’istesso diavolo, e noi andammo al luoco, e per la strada in una crocevia, chiamiamo dell’istessa maniera trè volte il diavolo, il quale comparisce in forma humana, colli piedi di papara e ci accompagna al luoco dove sta seppellita la creatura, e ciò di notte tempo, e da là ci pigliamo quella creatura, la quale poi in una notte vigilia di festa solenne, come di Natale, Epifania, Pascha, Ascensione, et altre simili feste solenni dell’anno, pistamo al mortaro la detta creatura, e ne cavamo il succo, stringendolo dentro una pezza, e fra tanto pistamo, chiamamo trè volte il demonio, come di sopra, il quale viene nell’istessa forma et assiste quando mescolamo l’oglio suddetto col predetto succo, et il detto Demonio colli sue mani lo termina a finire e se ne parte”.[5]
Un passo singolarmente cruento, che tuttavia lascia perplessi e appare stridente per diverse questioni: farmacologicamente, una composizione simile giustifica l’esperienza allucinatoria del volo, delle visioni e quelle dello sdoppiamento descritte sempre in relazione all’unguento stesso? La “creatura morta” viene trattata poi, nella descrizione, si badi bene, esattamente al pari di una radice o un’erba, pestata nel mortaio.[6] Impensabile anche che la donna abbia potuto trattenere un cadavere per un periodo imprecisato sino al giungere del momento utile, la vigilia della festa solenne di cui si parla. Allora, siamo di fronte alla trascrizione letterale di una deposizione, o è possibile che vi sia una alterazione da parte dell’inquisitore o dello scrivano, causata dalla volontà di far apparire quanto più possibile efferati i comportamenti della donna, o anche, semplicemente, da una mal comprensione delle parole della donna stessa, o del senso che lei dava alla sua esposizione dei fatti? Il grasso o il sangue di bambini non battezzati ricorrono spesso, come ingredienti, nelle varie deposizioni fornite da streghe di diverse aree geografiche e a questo proposito il Pierini fa notare che deve trattarsi di forzature operate dagli inquisitori[7] mentre Gianluca Toro è del parere che possa trattarsi di giochi di parole o di elementi evocati in ogni caso a scopo di teatralità.[8]
Anche nella deposizione di Cinzia Maietta, sessantenne, nata a Napoli e sposata a Francavilla Fontana con Antonello Dell’Aglio, è descritta la composizione dell’ unguento facendo riferimento a un “figliolo morto senza battesimo” dissotterrato e pestato al mortaio:
“per fare l’oglio andammo unitamente dietro la chiesa di sant’Antonio Abbate, e disseppellimmo uno figliolo morto senza battesimo, dove sapeva la detta Caterina essere sepolto, e per strada chiamammo cinque volte il diavolo, dicendovi, diavolo vieni, che mò è tempo che volemo fare l’oglio e portato in casa il figliolo, andammo insieme alla speziaria per comprare unguento d’armilio, e cinque altre volte si chiamò il demonio, e ritornate in casa con l’unguento, pistammo quel figliolo, e ne cavammo il succo e l’avanzo del corpo del figliolo lo buttammo al fuoco e mentre mescolavamo il succo coll’unguento suddetto si chiamava sempre il demonio, il quale comparve in forma humana, et assertì, e toccò colle mani il pignatino dove havevamo posto l’oglio trè volte girandolo, e dicendone, che ce lo dividessimo per servircene quando veniamo chiamati”. [9]
Il filosofo seicentesco Francis Bacon si sofferma anch’egli sulla questione dell’unguento delle streghe e sui suoi ingredienti, osservando che gli effetti di detto preparato non possono essere ottenuti da composti ottenuti con “grasso di bambini portati fuori dalle loro tombe”, ma che è più probabile che la composizione sia fatta da “medicine soporifere” come: “giusquiamo, cicuta, mandragora, datura, tabacco, oppio, zafferano e foglie di pioppo”.[10]
Occorre ribadire che la descrizione degli unguenti ottenuti dal “grasso dei bambini morti non battezzati” potrebbe anche essere una forzatura introdotta a mò di clichè dagli inquisitori dopo la lettura della varia documentazione a loro disposizione sulla stregoneria: nel caso delle testimonianze di sopra riportate, raccolte dal Santo Officio della Diocesi di Oria, siamo a cavallo tra ‘600 e ‘700 e gli inquisitori hanno a disposizione un’ampia letteratura tra cui il notissimo Malleus maleficarum che recita appunto:
“Le streghe, per istruzione del diavolo, fanno un unguento con le membra dei bambini, sopra tutto di quelli uccisi da loro prima del battesimo, spalmano di questo unguento una seggiola o un pezzo di legno e fatto questo si levano in aria sia di giorno che di notte, visibilmente o anche, se vogliono, invisibilmente…” [11]
Tuttavia, questo ricorrere diffuso, nei processi, di descrizioni di unguenti ottenuti con “grasso di bambini morti e non battezzati”, e “pestati al mortaio”, fa pensare ad una reinterpretazione fuorviante e strumentale, di ricette che impiegano radici notoriamente antropomorfe quali sono appunto le radici di Mandragora. La Mandragora è notoriamente associata ad esseri antropomorfi sotterranei, e anche, in vari casi, ai “bambini morti non battezzati”, e alle anime dannate in genere. La strumentalità può essere anche duplice: da parte degli inquisitori finalizzata a dimostrare le efferatezze delle streghe. Da parte esoterica, utilizzata per intimidire e scoraggiare i profani dagli utilizzi.
La “creatura morta pestata nel mortaio” (trattata effettivamente come un’erba o una radice) dalla quale viene ricavato un “succo”, è una immagine che rievoca suggestivamente la Mandragora, così come, le descrizioni degli effetti e del potenziale dell’unguento ricavatone, ricordano questa pianta o altre simili. Del resto l’identificazione delle Mandragore con i morti sotterrati sembra essere antichissima: Filone di Carpasia (IV secolo d.C.), commentando il Cantico dei cantici, aveva assimilato le Mandragore ai morti sepolti nell’ Ade che attendono la resurrezione. Ma anche Matteo Cantacuzeno (XIV sec.), sempre commentando il Cantico, dice che le Mandragore significano le anime del Limbo e del Purgatorio, perchè queste anime giacciono come le mandragore seppellite nelle viscere della terra.[12] Questo tema sarà ripreso poi anche da commentatori successivi.[13]
Si ritrovano questi paragoni del resto anche nelle credenze popolari: da una ricerca antropologica sulle tradizioni emerge che in alcune zone dell’ Appennino parmense i montanari dicono che la Mandragola “ha un’anima”, “ha le forme di un bambino in fasce, ed è prodotta da un infanticidio commesso sul luogo”.[14]
Per completezza informativa sulla questione unguenti, occorre comunque citare anche la tesi della Murray, la quale ritiene, curiosamente, rispondente a verità l’utilizzo del grasso dei bambini morti, dedicando a questo argomento più di due pagine del suo capitolo descrittivo dei sacrifici. Per la Murray si tratta di atti di magia simpatica e/o sacrificali: l’autrice non considera affatto la componente e la necessaria implicazione psicoattiva dell’unguento. [15]
Ma ritorniamo al Cantico dei Cantici: esso è composto da 8 capitoli contenenti poemi d’amore in forma dialogica tra un uomo (“Salomone”) e una donna (“Sulammita”). Così recita la traduzione di un suo passo:
“Vieni o mio diletto, andiamo fuori nella campagna: facciamo nostra dimora per le ville. Al mattino alziamoci (per andare) alle vigne; vediamo se la vigna è fiorita; se i fiori van partorendo frutti; se i melagrani sono in fiore; ivi darò a te le mie mammelle. Le mandragore spirano odore: nelle nostre porte (son) tutti i pomi: e i nuovi, e i vecchi, a te, o mio diletto, li ho serbati”.
Matteo Cantacuzeno e altri commentatori, fra cui Girolamo Coppola, un chierico settecentesco, interpretano in chiave allegorica il Cantico, identificando la Sposa ora con la Chiesa, ora con Maria che partorirà il Cristo atteso dalla Chiesa. Questo il commento del Coppola, che a sua volta cita anche il commentario del Cantacuzeno stesso:
“Non fu segnalatissimo il favore di racconsolar l’anime imprigionate nel Limbo, o nel Purgatorio? E quello favore attribuir si deve al suo latte; Misterioso accoppiamento, che fa la Vergine sotto nome di Sposa nelle Sacre canzoni, di mammelle e di mandragore: Mane surgamus ad vineas, dabo tibi ubera mea, mandragora dederunt odorem suum. Figlio, mentre nell’alba della tua vita ti somministrerò le mie poppe, e ti pascerò col mio latte, come da celeste pioggia innaffiate germoglieranno le mandragore nelle nostre campagne, e spiegando i lor fiori, profumeranno con gli odori quell’aria. Ma perchè le mandragore solamente, e non altre piante Signori, il mistero è bellissimo; la Mandragora è una pianta, che nella sua radice seppellita in terra rappresenta (come osservano i semplicisti) la perfetta forma d’un corpo humano; discorre allegramente di queste piante su questo passo Matteo Cantaguzeno, e dice, che le mandragore significano le anime del Limbo, e del Purgatorio, perchè queste come le mandragore seppellite nelle viscere della terra si giacciono: illorum etiam, qui ad inferos descenderunt facit hic mentionem, per hanc herbam, quae in radice humanam refert formam, quaeve radices in terra defossas habet. Et eccovi dichiarato il mistero: le mandragore rinfrescate dal latte della sposa germogliano, e fiorite spargono soavissimi odori per l’aria, perchè il purissimo latte di Maria, somministrato a suo figlio, penetrando, e nel Limbo, e nel Purgatorio, pria rinfrescò con la viva speranza quell’anime, e poscia col sangue del redentore formato dal suo purissimo latte, fè che germogliassero, e fiorissero con fiori, e germogli di gloria: così conclude lo stesso Cantaguzeno: tempus adesse significat ad inferos defossos liberandi, Salvatore eo usque, etiam per mortem descendente” [16]
Esiste dunque una lunga e antichissima tradizione, anche e specialmente nell’ambito dei commentatori biblici, che identifica le mandragore con i bambini morti e non battezzati (le anime del limbo), e più in generale con i morti seppelliti nella terra, o con le anime del purgatorio. Del resto, sin dall’antichità la Mandragora, pianta dei giardini di Ecate, è rappresentata come un essere sotterraneo antropomorfo, dotato di anima, capace di emettere suoni (il mitologico “urlo” della mandragora estirpata), e persino animabile, nella condizione di Homunculus, una volta dissotterrato tramite procedimenti magici. Da notare, che altre Solanacee tropaniche, in varie parti del globo e in diverse culture, sono relazionate ai morti e agli inferi: è nota la denominazione della Datura stramonium come “erba del diavolo”, la Brugmansia in Perù è chiamata “pianta delle tombe”,[17] gli indiani d’America di diverse tribù utilizzano a livello sciamanico la Datura inoxia per comunicare con i morti,[18] allo stesso modo, in Niger, in alcuni rituali basati sul culto degli spiriti locali, la Datura metel mette in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti. [19]
[1]Luigi Chiaia, Pregiudizi Pugliesi, in: Rassegna pugliese di scienze, lettere, arti, Trani, 1887-88, Ried. a cura di Arnaldo Forni Editore, 1983, pp. 75-76
[2]Atti Curia di Oria, Sortilegi e stregonerie in Francavilla Fontana ai tempi di Monsignor C. Cozzolino, anno 1679, Denuncia contro Nicodemo Salinaro, f. 29
[3]Ibidem
[4]Nele falloforie, processioni solenni in onore di Dioniso e di Priapo, si portavano in processione giganteschi falli in legno. Secondo Karl Kereny, inoltre, il “cuore” che viene salvato e nascosto da Atena a seguito dello smembramento di Dioniso da parte dei Titani, è una metafora per indicare il pene del dio. Nei riti classici greco-romani si sacrificava un caprone e se ne occultava il fallo. Un simbolo o un oggetto fallico (o anche davvero il fallo asportato ad un caprone) può essere dunque quello sacralmente esibito durante la cerimonia descritta da Grazia Gallero.
[5]A.C.O., Denuncia contro Nicodemo Salinaro, cit., f.31
[6]La pratica della pestatura della radice di Mandragora con l’ottenimento del “succo” la si ritrova descritta anche nei Discorsi del Mattioli: “Il succo si cava dalla corteccia delle radici fresche, pestata prima, e poscia stretta per il torchio, il qual fatto condensare al sole,. Si ripone in vaso di terra” (Discorsi di M. Pietro Andrea Mattioli, cap. 78, pag. 604)
[7]Cfr. Pier Luca Pierini, op. cit., pag. 50: Il Pierini commenta che tali improbabili ingredienti “lascerebbero talvolta sconcertati se non si considerassero come frutto evidente di pura fantasia e, come abbiamo già avuto occasione di sottolineare, di forzature e “confessioni spontanee” strappate con le pinze di giudici troppo interessato a stabilirne la “indubbia matrice diabolica”. Non si capisce infatti perchè, come scrive il Wyer in epoca non sospetta (1577), le cosiddette streghe sarebbero dovute ricorrere a crimini inutili oltrechè orrendi, quando potevano utilizzare comunissimo olio quale emolliente”.
[8] Gianluca Toro, Sotto tutte le brume sopra tutti i rovi, cit., pag. 46: “Combinando realtà e fantasia, vi erano poi altri ingredienti anch’essi considerati privi di azione farmacologica. Sono a volte definiti mediante giochi di parole, spesso hanno caratteristiche bizzarre, sinistre e teatrali. Sono ingredienti fantastici, ad azione magica (per magia simpatica), che generano suggestione, senso di orrore, repulsione, sgradevolezza e anche sensazionalismo”. Sempre il Toro, (nelle pp. 79-80 della suddetta opera) riporta e commenta il caso di una strega processata a Todi nel ‘400: “Nel 1428 una certa Matteuccia fu processata a Todi e confessò che l’unguento utilizzato per il volo era composto da grasso di avvoltoio, sangue di nottola e di bambini. In questo modo evocava Lucifero che, sotto forma di capro o di mosca, la trasportava al noce di Benevento o in altri luoghi. Naturalmente, in questo come in altri casi, gli ingredienti efficaci erano altri, come filosofi naturalisti e inquisitori ben sapevano. Questi e simili costituenti riportati in altre ricette avevano probabilmente una funzione magico-simbolica o anche teatrale, richiamando alla mente il mondo cupo della strega, ed erano scelti più per suscitare ribrezzo, paura e senso del mistero che per una vera e propria azione farmacologica.”
[9]A.C.O., cit., Denuncia contro Nicodemo Salinaro, ff. 38-39
[10]F. Bacon, Sylvia Silvarum cit. da G. Toro in Sotto tutte le brume sopra tutti i rovi, Nautilus, 2005, pp. 113- 114
[11]Malleus maleficarum, pag. 196
[12] “Illorum etiam, qui ad inferos descenderant facit hic mentionem. Per hanc herbam, quae in radice humanam refert formam, quaeue radices in terra defossas habet, tempus adesse significat, in inferos defossos, liberandi, Salvatore eo usque, etiam per mortem descendente, et in portis nostris in omnia fructuu genera, prope videlicet, est tempus salutis, quemadmodum & ipse Salvator discipuli in lege, dixit.” (Commentario bizantino al Cantico dei cantici attribuito a Matteo Cantacuzeno, sec. XIV – In Canticum Canticorum Salomonis expositio Matthaei Cantacuzeni)
[13] Cfr. Girolamo Coppola Il Mariale ovvero Maria sempre Vergine Madre dell’ Incarnato verbo, et Signora dell’ Universo, Coronata di priovilegi. Discorsi predicabili di D. Girolamo Coppola, Chierico Regolare, Venezia, 1754, pp. 174-175; Marc’Antonio Sanseverino, Quaresimale del P.D. Marc’Antonio Sanseverino, Napoli, 1664, pag. 12
[14]Vittorio Rugarli, La “città d’ Umbria” e la Mandragola, in Rivista delle Tradizioni Popolari Italiane, I, aprile 1984, pag. 342
[15]Margaret A. Murray, The witch-cult in western Europe, Oxford University press, 1921; ed. italiana: Le Streghe nell’ Europa occidentale, Edizioni della Terra di mezzo, Milano, 2012, pp. 129-131
[16]Girolamo Coppola, op.cit., pp. 174-175
[17]Gilberto Camilla, Le piante sacre. Allucinogeni di origine vegetale, Nautilus, Torino, 2003, pag. 209
[18]Roberto Carcano (a cura di), L’alba delle droghe. Contesti, cultura, rituali, Castelvecchi Ed., Roma, 1997, pag. 64
[19]Vittorio Lanternari, Religione, magia e droga: studi antropologici, Manni Ed., S.Cesario di LE, 2006, pp. 171-172.
Sull’argomento cfr. anche: