di Armando Polito
Se, dato il suo cognome …, fosse stato anche un fornaio, del copertinese, probabilmente, sarebbe rimasta più longeva memoria. Eppure, come vedremo, ai suoi tempi godette di una certa considerazione, anche se non ci è dato sapere se, per restare al gioco di parola iniziale, anche lui fu vittima dell’antico adagio Carmina non dant panem1 (La poesia non dà pane). A beneficio dei lettori più giovani, figli della Buona scuola, dico solo (nell’illusione che almeno i più curiosi cedano una volta tanto alla tentazione di usare il loro smartphone per un fine meno banale del solito … ) che marinista non è un titolo onorifico assunto in giovane età in virtù di un cospicuo numero di giorni di lezioni disertate e che non vale neppure come frequentatore assiduo di marine (anche se non è da escludere che almeno una volta il Fapane abbia fatto il bagno nelle acque di S. Isidoro …).
Lasciando da parte le correnti (marine e letterarie …), essere socio di un’accademia nel XVII secolo era per un letterato un fatto scontato come lo è oggi per tanti aderenti a sodalizi più o meno culturali, con la differenza che allora non era certo il pagamento della tassa d’iscrizione la condizione per farne parte.
Molti letterati, poi, aderirono contemporaneamente a più di un’accademia e credo che l’accoglimento della loro domanda costituisse e costituisca la prova del prestigio di cui godevano.
Giuseppe fu socio dell’accademia neretina degli Infimi, sorta fin dal 1577 sulle ceneri di quella dell’Alloro2, e di quella sorrentina dei Ripercossi, in cui ebbe il nome accademico di Furibondo3. Non sempre le accademia pubblicavano i propri atti, raramente i contributi dei loro soci e lo studioso che voglia conoscerne, almeno parzialmente, la produzione, deve operare ricerche non facili in pubblicazioni collettanee.
Per fortuna le cose stanno diversamente per il copertinese che inserì i suoi contributi all’accademia sorrentina alle pp. 307-310 del penultimo dei sei volumi della sua raccolta di epigrammi dal titolo Castaliae stillulae ducentae quae primum rivulum permissi conficiunt uscita dal 1654 al 16714.
In Antiche memorie del nulla a cura di Carlo Ossola, Edizioni di storia letteraria, Roma, 2007, a p. 91 nota 7 si legge che il Fapane fu autore anche del poema eroico La Beotica, o vero le Beotiche Acclamazioni, Napoli, Mollo, 1667; nonostante le precise indicazioni bibliografiche di questo testo non son riuscito a trovare alcun riscontro nei repertori, OPAC compresa.5 Quest’ultima, invece, del nostro, oltre alla Castaliae stillulae, registra anche, Iberi fulminis scintilla brevia poemata, Pietro Micheli, Lecce, 1654 (il fulminis della scheda, ovviamente, va corretto in fluminis). Superfluo aggiungere che tutti i testi citati sono rarissimi.
Non avrebbe senso ridurre questo post alle poche informazioni fin qui fornite senza presentare qualche assaggio del poeta copertinese.
Comincio con il primo della serie dei suoi contributi accademici pubblicati nel quinto volume delle Castaliae stillulae con, di mio, la traduzione e qualche nota. All’argomento segue un componimento formato da cinque distici elegiaci.
Ad problema in Academia Repercussorum Surrentina vulgatum. Cur in sepulchris maiorum Canis sub pedibus insculpebatur.
Parca ferox tumulat veterum tot corpora Avorum;
gaudet et in tumbis consociare feras.
Cur canis ad tumulum? Vivit nam fama superstes
et bona Virtutis non cinefacta manent.
Inclyta gesta vigent; perimunt non fata vigorem,
quem tibi defuncto dat generosus Honor.
Hinc Canis, Aegyptus facie disculpsit Anubim,
qui bene Mercurius fronte, latrator erat.
Cura igitur Virtutis opus, si marmora curas;
namque tuo vigilat nomine Fama volans.
(Per un problema diffuso nell’accademia sorrentina dei Ripercossi. Perché nei sepolcri degli antenati era scolpito un cane ai piedi.
La feroce Parca seppellisce tanti corpi di vecchi avi e le piace associare animali. Perché il cane presso una sepoltura. In fatti la fama sopravvive ed i beni del valore non restano ridotti in cenere. Le gesta illustri sini piene di vita, il destino non ne annientano il vigore che a te defunto conferisce il generoso onore. Da qui l’Egitto rappresentò Anubi con l’aspetto di cane; colui che opportunamente era Mercurio nell’aspetto era un abbaiatore. Cura dunque l’esercizio della virtù, se hai cura dei monumenti; infatti la fama che vola resta sveglia per la tua reputazione).
Oggi, in tempi in cui i concetti di economia e perfino certa ecologia … coincidono largamente con quelli di finanza e profitto subito e per pochi, fa sorridere più di qualcuno il problema risolto dal copertinese, ma siamo noi in difetto ed è già qualcosa conoscere il sostrato culturale messo in campo dal copertinese, sia pur sintetizzato in due soli passaggi, il primo egizio, il secondo romano. Anubi e Mercurio sono accomunati dall’essere cinocefali, dall’avere, cioè la testa di cane. In entrambi i casi l’uomo-cane (ovvero la divinità con fattezze miste di uomo e di cane) ha la valenza simbolica di tramite tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Arpocrate era una divinità egizia, figlio di Iside ed Osiride. Anch’esso venne adottato dalla religione greca e romana rappresentando il dio del silenzio, con un dito alla bocca e con un mantello (qui mancante) ricoperto di occhi e di orecchi.
La testimonianza figurativa più suggestiva del gemellaggio Anubi/Mercurio è nell’Hermanubis custodito nei Musei Vaticani (immagine seguente).
Non è azzardato supporre che questo fosse lo sviluppo in chiave religiosa dello sbigottimento provocato dalla mostruosità; non a caso monstrum in latino ha il significato base di portento, prodigio ed è deverbale da monere che significa avvertire, ammonire. Come tanti altri dettagli pagani anche questa scelta rappresentativa passò nel Cristianesimo; basti pensare al san Cristoforo cinocefalo di tanti affreschi bizantini.
Tornando ora al nostro Giuseppe, va sottolineata la sobrietà stilistica della sua composizione che ben poco concede alle astrusità concettuali (in primis metafore ardita ed in alcuni casi di non immediata comprensione) tanto in voga nella produzione letteraria barocca.
Il 9 marzo del 1675 moriva il letterato grottagliese Giuseppe Battista, per il quale rinvio al link https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/12/leruzione-del-vesuvio-del-1631-nella-poesia-di-un-salentino-e-di-un-napoletano-con-una-sorpresa-finale/. Qui mi limito a ricordare che in occasione del triste evento venne pubblicata a Napoli per i tipi di Ludovico Cavallo una raccolta di poesie commemorative dal titolo Musarum lessus in obitu Iosephi Baptistae, della quale il copertinese fu il curatore nonché l’autore di alcuni componimenti. Di questo volume l’OPAC registra l’esistenza di un solo esemplare custodito presso la Biblioteca Calasanziana a Campi Salentina.
Che la stima fra i due fosse reciproca lo testimoniano due sonetti che il Battista inserì a p.389 di Epicedi eroici, Bologna, Erede di Domenico Barbieri, 1669 e che di seguito riproduco. Il primo è del copertinese, il cui nome in alcuni repertori è riportato, e qui così si legge, come Giuseppe Domenichi; il secondo, in risposta, del grottagliese.
Ora metto in atto il consueto espediente, cioè la trascrizione, per poter commentare il tutto nelle note aggiunte.
Il Battista denota in questa risposta, come nelle altre alle poesie della stessa raccolta dedicategli da altri poeti, grande abilità formale e grande facilità di versificazione: utilizza le stesse rime e quasi sempre le stesse parole-rima (uniche eccezioni, per queste ultime, irsuta, canori, rossori e Pegaso. Da notare ancora che nel Battista ricorrono (fenomeno assente nel sonetto del Fapane) ferètro e Pegàso; ciò va considerato, vista l’abilità dell’autore, come una sottigliezza formale, una vezzosa eleganza e non un espediente per rientrare nei canoni metrici.
Costituiscono poi un’ulteriore testimonianza della reciproca stima due lettere (che qui per brevità non rioroduco) indirizzate dal Battista al Fapane, inserite alle pp. 137 e 161 dell’epistolario del grottagliese pubblicato postumo da suo nipote Simon Antonio per i tipi di Combi e La Noù a Venezia nel 1578.
Ancora: in Notizie di Nobiltà. Lettere di Giuseppe Campanile accademico Umorista e Ozioso, Luc’Antonio di Fusco, Napoli, 1672 (le pagine non sono tutte numerate) del copertinese6 compaiono i contributi che seguono.
Alla fine della dedica della sua opera a Bartolomeo di Capua l’autore riporta, quasi ad avallo della stessa un componimento del copertinese in distici elegiaci. Il Campanile non l’avrebbe pubblicato, insieme con quello in italiani che vedremo più in là se fosse stato scritto da uno qualunque e, d’altra parte, il nostro non lo avrebbe scritto, a sua volta, per uno qualunque. Basti ricordare gli altri titoli del Campanile (visse dal 1630 al 1674): Parte prima delle poesie, Cavallo, Napoli, 1648; Lettera storica, e iuridica, s.n., s. l., 1666; Dialoghi morali dove si detestano le usanze non buone, di questo corrotto Secolo, Agostino di Tomasi, Napoli, 1666; Prose varie, Luc’Antonio di Fusco, Napoli, 1666. Siccome, poi, è meglio abbondare che essere in difetto, ecco prima il suo ritratto a corredo di Notizie di nobiltà.
Quam bene Palladia Phoebique ex arbore germen/praecingit vultus, vir venerande, tuos!/Nam sacra cum teneas Pimplei culmina montis,/teque libenter foveat casta Minerva sinu/iure quidem ingenii tibi sculpsit honores/arbore cum gemina pictor in aere sagax. Antonius Martina
(Quanto bene il germoglio dell’albero di Pallade [l’ulivo] e di Febo [l’alloro] cinge il tuo volto, uomo venerando! Infatti tenendo tu le sacre vette del monte Pimpla e volentieri accogliendoti in seno la casta Minerva, a buon diritto il perspicace pittore incise per te nel rame gli onori gemelli dell’ingegno insieme con i due alberi. Antonio Martina).
A destra, fuori dall’ovale del ritratto e della specie di cartiglio inferiore, si legge il monogramma FP, le cui difficoltà di scioglimento fanno restare sconosciuto il nome dell’incisore, mentre Antonio Martina è l’autore dei versi elogiativi ma nulla sono riuscito a trovare su di lui.
Ecco il primo pezzo del copertinese da Notizie di nobiltà.
ILLUSTRISSIMO, ET EXCELLENTIS. DOMINO BARTHOLOMAEO de Capua, Altavillae Magno Comiti, cui Ioseph Campanile Historias Familiarum dicat, Ioseph Domenichi.
Historias Ioseph texit: priscique triumphos/temporis; et nostrae stemmata Parthenopes./Haec nulli poterat scriptor monumenta dicare,/quam tibi, qui Heroum vincere facta soles./Tu calami et gladii superasti nomine famam;/tu calamo, et gladio tempora clarificas./Hinc Campanilis, pennam dat iure columba;/ut tua7 gesta sones; ut sua scripta canas.
(All’illustrissimo ed eccellentissimo don Bartolomeo di Capua, gran conte di Altavilla, al quale Giuseppe Campanile dedica le Storie di famiglie. Giuseppe Domenichi.
Giuseppe ha intessuto le storie e i trionfi del tempo antico e i titoli nobiliari della nostra Partenope. A nessuno poteva dedicare queste testimonianze se non a te, che sei solito superare le gesta degli eroi. Tu con la tua rinomanza nelle lettere e nelle armi hai superato la fama, tu con la penna e con la spada glorifichi i tempi. Perciò a buon diritto, o Campanile, la colomba dà la penna, affinché tu faccia risuonare le sue gesta e canti i suoi scritti)
A distanza di qualche pagina di questa sorta di dedica alla dedica si legge questo sonetto.
Ancora più avanti (questa volta la pagina reca il n. 133) è riportato l’epigramma in distici elegiaci che il Fapane dedicò a Matteo Cosentini (1632-1702) per la sua elezione a vescovo d’Anglona e Tursi da parte del papa Clemente IX nel 1667.
(L’infula8 che per te, presule, risplende sulla fronte non decora i capelli ma ne è stata decorata. La tua nobiltà è abbastanza nota, abbastanza noto il tuo corredo di virtù ed abbastanza noti i beni del tuo animo. La tua benefica famiglia ha partorito leoni sotto i monti9 e la pianta di Delfi10 ti rende dorata la chioma. Dunque quale sarà ora per te sarà per te il titolo di presule? Come per averlo meritato sei eccellente cosi lo meriti per essere stato eccellente).
Come testimonianza finale del prestigio goduto dal copertinese riporto tre documenti. Il primo è una lettera del 4 marzo 1669 custodita nella Biblioteca Universitaria Genovese ((Ms.E.IV.14) inviata dal poeta marinista Antonio Muscettola (1628-1679) ad Angelico Aprosio (1607-1681) per ringraziarlo dell’invio di un pacco di libri contenente, fra gli altri, la quinta stilla del Domenichi.
Il secondo documento è un sonetto a lui dedicato da Baldassarre Pisani, altro marinista, nelle sue Poesie liriche, Pezzana, Venezia, 1676, p. 77.
Due sonetti sono in Tommaso di S. Agostino, Strada franca al cielo per il peccatore, Mollo, Napoli, 1677
L’ultimo documento è un sonetto-invito di Pietro Casaburi Urries nel suo Le sirene: poesie liriche, Novello De Bonis, Napoli, 1676 v.II, p. 104. Al di là della formalità non solo stilistica che contraddistingue la letteratura di quell’epoca il Casaburi, che in altri componimenti elogia nomi che ho già anuto occasione di citare in questo lavoro (Giuseppe Battista, Antonio Muscettola) avrebbe rivolto il suo invito proprio al copertinese, se non avesse sentito, oltre che ammirazione (Tu, ch’Arpa hai sì chiara) per lui anche una certa affinità spirituale?
Giunto al momento di chiudere, pongo a me stesso ad al lettore la seguente domanda: un personaggio di tale spessore non avrebbe meritato, e da tempo, almeno l’intitolazione di una via?
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1 La paternità del desolante adagio latino (del quale, attribuendo a poesia il significato estensivo di arte, la politica ha fatto il suo stendardo) è ignota, anche se in rete e precisamente all’indirizzo http://www.film-review.it/forum/showthread.php?p=2811 viene attribuita criminalmente ad Orazio. Molto probabilmente non è di origine dotta, sarà nata nell’ambiente goliardico e già in una lettera sa Londra indirizzata al nipote in data 3 giugno 1775 Giuseppe Baretti riportava lo stesso adagio con l’integrazione sed aliquando famem (ma talora fame).
2 Archivio storico per le province mapoletane, anno III, fascicolo I, Stabilimento tipografico Giannini, Napoli, 1878, p. 294.
3 Archivio storico per le province mapoletane, op. cit., p. 310.
4 Il primo volume per i tipi di Pietro Micheli a Lecce nel 1654; il secondo per i tipi di Luca Antonio Fusco a Napoli nel 1658, il terzo per i tipi di Paolo Frambotti a Padova nel 1659; il quarto per i tipi degli Eredi di Paolo Vigna a Parma nel 1662; il quinto per i tipi di Sermantelli a Firenze nel 1667 e il sesto per i tipi di Ambrogio De Vincentiis a Genova nel 1671.
5 Nicolò Toppi nella sua Biblioteca napoletana, Bulifon, Napoli, 1678, a p. 394 a proposito di Giuseppe Domenichi (prima, a p. 172, Giuseppe Domenico Fapano) scrive: Tiene prossime da stamparsi I Tronchi di Parnasso, Foresta di poesie Italiane.La Staffetta Capricciosa.Lo Spoglio Poetico, et Istorico. Syrenum Petra Satyricon con molte altre Opere d’eruditione, così Latine, come Toscane. Chissà se almeno uno di questi manoscritti giace ancora da qualche parte.
6 Ma anche di altri letterati salentini, come Gregorio Messere di Mesagne (https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/23/gli-emblemata-di-gregorio-messere-1636-1708-di-torre-s-susanna-13/) e il già ricordato Giuseppe Battista.
7 Errore per sua.
8 Nella religione greca e romana era una fascia di lana, simbolo della consacrazione agli dei, che i sacerdoti cingevano attorno al capo e che ornava anche quello delle vittime; qui sta ad indicare ciascuno dei due nastri che pendono dalla mitra vescovile.
9 Subito dopo l’epigramma del nostro il Campanile aggiunge quanto segue.
10 È l’alloro (nell’antichità greco-romana e nel mondo umanistico la sua corona veniva attribuita come simbolo di sapienza, di gloria poetica o di eccellenza atletica), sacro ad Apollo, che a Delfi aveva il suo oracolo.
11 Oltre che essere stato strenuo difensore di Giambattista Marino contro Tommaso Stigliani in molte opere pubblicate con vari pseudonimi, ebbe fittissimi rapporti epistolari con moltissimi esponenti della cultura dell’epoca in tutta Europa e fu il fondatore nel 1648 nella natia Ventimiglia della biblioteca che porta il suo nome.