di Nazareno Valente
Sino all’adozione del telecomando, l’uso del pollice della mano era limitato a poche funzioni di base, prevalente quella di aiutare le altre dita a prendere qualcosa. Da allora s’incominciò a destinarlo allo zapping e, visto che dava buone prove di sé, lo si adoperò in maniera più massiccia per la compilazione e la trasmissione degli sms, con risultati che rasentano la maestria quando si tratta di giovani utilizzatori. Le nuove tecnologie, in definitiva, impongono pure dei mutamenti nell’impiego dei diversi muscoli, oltre che di mentalità, di abitudini e di modi di pensare.
Di pari passo anche l’approccio alle conoscenze si sta modificando: credo lo si debba ad una informazione sempre più rapida e diffusa, che porta all’istante sulla scena degli avvenimenti, e dalla memoria sempre più corta, che brucia tutto in pochi attimi senza consentire, a momenti, neppure il tempo d’accorgersi di cosa sia effettivamente successo.
In questo clima anche i detti popolari vanno modificandosi.
Le parole, sinonimo un tempo di evanescenza perché volavano via con il vento, adesso, memorizzate nei filmati e riproposte in maniera ossessiva, stanno diventando indistruttibili. Al contrario lo scritto, veicolo in passato pressoché unico di conservazione, appare sempre più inconsistente e volatile, essendo oggetto di modifiche, rielaborazioni e cancellazioni.
È quanto di solito avviene in Internet, soprattutto in quella fonte di apprendimento veloce qual è Wikipedia, che ormai costituisce l’enciclopedia di più diffuso accesso, dove con tagli, variazioni e rimozioni sembra si scontrino le diverse correnti di pensiero desiderose di imporre il proprio punto di vista. Almeno questo si evince dall’approfondita ricerca del professor Massimo Marchiori, i cui risultati possono essere consultati sul suo sito Negapedia.org. Di là dalle faide, ciò che se ne può ricavare è, a mio avviso, l’aleatorietà della cosiddetta enciclopedia libera, troppo condizionata da chi è l’anonimo compilatore di turno
Non è per altro questo l’unico tema che spingerebbe ad essere cauti nell’utilizzo d’uno strumento che, riassumendo in sé certo tutti i pregi della rete ma, nel contempo, pure tutti i suoi peggiori difetti, meriterebbe un approccio critico e non di accettazione incondizionata, come spesso avviene. Per accreditare in un qualche modo queste mie perplessità, affronterò la questione limitando l’esame ad un argomento d’interesse comune – le antichità del nostro Salento – per il quale fornirò esempi di imprecisioni, di informazioni distorte e, addirittura, di vere e proprie bufale (o, dette con linguaggio moderno, fake news) che, per evitare giudizi frettolosi, verranno distribuiti in più interventi.
In questo primo incontro esamineremo la scheda dedicata da Wikipedia a Marco Valerio Levino1, un personaggio storico talmente legato alla colonia latina di Brindisi da meritare la dedica di una via cittadina.
In generale essa appare formalmente ben costruita, in quanto fornisce per tutti gli avvenimenti – elencati però senza curare i necessari collegamenti – gli appropriati riferimenti alle fonti letterarie antiche. Le carenze non riguardano però i fatti, quanto i contesti in cui essi vengono situati.
Siamo negli anni in cui Annibale ha invaso l’Italia ed ha inferto dure sconfitte ai romani. Una soprattutto, quella di Canne (216 a.C.), ha fatto vacillare l’Urbe la cui disfatta per alcuni mesi è sembrata prossima. Passato il primo momento di sconcerto, Roma si sta riorganizzando, ed è proprio qui che Valerio Levino entra in scena.
L’autore della scheda ce lo presenta come «un politico e generale romano», il che è vero però, forse, meritevole della precisazione che in quel periodo le due carriere non erano distinte, com’è attualmente, ma al contrario un tutt’uno. Chi voleva infatti aspirare alle cariche pubbliche, doveva prima fare un determinato numero di campagne militari o di anni di servizio militare, e chi accedeva alle più alte magistrature diveniva di conseguenza titolare anche dell’imperium militiae, vale a dire del comando supremo dell’esercito in tempo di guerra. Di fatto, se non si faceva politica, non si poteva diventare generali; se si era generali, lo si era perché contestualmente statisti di alto rango. Basta scorrere le diverse schede di Wikipedia stessa riguardanti i principali personaggi romani dell’epoca per ricavare che praticamente tutti, avendo rivestito le magistrature maggiori, erano al tempo stesso politici e capi militari.
Ritroviamo poi che Levino «era praetor peregrinorum (si occupava, cioè, degli affari riguardanti gli stranieri presenti a Roma)» e, detto in questo modo, sembra che il pretore peregrino fosse una specie di dottore commercialista che aiutava gli stranieri nei loro affari a Roma. Nulla di tutto ciò.
Occorre premettere che la pretura, istituita nel 367 a.C., era una magistratura a cui venne principalmente affidato il potere, che i romani denominavano iurisdictio, con cui dirimere i contenzioni che sorgevano tra cittadini romani Il pretore, chiamato urbanus perché amministrava la giustizia a Roma, aveva infatti l’incarico, quando si verificava una lite, di appurare che la pretesa del denunciante meritasse tutela giuridica, di individuare conseguentemente il principio di diritto applicabile alla specifica controversia (ius dicere2) ed infine, al termine di questa fase (in iure), di nominare con il consenso delle parti un giudice (iudicem dicebat). Il giudice, che era un privato cittadino, verificava a questo punto i fatti dichiarati dalle parti, raccoglieva le prove e pronunciava la sentenza sulla base dei termini giuridici fissati dal pretore.
In seguito, divenuta Roma una città in cui confluivano genti di diversa nazionalità e non essendo quell’unico pretore più sufficiente ad occuparsi di tutte le vertenze («non sufficiente eo praetore»3), fu creato nel 242 a.C. un altro pretore, chiamato peregrino per il fatto che amministrava per lo più il diritto tra gli stranieri («creatus est et alius praetor, qui peregrinus appellatus est ab eo, quod plerumque inter peregrinos ius dicebat»4). Dal pronome indefinito utilizzato (plerumque), discende che il pretore peregrino, oltre ad impostare i termini delle controversie tra stranieri (inter peregrinos), amministrava anche quelli tra stranieri e cittadini romani (inter peregrinos et cives), vale a dire, in definitiva, quelli in cui fosse coinvolto almeno uno straniero. Non gli era in aggiunta neppure preclusa la competenza sui contenziosi tra romani (inter cives) e, quindi, agiva in analogia e con gli stessi poteri del pretore urbano.
L’istituzione di questa carica conseguì anche dal fatto che al diritto romano era estraneo il principio della territorialità della legge, per cui non poteva applicarsi agli stranieri l’ordinamento riservato ai romani (ius civile) e, di conseguenza, dovevano elaborarsi norme specifiche5 per risolvere eventuali conflitti sorti con i peregrini basandosi per lo più sul complesso delle norme giuridiche comuni a tutti i popoli (ius gentium). Tranne questa possibilità concessa al pretore peregrino di avvalersi di una procedura più snella – che con il passare del tempo finì per essere sostanzialmente adottata anche dal pretore urbano – non c’era altra differenza sostanziale, tant’è che era il sorteggio a stabilire quale dei pretori eletti dovesse esercitare il potere di “esporre il diritto” inter cives e chi inter peregrinos et cives.
Qualche anno dopo, nel 227 a.C., si decise di creare due nuovi pretori con il compito di governare le due prime province istituite, vale a dire la Sicilia e la Sardegna. Ai tempi di Levino venivano pertanto eletti quattro pretori che per il 215 a.C. furono appunto il nostro Marco Valerio Levino, Appio Claudio Pulcro, Quinto Fulvio Flacco e Quinto Mucio Scevola («praetores inde creati M. Valerius Laevinus iterum, Ap. Claudius Pulcher, Q. Fulvius Flaccus, Q. Mucius Scaevola»6). Alle idi di marzo, quando essi entrarono in carica, a Valerio Levino toccò in sorte la giurisdizione peregrina; a Fulvio Flacco quella urbana; a Claudio Pulcro andò la pretura della Sicilia e a Mucio Scevola quella della Sardegna («Praetores Q. Fulvius Flaccus… urbanam, M. Valerius Laevinus peregrinam sortem in iuris dictione habuit; Ap. Claudius Pulcher Siciliam, Q. Mucius Scaevola Sardiniam sortiti sunt»7).
Ma in quel particolare momento risultava preminente contrastare lo strapotere cartaginese nella penisola e, quindi, impiegare le principali risorse nella guerra in atto. Levino non poté così esercitare la pretura peregrina perché destinato in Apulia per presidiarla con milizie provenienti dalla Sicilia («Valerium praetorem in Apuliam ire placuit… cum ex Sicilia legiones venissent, iis potissimum uti ad regionis eius presidium… »8)
Anche Wikipedia annota l’utilizzo di Levino in attività militari motivandolo con il «periodo di grande crisi per la Repubblica» e facendoci però in aggiunta sapere che «tutti i magistrati civili ricevettero comandi militari». Quest’ultima affermazione denota indubbie lacune nelle conoscenze dell’impianto costituzionale romano ed è alquanto sorprendente.
A rigor di termini, la pretura non può infatti dirsi una magistratura civile – e basterebbe considerare i pretori, mandati, come già riportato, a governare le province ed a guidare le legioni lì destinate, per rendersene conto. Il pretore aveva sì, come nei casi di quello urbano e peregrino, prevalenti funzioni giusdicenti ma risultava anche collega, benché dotato di minore autorità, dei consoli (conlega minor) e, di conseguenza, quando costoro erano lontani da Roma, era incaricato della loro sostituzione (imperium domi). In aggiunta era anche titolare dell’imperium militiae e quindi legittimato a comandare l’esercito ed ad assumere tutte le competenze derivanti da questo potere.
Il coinvolgimento nelle attività militare rientrava in conclusione nelle specifiche prerogative della carica, e non era certo conseguente ad un fatto estemporaneo come la semplicistica conclusione a cui perviene l’enciclopedia libera lascerebbe far credere. Sintomatico in tal senso il passo di Livio che, nel narrare il fatto, afferma che neppure ai pretori eletti per esporre il diritto fu concessa l’esenzione del governo militare («ne praetoribus quidem qui ad ius dicendum creati erant vacatio a belli administratione data est»9). Chiarendo così in maniera inequivocabile che alla carica spettavano compiti di carattere militare, dai quali i pretori urbano e peregrino erano comunemente esentati.
Se poi, per semplificare, dovessimo considerare i pretori magistrati civili, dovremmo ritenere tali anche le altre magistrature dell’ordinamento romano, e, da quel tutti usato nella scheda, finiremmo per desumere che anche agli edili ed ai questori sia stato assegnato il comando militare. Cosa che, neppure in quel particolare frangente, è avvenuta.
Gli equivoci sulla figura del pretore peregrino si ampliano analizzando la scheda specifica che Wikipedia pubblica per il pretore romano. In questa10 è infatti possibile leggere che il pretore peregrino si occupava «di amministrare la giustizia nelle campagne». Come dire peregrinus contrapposto ad urbanus e, quindi, se questi stava in città, quello errava nelle campagne.
A parte il fatto che non si capisce perché il pretore peregrino dovesse amministrare la giustizia nelle campagne, quando la gran parte (se non la quasi totalità) degli affari svolti anche dagli stranieri avveniva nell’Urbe, questa visione sembra cozzare con le fonti che non hanno mai indicato differenze sui luoghi in cui i pretori svolgevano le loro funzioni. Al contrario, il pretore urbano e quello peregrino amministravano la giustizia a Roma. Lo riferisce a chiare lettere Livio quando ci riporta che i pretori stabilirono vicino alla pubblica piscina il luogo in cui fissare i tribunali dove, per quell’anno, avrebbero detto il diritto («Praetores quorum iuris dictio erat tribunalia ad Piscinam publicam posuerunt… ibique eo anno ius dictum est»11).
Come in altri casi analoghi, questa versione, proposta da Wikipedia sui presunti luoghi di campagna in cui il pretore peregrino amministrava la giustizia, riecheggia un’ipotesi superata, rinvenuta magari in uno dei tanti vecchi testi la cui copia digitale è disponibile in rete. Ed è un chiaro sintomo di come, con un copia e incolla acritico, si finisca per riportare in vita teorie poco attendibili che il mondo scientifico ha ormai abbandonato da tempo12.
Tornando al nostro Levino, Livio ci fa sapere che gli furono affidate anche 25 navi con le quali pattugliare il litorale tra Brindisi e Taranto («et viginti quinque naves datae quibus oram maritimam inter Brundisium ac Tarentum tutari posset»13. Infatti, temendo colpi di mano da parte di Filippo V di Macedonia che nel frattempo s’era alleato con Annibale, il console Tiberio Sempronio Gracco lo aveva mandato a Brindisi per difendere la costa salentina («Brundisium… misit tuerique oram agri Sallentini»14).
L’anno successivo, nel 214 a.C., Levino non poteva essere nuovamente eletto pretore tuttavia, poiché il suo apporto era necessario, gli fu prorogato l’imperium militiae. Era questa una procedura adottata per consentire a chi aveva incarichi militari di portare a termine le azioni belliche che superavano il limite annuale della carica. In questi casi, l’ordinamento romano prevedeva infatti la possibilità di ricorrere alle promagistrature con cui si prorogavano le funzioni militari ai magistrati in scadenza15. E quindi Levino, pur non rivestendo più la carica di magistrato, poté, in forza della prorogatio imperii, continuare le operazioni militari come propretore16.
In quell’anno talmente difficile per Roma la proroga riguardò tutti quelli che guidavano reparti militari, i quali rimasero così nelle rispettive zone d’influenza («Prorogatum deinde imperium omnibus qui ad exercitus erant iussique in provinciis manere»17). Lo stesso capitò a Levino che si vide rinnovato il comando della flotta di stanza a Brindisi, sempre con l’incarico di vigilare su ogni manovra del re macedone Filippo («M. Valerius ad Brundisium orae maritimae, intentus adversus omnes motus Philippi Macedonum regis»18).
Levino diventò quindi di casa a Brindisi19 al punto da eccitare le fantasie dei più noti cronisti brindisini che confezionarono una vicenda epica di cui non si ha alcun riscontro nelle fonti narrative antiche.
Iniziò Giovanni Maria Moricino20 e, naturalmente, gli andò dietro Andrea Della Monaca21 che, com’è noto, ricopiò quasi fedelmente il suo manoscritto. Anche il canonico Pasquale Camassa (figura n. 1) — per il quale, serve ricordarlo, noi brindisini nutriamo una più che giustificata riconoscenza per quanto egli ha fatto per preservare dalla distruzione più d’un nostro monumento storico e per lo sviluppo culturale della nostra città — riprese, sia pure in maniera più succinta, lo stesso racconto. Papa Pascalinu, come affettuosamente viene ricordato in città, nutriva un amore incondizionato per Brindisi, e ciò lo portava già di per sé ad abbellire la ricca storia cittadina con qualche piccola creazione. Qui usò anche la fantasia altrui riportando l’episodio nel suo libro sulla storia di Brindisi22, il cui intento di sfruttare nel migliore dei modi la fortuna di cui godevano in quel particolare periodo le passate glorie dell’impero romano è del tutto evidente sin dal titolo e dal riferimento contenuto sulla copertina (figura n. 2).
Nel caso specifico il tutto prendeva spunto da un passo di Livio.
Lo storico patavino narra di come Annibale, sulla scia dei successi ottenuti, tenti di attirare nella propria orbita le città salentine. Quando non riesce a farlo con le blandizie o con la forza, lo stratega cartaginese utilizza sotterfugi contando sulla eventuale presenza di quinte colonne nelle comunità. L’espediente gli riesce, ma non del tutto, a Taranto dove, grazie all’aiuto di tredici cospiratori quasi tutti giovani nobili («tredecim fere nobiles iuvenes Tarentini coniuraverunt»23), prende la città, senza però essere in grado di espugnare la rocca, in cui si trincerano i resti del presidio romano ed i tarantini rimasti a loro fedeli. Per questo ripiega su Brindisi sperando di poterla avere per tradimento («ad Brundisium flexit iter, prodi id oppidum ratus»24).
Qui s’inserisce papa Pascalinu per narrare che il propretore Valerio Levino, saputo dell’approssimarsi dell’esercito punico, «raccolti i cittadini a parlamento, ricordò ad essi il grande valore, di cui diedero saggio nella sfortunata giornata di Canne»25 e, tanto per rincarare la dose, anche «l’intrepido coraggio dei brindisini sopravvissuti a quell’orrenda carneficina»26. Rincuorò i timorosi, caso mai ve ne fossero stati, e ricordò che Brindisi, diversamente da Taranto, «si era sempre e costantemente serbata fedele a Roma»27 tanto che «alcuni dei suoi concittadini erano stati dalla Repubblica chiamati ad alte ed onorifiche cariche e magistrature»28. Naturalmente le parole di Levino non potevano che fare breccia nei saldi cuori dei brindisini i quali si prepararono alla difesa con simile ardore che Annibale «desisté dall’impresa»29.
Nella realtà, Brindisi non aveva nessuna necessità di essere stimolata a resistere, vivendo una situazione completamente diversa da quella della città ionica. La politica romana ne favoriva in tutti i modi il porto, il che incrementava in maniera considerevole le attività economiche facendola divenire ricca e rinomata. La condizione di colonia latina le consentiva inoltre di fruire, oltre alla più ampia autonomia interna, anche dei privilegi che il diritto latino comportava. Alla fin fine, i Brindisini avevano tutto l’interesse a stare con l’Urbe lasciando cadere ogni tentativo di Annibale che, peraltro, era uno stratega troppo navigato per sperare, anche lontanamente, di poterla prendere con la forza. Si può pertanto ritenere che i Romani contassero sulla fedeltà di Brindisi, mentre dei Tarantini diffidavano, sospettando da tempo che potessero ribellarsi da un momento all’altro («Cum Tarentinorum defectio iam diu… in suspicione Romanis esset»30).
Significativo infine che la manovra cartaginese per impossessarsi di Brindisi venga liquidata da Livio con poche ed essenziali parole: anche qui Annibale sprecò tempo inutilmente («Ibi quoque cum frustra tereret tempus»31). Lo storico patavino non fa invece alcun cenno all’accorato discorso fatto da Levino, per il semplice motivo che questi si trovava da tutt’altra parte, ed in tutt’altre faccende affaccendato. Annibale decide appunto di ripiegare su Brindisi, subito dopo la battaglia di Herdonea. Siamo di conseguenza nel 212 a.C., allorquando Valerio Levino, propretore in Grecia («imperium… Graecia M. Valerio»32), è già da tempo lontano da Brindisi e di fatto impossibilitato a pungolare lo spirito guerriero dei brindisini.
Come dire che ci troviamo di fronte ad una vera e propria fake news da cui anche i compilatori di Wikipedia, non tenendone conto, hanno preso giustamente le distanze.
Ma ci sono occasioni in cui le bufale storiche non risparmiano neppure l’enciclopedia più letta al mondo. Come vedremo nella prossima puntata.
Note
1 Consultabile a questo link https://it.wikipedia.org/wiki/Marco_Valerio_Levino (13.11.2017).
2 Dire il diritto nel senso di esporre (o mostrare) il diritto.
3 Pomponio (… – II secolo d.C.), in Digesti o Pandette dell’imperatore Giustiniano, D.I.2.2.28.
4 Pomponio, Cit., D.I.2.2.28.
5 Il complesso di norme introdotte a seguito di questa attività del pretore peregrino composero lo ius honorarium.
6 Livio (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Dalla fondazione di Roma, XXIII 24, 4.
7 Livio, Cit., XXIII 30, 18.
8 Livio, Cit., XXIII 32, 16.
9 Livio, Cit., XXIII 32, 15.
10 Consultabile a questo link https://it.wikipedia.org/wiki/Pretore_(storia_romana) (13.11.2017).
11Livio, Cit., XXIII 32, 4.
12 Sembrerà strano ma anche la più fantasiosa teoria trova i suoi adepti, a volte del tutto insospettabili.
13 Livio, Cit., XXIII 32, 17.
14 Livio, Cit., XXIII 48, 3.
15 Il ricorso alle promagistrature (propretore e proconsole) iniziò ad essere imponente proprio in occasione della seconda guerra punica; dal secolo successivo la prorogatio imperii fu utilizzata soprattutto per la prosecuzione di azioni militari nelle province. Ai tempi di Silla, quando il consolato e la pretura mantennero solo l’imperium domi, divenendo di fatto magistrature esclusivamente urbane, solo i promagistrati potevano essere a capo delle milizie e governare le province.
16 Il prefisso pro ritengo sia da intendersi nel senso di “a titolo di” o “in qualità di” e non in quello che comunemente diamo in lingua italiano di “al posto di” o “in sostituzione di”.
17Livio, Cit., XXIV 10, 3.
18 Livio, Cit., XXIII 10, 4.
19 Citata più volte da Livio come centro d’azione della flotta guidata dal propretore Levino (livio, Cit., XXIV11,3 e livio, Cit., XXIV 20, 12).
20 G. M. Moricino, Dell’Antichiquità e vicissitudine della Città di Brindisi. Opera di Giovanni Maria Moricino filosofo, e medico dell’istessa città. Descritta dalla di lei origine sino all’anno 1604, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms_D/12, 1760-1761, 104r/107r.
21 A. della Monaca, Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi, Lecce 1674, Pietro Micheli, pp. 199/206.
22 P. Camassa, La romanità di Brindisi attraverso la sua storia e i suoi avanzi monumentali, Brindisi 1934, Tipografia del Commercio di Vincenzo Ragione.
23 Livio, Cit., XXV 8, 3.
24 Livio, Cit., XXV 22, 14.
25 P. Camassa, Cit., p. 24.
26 P. Camassa, Cit., p. 24.
27 P. Camassa, Cit., p. 25.
28 P. Camassa, Cit., p. 25.
29 P. Camassa, Cit., p. 25.
30 Livio, Cit., XXV 7, 10.
31 Livio, Cit., XXV 22, 15.
32 Livio, Cit., XXV 3, 6.