di Paolo Vincenti
Quando un poeta scompare, restiamo sempre un po’ orfani di pensiero, di sentimento, di senso. Ancor di più se si tratta di un poeta che avrebbe avuto molto da dire, quando l’incipit equivale drammaticamente all’explicit, il prologo all’esodo, in quella corrispondenza di vita e morte che gli antichi chiamavano fatum, un concetto un po’ più ampio del nostro destino. Dum fata sinunt vivite laeti, dicevano i latini, e Cosimo Russo forse proprio consapevole di questa massima grave e leggera viveva i propri giorni serenamente, senza sgomitare, senza fretta direi, senza ansie, arrivismi, senza brama di apparire, interessi, cupidigia. Tanto appunto quando il fato si compirà, si compirà.
Russo sapeva contare i giorni di un tempo fuggitivo, snocciolarli come grani di un rosario, segnarli come su un calendario essenziale, e per fermarli li trasformava in versi, quelli che hanno la sostanza dei sogni, la concretezza dell’inutilità. Baluginanti, come il brillio del mare di FinibusTerrae, odorosi come effluvi di estati bambine, preziosi come collane di madreperla. Eppure intensi, pensosi della fine, vagamente, oscuramente presaghi. Come vaghe e oscure le ombre che di sera si allungano sulla case, come oscuri e vaghi echi quei richiami del mare al quale è cresciuto vicino. A che serve sbracciarsi, affannarsi, correre nell’assurda frenesia che tutti ci contagia, nell’odierna competizione che ci vedrà comunque sconfitti, soccombenti?
La sua vita appartata, poco devota al transeunte, può essere un monito in effetti per tutti noi, che con fatica lo raccoglieremo. Ora i suoi pensieri sono diventati un prezioso cofanetto, uno scrigno di memorie, che è questo libro, “Per poco tempo” (Manni Editore 2017), in cui già il titolo è paradigmatico di una vita spezzata, di una parabola interrotta, di un’opera autoconclusa, e quindi ancor più bella perché non ce ne sarà un’altra.
Un libro ben fatto, di cui curatrice è la madre dell’autore, Luigina Paradiso, vestale dei giorni, dei luoghi, dei sapori, degli umori, e custode di memorie lariche, di quel lessico famigliare, per dirla con Natalia Ginzburg, di quell’alfabeto poetico adoprato da Mimmo per comporre queste poesie. Versi brevi, leggeri, come la sua vita. Si può facilmente rintracciare la matrice di questa poesia nella linea poetica del Novecento, dei Montale, Rebora, Quasimodo, Gatto, Caproni. Il lirismo si compagina di una intimità sofferta, una dimensione del tragico della vita che affiora inaspettatamente anche nelle poesie più luminose, fra le pagine di questo canzoniere ricomposto. Il linguaggio di Mimmo è altamente poetico, avulso dalle problematicità dell’oggi eppure così contemporaneo, ma lontano dalla lingua dell’omologazione.
Poesia dei minimi dettagli, dell’apparizione numinosa del mondo, soprattutto nell’incontro col paesaggio, delle relazioni famigliari, amicali, sentimentali, della bellezza dolce e amara, dei silenzi, di quella sorta di hortus conclusus che era il suo microcosmo abitato da presenze rassicuranti, poesia della stessa poesia infine, in questa silloge che negli ultimi giorni è stata presentata in alcune date nel Salento, volute da Luigina Paradiso. Ecco, l’immagine più bella, che sospesa in filigrana fra le pagine del libro diventa messaggio prezioso alla fine, è proprio questa: le mani materne curano sempre, curano ancora. Quelle mani che hanno rimboccato coperte ora ricompongono pagine preziose, nel dono.
”Per poco tempo”, allora, ma, nel tempo, in questo poco tempo, Cosimo Russo ha scavato un solco, e , hic manebimus optime, continuerà a parlare a chi vorrà ascoltare. Perché la permanenza della poesia possa essere voce che continui ad abitarci.