di Nazareno Valente
1.1 Sulla riva del Rubicone
Era probabilmente la notte tra il 10 e l’11 gennaio del 49 a.C. quando Giulio Cesare giunse nei pressi del Rubicone, un piccolo fiume sulla cui individuazione da tempo dibattono con scarsi risultati gli storici, e restò incerto sul da farsi intento a valutare cosa sarebbe accaduto se l’avesse superato. Un corso d’acqua del tutto insignificante ma al tempo stesso importante perché segnava il limite del territorio italico; la linea di confine che Cesare, proconsole delle Gallie, non avrebbe potuto valicare con un esercito in armi, senza che una simile trasgressione fosse considerata una esplicita dichiarazione di guerra alla città di Roma.
Per meglio comprendere cosa comportasse una simile scelta e quali fossero i gravi motivi che spinsero Cesare a farla, è bene esaminare, sia pure in maniera semplificata, gli elementi giuridici essenziali su cui si basava l’ordinamento romano.
Al pari del mondo greco, anche quello romano non amava affidare il potere decisionale alla discrezione d’un singolo individuo e questo si rifletteva con la presenza nell’ordinamento istituzionale di tutta una serie di limitazioni giuridiche che riguardavano principalmente lo svolgimento dei più importanti incarichi. Le magistrature erano pertanto soggette ad una serie di vincoli che ne limitavano la durata, le iterazioni e che ne impedivano di norma il cumulo. In definitiva un complesso di regole che creavano un sistema di garanzie e di controlli per evitare derive tiranniche, che tuttavia, viste le ricorrenti tensioni dovute a stati di guerra o a momenti di forte attrito sociale, erano anche soggette a possibili eccezioni e modifiche che ne snaturavano sia pure temporaneamente la struttura.
Il triunvirato imposto da Cesare, Pompeo e Crasso fu di per sé una situazione fuori dalla normalità che causò, appunto, l’adozione di misure straordinarie con le quali i tre uomini politici cercarono di concentrare nelle proprie mani il potere statale, dando continuità agli incarichi istituzionali ricoperti. I triunviri riservarono infatti per sé quelle cariche pubbliche fornite di imperium1 che conferivano il diritto di comando superiore sia di carattere militare, sia di carattere giurisdizionale, garantendosi così la possibilità di arruolare e comandare un esercito e d’incidere sui principali meccanismi legislativi. Non a caso tali magistrature venivano chiamate maiores, anche perché l’imperium conferiva un ulteriore non banale privilegio: chi ne era dotato non poteva essere perseguito nel periodo di svolgimento del mandato, pure a fronte di manifesti abusi compiuti. L’immunità cessava però con l’incarico e, una volta deposto l’imperium, si poteva essere trascinati in giudizio come un qualsiasi cittadino. Era questo l’aspetto che più preoccupava Cesare, ed i motivi traevano origine dalla disinvoltura con cui aveva fino ad allora gestito il potere.
Quando nel 59 a.C. era stato console, s’era difatti comportato in maniera spregiudicata anche nei riguardi del collega di consolato Bibulo, che non aveva esitato a cacciare con le armi dal foro perché gli si era opposto («obnuntiantem collegam armis foro expulit»)2, e in seguito addirittura ad esautorare sicché, per i restanti mesi, amministrò gli affari di stato da solo e nel pieno arbitrio («Unus… omnia in re publica et ad arbitrium administravit»)3. E peggio ancora aveva fatto nei successivi nove anni in cui, fruendo di varie proroghe, era stato proconsole nelle Gallie. Qui la sua smania di conquista l’aveva portato a compiere atti biasimati non solo dai suoi avversari politici ma pure da un commentatore non schierato come Plino, che non aveva dubbi a ritenere i massacri da lui compiuti un grave danno al genere umano («tantam… humani generis iniuriam»)4.
La lunga assenza da Roma concorreva poi a penalizzarlo, anche perché Pompeo, proconsole in province pacificate, poteva farsi sostituire nel comando dai propri legati e dimorare tranquillamente nei pressi dell’Urbs5, dove meglio poteva condizionarne la vita politica. E, se tutto ciò non bastava, si aggiunsero due tragici avvenimenti a rendere ancor più difficile la situazione: la morte della figlia Giulia, data in sposa6 a Pompeo, che faceva cessare il vincolo di parentela instaurato, e la morte di Crasso che, essendo per doti militari il meno titolato dei triunviri, s’era impegnato a garantire la coesione del sodalizio.
Ma il colpo definitivo fu costituito dalla uccisione di Clodio. I tumulti popolari susseguenti spinsero il senato ad adottare nel 52 a.C. un provvedimento senza precedenti che chiariva in maniera esplicita con chi si schierava la classe senatoriale. Pompeo fu infatti nominato console sine collega, formula giuridica mai prima adottata ma evidentemente assimilabile a quella più abituale di dittatore.
Un simile contesto, che rendeva realizzabili le minacce che venivano indirizzate a Cesare e proprio nel momento in cui si sarebbe dovuto presentare da privatus a Roma, non poteva che preoccuparlo. Soprattutto Catone Uticense gliel’aveva giurata e più volte aveva annunciato che l’avrebbe trascinato in giudizio, non appena avesse congedato l’esercito («ac primum exercitum dimisisset»)7. E Cesare, se voleva candidarsi per le elezioni consolari per il 48 a.C., doveva necessariamente presentarsi8 da privato cittadino a Roma nell’estate dell’anno precedente (49 a.C.), rischiando così una denuncia che avrebbe potuto distruggerlo politicamente.
Cesare riuscì allora, tramite i tribuni della plebe a lui favorevoli, a convincere l’intero collegio a proporre un plebiscito che gli attribuiva il privilegio della ratio absentis, vale a dire la concessione di poter partecipare, pur essendo lontano, ai comizi per ottenere il consolato («egit cum tribunis plebis… id potius ad populum ferrent ut absenti sibi, quandoque imperii tempus expleri coepisset, petitio secundi consulatus daretur»)9. Questo gli avrebbe consentito di mantenere l’imperium. e di proteggerlo quindi da possibili imputazioni.
Pompeo non si oppose, però, di lì a poco e sempre nel 52 a.C., presentò una rogatio10 (la lex Pompeia de iure magistratum) che, nel riordinare le magistrature, confermava la necessità della candidatura in praesentia e, quindi, dell’obbligo per i candidati di presentarsi a Roma, senza mantenere in vita l’eccezione prevista per Cesare di cui – si scusò – si era dimenticato («ne Caesarem quidem exciperet per oblivionem»)11. Quando gli amici di Cesare si resero conto dell’errore, protestarono facendo inserire una clausola che teneva conto dei privilegi a lui in precedenza concessi, senza ottenere che essa fosse aggiunta alla legge, in quanto già incisa sul bronzo e archiviata nell’erario («legge iam in aes incisa et in aerarium condita»)12.
L’eccezione prevista dal popolo per Cesare finì per non essere considerata valida, e si discusse più volte in senato sulla necessità di privarlo del comando e di obbligarlo a presentarsi a Roma da privato cittadino, senza tuttavia arrivare ad una decisione per il veto posto dai tribuni della plebe a lui favorevoli13. La rottura era però nell’area e, mentre girava voce che Cesare si stesse ponendo in marcia dalla Gallia Cisalpina con tutte le sue dieci legioni («δέκα τάγματα»)14, al senato pervenne una sua missiva in cui proponeva che tanto lui quanto Pompeo rinunciassero al proconsolato, congedassero le legioni ai loro ordini e si presentassero al popolo, al quale avrebbero reso conto del loro operato («Ἠξίου γὰρ ἀμφοτέρους ἐκβάντας τῶν ἐπαρχιῶν καὶ τὰς στρατιωτικὰς δυνάμεις ἀφέντας ἐπὶ τῷ δήμῳ γενέσθαι καὶ τῶν πεπραγμένων εὐθύνας ὑποσχεῖν»)15.
Questo il senso ma, a detta di Cicerone, Cesare usava nella lettera un tono minaccioso ed aspro («minacis… et acerbas litteras»)16 che offese il senato il quale pensò bene di reagire intimando al proconsole delle Gallie di licenziare le legioni, se non voleva che il suo atteggiamento fosse considerato ostile alla repubblica («Caesar exercitum dimittat; si non faciat, eum adversus rem publicam facturum videri»)17. Cesare non ci pensò nemmeno ad aderire all’invito e, di conseguenza, il 7 gennaio 49 a.C. con senatoconsulto ultimo, che non tenne conto del veto di due tribuni della plebe, il senato dichiarò lo stato di emergenza e, affinché la repubblica non subisse danno, conferì pieni poteri ai magistrati ed ai promagistrati che si trovavano alle porte della città («dent operam consules, praetores, tribuni plebis, quique pro consulibus sint ad urbem, ne quid res publica detrimenti capiat») 18.
In un ordinamento giuridico che assegnava uguale dignità ai diversi organi, proprio perché non si desiderava che ve ne fosse uno che prevalesse, il senatus consultum ultimum rappresentava il modo legittimo per accordare, in presenza di fatti anomali, poteri eccezionali. Di là della formula rituale, nel concreto si affidavano le sorti della città nelle mani del proconsole Pompeo.
Note
1 Competeva a consoli, pretori, al dittatore, al magister equitum e, nell’ambito delle singole province, a proconsoli e propretori.
2 Svetonio (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Cesare., XX 2.
3 Svetonio, Cit., XX 3.
4 Plinio il Vecchio (I secolo d.C.), Storia Naturale, VII, 25, 92.
5 Chi era investito dell’imperium non poteva oltrepassare la linea del pomerium che contrassegnava il confine sacro dello stato romano, al cui interno non era consentito portare le armi. Per questo Pompeo non poteva risiedere a Roma.
6 Pur se dovuto a convenienza politica, fu un matrimonio felice e Pompeo era molto legato a Giulia.
7 Svetonio, Cit., XXX 3.
8 L’elezione doveva avvenire in praesentia del candidato che, dovendosi presentare a Roma da privato cittadino, doveva conseguentemente deporre l’imperium, considerato che chi ne era investito non poteva entrare nel pomerium,.
9 svetonio, Cit., XXVI 1.
10 Proposta di legge.
11 Svetonio, Cit., XXVIII 2.
12 Svetonio, Cit., XXVIII 2.
13 Pur non essendo magistrati, i tribuni della plebe avevano diritto di intercessio, vale a dire il diritto di veto nei casi di proposte di deliberazione e di legge.
14 Plutarco (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Vite parallele: Pompeo, LVIII 6. Le legioni a disposizione di Cesare erano così dislocate: 8 legioni in Gallia Transalpina (di cui 4 in Belgio e 4 tra gli Edui); 1 in Gallia Cisalpina ed 1 in Illirico.
15 Plutarco, Pompeo. Cit., LIX 2.
16 Cicerone (I secolo a.C.), Lettere ai familiari, XVI 11.
17 Cesare (I secolo a.C.), La guerra civile, I 2,6.
18 Cesare, Cit., I 5,3.