di Pier Paolo Tarsi
Siamo nel Salento, è appena iniziato il ‘500, il secolo ha soltanto un anno. Un ormai anziano Antonio Ferrariis, detto il Galateo, ha appena finito di consumare la sua frugale cena, fatta di pochi cibi semplici, proprio come consiglia nei suoi testi di medicina e nelle lettere in cui dispensa consigli e pareri agli amici che si affidano alla sua sapienza per lenire i mali della propria carne e dello spirito.
Fuori è ormai buio. Alla luce fioca di un lume inforca una penna, la intinge nel calamaio e scrive una lunga lettera indirizzata al marchese di Nardò per concludere quanto segue: “Perciò, o nobile signore, con la tua saggezza e dottrina, non considerare spregevole per la razza, la condizione, le infermità, gli oscuri natali, per qualche misfatto dei suoi progenitori alcun uomo che non sia gravato da propri vizi”.
Erasmo non ha ancora scritto il suo Elogio della follia, Lutero non ha ancora affisso le sue tesi a Wittenberg. La modernità, ufficialmente, non è ancora iniziata.