In anteprima pubblichiamo in versione ridotta l’articolo sullo stemma papale della chiesa di S. Giovanni Battista che apparirà prossimamente sulle pagine della rivista Nobiltà
UN LEONE RAMPANTE CON UNA FASCIA A TRAVERSO: LO STEMMA PAPALE DELLA CHIESA DI S. GIOVANNI BATTISTA DI ORIA, UN CASO DI ARALDICA PONTIFICIA IMMAGINARIA
di Marcello Semeraro
Sulla facciata della chiesa di S. Giovanni Battista di Oria si trova scolpito l’esemplare araldico a cui è consacrata la seguente indagine (figg. 1, 2). La presenza delle chiavi e della tiara, poste come insegne di dignità all’esterno dello scudo, indica chiaramente all’araldista che si tratta di un’arma papale, ma per l’attribuzione del manufatto è necessario conoscere la storia dell’edificio su cui esso è apposto. Scopriremo che non si tratta di uno stemma vero e proprio, o forse sì…
IL LUOGO
Il monastero e la chiesa di S. Giovanni Battista furono eretti nel 1344 per volere della baronessa oritana Filippa di Cosenza (†1348), vedova di Guglielmo dell’Antoglietta, barone di Fragagnano, la quale fece costruire sul suo palazzo paterno una sontuosa dimora per i monaci della Congregazione Celestina[1], come si ricava da una lapide commemorativa datata 1613, murata sulla parete destra della chiesa, e dallo spoglio di altre fonti storiche[2]. Si tratta di una delle primissime fondazioni celestine attestate in Puglia, seconda solo a quella di S. Eligio in Barletta[3].
L’arrivo dei Celestini in Oria coincise con il periodo d’oro della nuova Congregazione monastica, che proprio nel Trecento, sotto l’impulso della diffusione del culto di Celestino V seguita alla sua canonizzazione (5 maggio 1313), registrò il massimo sviluppo e la più ampia estensione, propagandosi anche nel Regno di Napoli, dove godette della protezione e del sostegno dei sovrani angioini[4].
Nella prima metà del XVIII secolo i monaci oritani utilizzarono parte delle loro cospicue risorse per avviare una radicale ristrutturazione che trasformò l’antica costruzione trecentesca in un grande complesso in stile barocco[5]. L’opera fu intrapresa dall’abate Oronzo Bovio e poi continuata dal suo successore Tommaso Marrese e prese la forma di un complesso di vaste e solenni proporzioni che divenne il più cospicuo della città[6]. Agli inizi dell’Ottocento la Congregazione fondata nel XIII secolo da Pietro del Morrone fu vittima delle leggi eversive napoleoniche[7]. La legge del 13 febbraio 1807, promulgata da Giuseppe Bonaparte, soppresse in tutto il Regno di Napoli gli ordini religiosi delle regole di S. Bernardo e di S. Benedetto.
A Oria il provvedimento colpì i Benedettini Cassinesi di Aversa – a cui apparteneva il santuario di S. Pietro in Bevagna – e ovviamente i Benedettini Celestini[8]. Il colpo decisivo alla loro memoria fu però inferto dal sindaco Gennaro Carissimo, che nel 1912 fece abbattere il grandioso palazzo settecentesco, trasformando quella che era una perla del barocco pugliese nell’attuale edificio scolastico[9].
Dell’antico palazzo, ammirabile in tutta la sua grandiosità in alcune preziose foto d’epoca, non restano che pochi reperti: un balcone monumentale e qualche rudere erratico conservato nella Biblioteca comunale De Pace-Lombardi[10].
Dell’imponente complesso celestino, invece, rimangono la chiesa, che dopo la soppressione napoleonica svolse funzioni diverse e che oggi non è più adibita al culto[11], e l’attuale Parco Montalbano, un suggestivo giardino pensile risalente alla prima metà del Settecento.
LO STEMMA PAPALE
Lo stemma in questione, di grandi dimensioni, venne collocato al termine dei lavori costruzione della facciata settecentesca voluta dall’abate Tommaso Marrese nel 1718[12]. Timbrato da una tiara priva di infule e accollato alle chiavi petrine decussate, di cui restano solo le impugnature[13], lo scudo presenta una foggia ovale accartocciata e raffigura al suo interno un leone rampante attraversato da una fascia diminuita (fig. 2). L’analisi del manufatto e del contesto di committenza non lascia dubbi sulla sua attribuzione. Si tratta dello stemma di Celestino V, al secolo Pietro di Angelerio (1209/10-1296), il celebre papa eremita, fondatore dell’omonima Congregazione monastica, che rinunciò al soglio petrino dopo appena cinque mesi dalla sua elezione e che finì i suoi giorni prigioniero di Bonifacio VIII nel castello di Fumone[14]. Tuttavia, quello scolpito sulla facciata della chiesa oritana non è lo stemma pontificio realmente innalzato da Pietro del Morrone, semplicemente perché egli non ne ebbe mai uno vero. Si tratta, invece, di un’insegna fittizia, di un’arma di fantasia che qualcuno gli attribuì a posteriori, di un vero e proprio falso, insomma, di cui restano, come vedremo, numerose testimonianze. Com’è noto, il primo pontefice di cui si possa attestare con certezza l’uso di uno stemma nell’esercizio della sua carica fu Bonifacio VIII (1294-1303), ma è con Clemente VI (1342-1352) che la conformazione dell’arma papale si canonizza nella forma che diventerà classica (scudo ornato da tiara e chiavi decussate, legate da un cordone)[15], mantenendosi tale fino al pontificato di Benedetto XVI[16]. Quanto a Celestino V, le prime attestazioni della sua arma leonina non rimontano oltre il XVI secolo. Sull’origine di questa insegna sono state avanzate alcune ipotesi suggestive ma prive di qualsiasi riscontro storico e documentario[17]. Secondo alcuni studiosi, si tratterebbe dell’arma parlante dei Leone (o de Leone), nobili di Alife e Venafro, dai quali discenderebbe Maria, madre del pontefice[18]. Secondo altri, invece, l’insegna sarebbe stata ricalcata su quella del cardinale Guglielmo Longhi (†1319), che fu fra i porporati creati da Celestino V nel corso del suo breve pontificato. Quest’ultima ipotesi è quella che ha goduto di una maggiore fortuna[19]. Lo stemma del cardinale Longhi, apparentemente simile a quello attribuito ex post a papa Celestino, si trova scolpito in coppia ai lati del sarcofago del suo pregevole monumento funebre ammirabile nella basilica di S. Maria Maggiore di Bergamo[20]. All’interno di una cornice modanata compare un leone attraversato da una banda diminuita e trinciata, ma il manufatto non contiene alcuna indicazione cromatica utile alla ricostruzione degli smalti originari[21] (fig. 3).
Il Longhi apparteneva a una nobile famiglia bergamasca e fu anche intimo della corte angioina, abile diplomatico nonché amico di Bonifacio VIII, per incarico del quale gestì la delicata fase di abdicazione del papa eremita. Dopo la morte di quest’ultimo nel castello di Fumone, inoltre, ne prese in custodia il corpo e presenziò alla sua sepoltura nella tomba terragna posta al centro della chiesa di S. Antonio Abate a Ferentino. Secondo lo studioso Fabio Valerio Maiorano, è possibile che «in ricordo dell’evento, il cardinale de Longhi abbia fatto incidere sulla lastra sepolcrale la propria insegna araldica, in epoche successive “interpretata” e scambiata erroneamente per lo stemma papale di Celestino V»[22]. Tale supposizione appare verosimile anche perché all’epoca in cui visse il cardinale Longhi il galero rosso non si era ancora diffuso come timbro della dignità cardinalizia e, quindi, è possibile che qualcuno abbia confuso erroneamente lo scudo del porporato, privo di ornamenti esterni, con quello del papa del Gran Rifiuto[23]. Quello che è successo veramente non lo sapremo probabilmente mai perché la lastra tombale originaria è andata purtroppo persa[24]. Occorre tuttavia sottolineare che le ipotesi finora avanzate sull’origine di questo pseudostemma si limitano ad indagini isolate che non tengono conto del contesto storico-culturale che ne favorì l’apparizione nel corso del XVI secolo e la rapida diffusione nel periodo successivo. Intorno alla metà del Cinquecento prese piede un fenomeno nuovo, figlio dell’erudizione rinascimentale, che divenne poi dilagante in epoca barocca. Mi riferisco alla moda dell’araldica papale immaginaria e alla fantasia che si scatenò nell’attribuire stemmi d’invenzione ai pontefici vissuti prima di Bonifacio VIII[25]. L’araldista francese Édouard Bouyé ne ha individuato l’origine all’epoca del Concilio di Trento (1545-1563), quando nacquero, con intenti eruditi e apologetici, le prime raccolte di stemmi contenenti anche le armi dei pontefici vissuti in epoche pre-araldiche e proto-araldiche. L’Epitome pontificum romanorum a S. Petro usque ad Paulum IIII, scritta da Onofrio Panvinio e pubblicata a Venezia nel 1557[26], può essere annoverata fra le prime testimonianze del fenomeno, ma furono soprattutto le varie edizioni sulle vite dei papi scritte dal Platina e dal Ciacconio a dare un impulso decisivo alla diffusione di questa pratica[27]. Col tempo tale usanza travalicò anche l’ambito strettamente librario, trovando la sua massima espressione nella celebre serie araldica presente nella galleria dei papi di palazzo Altieri a Oriolo Romano. Iniziata intorno al 1671, la pinacoteca della località viterbese costituisce una delle fonti araldiche più importanti e mature per lo studio della materia, giacché contiene la prima e unica raccolta completa di tutti gli stemmi pontifici da San Pietro in poi[28]. Quanto a Celestino V, la sua personalità e la brevità del suo pontificato gli impedirono di innalzare un’arma papale vera e propria, ma ciò non ostacolò l’operazione di «risarcimento» araldico finalizzata a dotarlo retrospettivamente di un’insegna che mai si sarebbe sognato di avere, un’insegna della quale non sono note con certezza le origini, ma la cui circolazione fu sicuramente favorita dalla nascente e poi dilagante voga dell’araldica pontificia immaginaria. Le testimonianze relative all’uso di tale stemma abbondano e si trovano disseminate su opere a stampa, monumenti e altri manufatti. Fra gli esemplari su stampa, segnalo quello che accompagna il ritratto di Celestino V presente nel Pontificum romanorum effigies di Giovanni Battista Cavalieri (Roma 1580) e quello inciso sul frontespizio dell’edizione del 1627 delle Costituzioni celestine, approvate l’8 luglio dell’anno prima da Urbano VIII[29] (figg. 4, 5).
L’incisione presente sul frontespizio, in particolare, mostra in chiave allegorica San Pietro Celestino e San Benedetto da Norcia ai lati di un altare, sulla cui base, al centro, campeggia lo scudo di Maurizio di Savoia, cardinale protettore dei Celestini, affiancato da due scudi più piccoli (quello di papa Celestino e quello della Congregazione da lui fondata[30]) sottostanti ai due santi, mentre sulla trabeazione spicca l’arma di papa Barberini, sormontata da uno scudo con la Vergine e il Bambino posto sul fastigio. Si tratta di una testimonianza significativa perché mostra come agli inizi del Seicento questo stemma, nato senza il presupposto storico di un possessore che lo abbia effettivamente portato, si sia ormai «istituzionalizzato».
L’insegna leonina era del resto ben nota a uno dei più accreditati biografi seicenteschi di Celestino V, Lelio Marini, abate generale della Congregazione Celestina dal 1630 al 1633, che in un passo della sua opera Vita et miracoli di San Pietro del Morrone già Celestino papa V descrisse l’arma del santo eremita in questi termini: «L’insigne nondimeno, che si chiama Arma, al nostro Pietro si trova in tutte le sue imagini antiche attribuito un Leone rampante con una fascia a traverso dalla coscia al piede destro, essendo come appoggiato sù il lato sinistro, si come è descritto da tutti gli autori, e in tutte le imagini, e anco da Alfonso Ciaccone nell’opra, che hà fatto della vita de i Sommi Pontefici con le armi e nomi ancora de i Cardinali di Santa Chiesa»[31]. L’opera del Ciacconio a cui si riferisce Marini è una raccolta sulle vite dei papi e dei cardinali, uscita in varie edizioni a partire dal 1601, nella quale si illustra la narrazione delle biografie dei pontefici con il rispettivo ritratto accompagnato dalla riproduzione dello stemma[32]. Il Ciacconio assegna a Celestino V uno scudo d’oro, al leone d’azzurro, attraversato da una banda abbassata e diminuita di rosso (fig. 6).
Un blasone simile si osserva sulla tela di Celestino V conservata nella galleria dei papi di Palazzo Altieri a Oriolo Romano[33]. La rappresentazione dell’arma, tuttavia, non fu stabile nel corso del tempo. La bicromia oro/azzurro del campo e della figura principale, ad esempio, risulta talvolta invertita, come si vede nell’esemplare ad intarsio marmoreo ammirabile sulla parete della cappella di Celestino V, in fondo alla navata destra della basilica di S. Maria di Collemaggio all’Aquila: d’azzurro, al leone d’oro, lampassato di rosso e attraversato da una banda abbassata e diminuita dello stesso[34] (fig. 7).
Gli studi condotti sul corpus araldico relativo a Pietro del Morrone mostrano, in effetti, un’arma caratterizzata da un’estrema variabilità blasonica, comprensibile per un’insegna come questa nata senza il vincolo di un uso storico effettivo e di un titolare che l’abbia davvero voluta. Le varianti, insomma, abbondano e se ne trovano versioni col campo d’argento[35], con la banda modificata rispetto alla sua posizione e alla sua forma ordinarie, tanto da assumere talora la forma di una fascia tout court (figg. 2, 5, 8), col capo caricato dalle insegne papali[36], col leone rivolto (figg. 4, 9) oppure rampante su un monte alla tedesca[37], e così via.
Fra tutti gli stemmi di fantasia della cronotassi papale anteriore a Bonifacio VIII, l’insegna araldica attribuita al papa eremita vanta il primato di essere quella che presenta la configurazione più instabile e variabile nel corso del tempo.
CONCLUSIONI
Nel XVIII secolo la Congregazione Celestina si attesta sulle posizioni consolidate nel periodo precedente, recependo alcune caratteristiche proprie del monachesimo settecentesco, come la prevalenza degli aspetti istituzionali e giuridici, la celebrazione dei fasti e delle glorie del passato, la corsa ad accaparrarsi titoli e dignità per il decoro dell’istituzione, lo sforzo per incrementare le rendite con cui provvedere alla manutenzione e al restauro degli edifici[38]. I monaci oritani non furono da meno ed è in questo contesto che vanno collocati l’ampliamento settecentesco del complesso monastico e l’apposizione delle insegne del loro fondatore, dell’Ordine[39] (figg. 10, 11) e dell’abate generale Ludovico Grassi[40] (figg. 12, 13, 14) in vari punti del monastero, della chiesa e del giardino.
In questa araldizzazione degli spazi sacri, lo stemma del papa del Gran Rifiuto, benché non autentico, era ormai diventato parte integrante dell’iconografia araldica dell’Ordine e, come tale, funzionale alla strategia comunicativa messa in atto dai Celestini oritani nella prima metà del Settecento. Sopravvissuto alle ingiurie del tempo e ai cambi di destinazione a cui è stato sottoposto l’edificio nel corso del tempo, il leone di Celestino campeggia ancora oggi, beffardamente, sulla superba facciata, perpetuando il mito e la memoria del fondatore della Congregazione Celestina: un bel risultato, se ci pensiamo, per uno stemma immaginario attribuito a un papa che giammai ne fece uso.
[1] Sulla storia della Congregazione Celestina segnalo soprattutto il fondamentale studio di U. Paoli, Fonti per la storia della Congregazione Celestina nell’Archivio Segreto Vaticano, Cesena 2004.
[2] Cfr. S. Ammirato, Della famiglia dell’Antoglietta di Taranto, Firenze 1597, p. 26; M. Matarrelli-Pagano, Raccolta di notizie patrie dell’antica città di Oria nella Messapia, a cura di E. Travaglini, Oria 1976, p. 84; D. T. Albanese, Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. Raccolta da molti antichi e moderni Geografi, ed Historici Dal Filosofo e Medico Domenico Tomaso Albanese della stessa Città, nella quale anco si descrive l’origine di molti luoghi spettanti alla sua Diocesi, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms. D/15, cc. 314r e v; G. Papatodero, Della Fortuna di Oria Città in Provincia di Otranto nel Regno di Napoli, con giunte dell’arcidiacono Giuseppe Lombardi, Napoli 1858, pp. 319-320. Per una sintesi, mi sia consentito il rinvio al mio saggio M. Semeraro, Insignia. Saggi su Oria araldica, Oria 2015, pp. 14, 18-20 e relative note.
[3] Cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., p. 28.
[4] Ivi, pp. 25-26.
[5] Sull’argomento v. P. Malva, M. Mattei, Oria, l’organo dei Celestini, Oria 2007, pp. 11-14; P. Spina, Oria, strade vecchie, nomi nuovi. Strade nuove, nomi vecchi, Oria 2003, pp. 59-63.
[6] Spina, Oria, strade vecchie cit., p. 62-63.
[7] Tra il 1807 e il 1810 tutti i monasteri celestini caddero sotto i colpi delle leggi napoleoniche (Paoli, Fonti per la storia cit., p. 83).
[8] Cfr. C. Turrisi, La diocesi di Oria nell’Ottocento, Roma 1978, p. 285.
[9] Spina, Oria, strade vecchie cit., p. 59.
[10] Il balcone era originariamente collocato sulla facciata del monastero settecentesco. Fu poi smontato e ricostruito da Floriano Stranieri nel cortile dell’attuale scuola elementare Edmondo De Amicis (v. Malva, Mattei, Oria, l’organo cit., p. 21, nota 16). Sul fastigio della trabeazione del portale che dà sul balcone, fa bella mostra di sé lo stemma di Ludovico Grassi, abate generale della Congregazione Celestina per tre mandati: 1704-1707, 1707-1710, 1719-1722 (cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., pp. 528-530). Il Malva ha erroneamente attribuito tale stemma all’abate oritano Oronzo Bovio (v. Malva, Mattei, Oria, l’organo cit., p 11). Per il blasone, v. infra, nota 40.
[11] Malva, Mattei, Oria, l’organo cit., pp. 14-15.
[12] Come si evince dall’epigrafe incisa sul drappo litico che sormonta lo stemma papale (cfr. ivi, p. 21, nota 17).
[13] Sull’uso e sulla simbologia della tiara e delle chiavi v. B.B. HEIM, L’araldica nella Chiesa Cattolica. Origini, usi, legislazione, Città del Vaticano 2000, pp. 50-55; A. Cordero Lanza di Montezemolo, A. Pompili, Manuale di araldica ecclesiastica nella chiesa cattolica, Città del Vaticano 2014, pp. 38-40.
[14] Pietro di Angelerio (chiamato anche del Morrone) nasce tra il 1209 e il 1210, penultimo di dodici fratelli, da una famiglia modesta, probabilmente a Sant’Angelo Limosano, anche se Isernia, Sulmona e altre città se ne contendono i natali. Negli anni 1233-1234 si reca a Roma, dove probabilmente riceve l’ordinazione sacerdotale. Intorno al 1235 si ritira in località Sigezzano, presso Sulmona, ai piedi del monte Morrone, dove accoglie i primi discepoli. Da sempre attratto dall’austerità della vita monastica, fonda una comunità di religiosi di cui si hanno le prime notizie certe a partire dal 1259. Con la bolla Cum sicut del 1263 di Urbano IV si registra la prima regolarizzazione della famiglia eremitica, incorporata nella regola benedettina, e confermata in seguito da Gregorio X nel 1275. Il 5 luglio 1294 viene eletto papa nel conclave di Perugia; il 28 luglio entra all’Aquila a dorso di un asino; il 29 agosto viene incoronato col nome di Celestino V sul piazzale antistante a S. Maria di Collemaggio. Con la bolla Et si cunctos del 1294, papa Celestino stabilisce la struttura giuridica e istituzionale della comunità religiosa da lui fondata, che ormai ha assunto ufficialmente la denominazione di Orso Murronensis o Ordo S. Spiritus de Murrone. Il suo pontificato, tuttavia, si rivelerà difficoltoso e lontano dalle sue aspirazioni eremitiche. Il 13 dicembre del 1294, dopo appena cinque mesi dalla sua elezione, il papa annuncia la sua decisione di rinunciare al sacro soglio davanti ai cardinali riuniti in concistoro. Il nuovo pontefice, Bonifacio VIII, dapprima lo fa sorvegliare, poi, dopo un tentativo di fuga, lo relega nella rocca di Fumone, dove muore il 19 maggio del 1296. La Congregazione Celestina ha assunto nel corso del tempo varie denominazioni: Ordo S. Spiritus de Maiella, Ordine di fra’ Pietro del Morrone, Ordo Murronensis, Ordo S. Spiritus de Murrone, Ordo Caelestinorum, mentre dalla seconda metà del XV secolo diventerà prevalente quella di Congregatio Caelestinorum. Cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., pp. 3-21.
[15] Sulle origini e l’evoluzione dell’araldica papale v. Heim, L’araldica cit., pp. 98-102; E. Bouyé, Les armoiries pontificales à la fin du XIII siècle: construction d’une campagne de communication, in «Médiévales», 44 (2003), pp. 173-198; D. L. Galbreath, Papal heraldry, 2nd ed. revis. by G. Briggs, London 1972.
[16] Com’è noto, Benedetto XVI abolì l’uso della tiara come timbro dello stemma papale, sostituendola con una mitria d’argento ornata da tre fasce d’oro, unite da un palo dello stesso colore. Il suo successore, Francesco, ha mantenuto tale uso.
[17] La questione relativa alle ipotesi sulle origini dello stemma di Celestino V è stata affrontata da F.V. Maiorano, S. Mari, Gli stemmi superstiti dell’abbazia di S. Spirito del Morrone e l’enigma di un’insegna trecentesca, in «Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria», 103 (2012), pp. 93-95.
[18] In realtà i cognomi de Angeleriis e de Leone sono sconosciuti ai primi biografi di Celestino V e sono stati tirati fuori per accreditarne l’origine isernina, basandosi su due documenti la cui autenticità è stata giudicata dubbia da studiosi del calibro di Peter Herde. Cfr. P. Herde, Celestino V, santo, in «Encicplopedia dei Papi», disponibile al seguente indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-celestino-v_%28Enciclopedia-dei-Papi%29/.
[19] V. anche A. Savorelli, Il papa e il leone, in «Medioevo», XI, n° 7 (126), Novara 2007, p. 92.
[20] In origine il monumento, opera di Ugo da Campione, era collocato nella chiesa di S. Francesco, nella cappella di San Nicolò che lo stesso cardinale Longhi fece edificare. Nel 1843 fu trasferito in S. Maria Maggiore. Cfr. G. Cariboni, Longhi, Guglielmo, in «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. 65 (2005), disponibile al seguente indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/guglielmo-longhi_(Dizionario-Biografico)/.
[21] Sugli smalti dello stemma gentilizio del cardinale Longhi le fonti, tutte successive all’epoca in cui egli visse, non concordano. Secondo il Ciacconio, il cardinale portava uno scudo d’argento, al leone d’azzuro, attraversato da una banda abbassata, diminuita e trinciata del primo e di verde, mentre nel blasone fornito dal Crollalanza la banda è di rosso e di verde. Lo stemmario Camozzi-Vertova, alla voce Longhi degli Alessandri di Adrara, riporta invece uno scudo d’argento, al leone d’azzurro, lampassato di rosso, attraversato da una banda abbassata e trinciata d’oro e del terzo. Il Maiorano, infine, riporta un’arma d’argento, al leone di nero, lampassato di rosso e attraversato da una banda abbassata e trinciata d’oro e di verde. Cfr. A. Chacón, Vitae et gesta summorum pontificum ab Innocentio IV usque ad Clementem VIII necnon S. R. E. cardinalium cum eorumdem insignibus, II, Roma 1601, p. 638; G.B. Di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane, estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890, rist. anast. Bologna 1965, II, p. 31; Stemmario Camozzi-Vertova, Bergamo, Biblioteca civica Angelo Mai, Manoscritti, ms. AB016, n. 2323; Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 94.
[22] Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 95.
[23] Il cappello di rosso, concesso nel 1245 dal papa Innocenzo IV ai cardinali in occasione del Concilio di Lione, fece la sua comparsa in araldica nella prima metà del Trecento, ma fino alla fine del secolo il suo uso non si era ancora generalizzato. Fu solo a partire dal XV secolo che il suo impiego divenne abituale. Su tale questione v. M. Prinet, Les insignes des dignités ecclésiastiques dans le blason français du XV siècle, in «Revue de l’Art Chretien», Paris 1911, p. 23; Cordero Lanza di Montezemolo, Pompili, Manuale di araldica cit., p. 19.
[24] Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 95, nota 78.
[25] Quello degli stemmi d’invenzione, in realtà, è un fenomeno più vasto, non circoscritto ai soli papi, osservabile sin dai primordi dell’araldica. La rapida diffusione sociale delle armi vere, apparse nei tornei e nei campi di battaglia nella prima metà del XII secolo, fece sì che ben presto, sin dalla seconda metà dello stesso secolo, se ne attribuirono altre a personaggi immaginari o vissuti in epoche precedenti alla comparsa dell’araldica (cfr. M. Pastoureau, Figures de l’héraldique, Paris 1996, p. 25). Fu però nel periodo a cavallo fra il Rinascimento e il Barocco che il fenomeno coinvolse massicciamente la chiesa, investendo non solo i papi ma anche i cardinali pre-araldici (cfr. M. C. A. Gorra, L’arma di Pietro: ipotesi per un blasonario dei pontefici anteriori a Bonifacio VIII, in «Nobiltà», a. VIII, n. 39, novembre-dicembre 2000, pp. 557-576; Bouyé, Les armoiries pontificales cit.).
[26] Cfr. O. Panvinio, Epitome pontificum romanorum a S. Petro usque ad Paulum IIII, Venezia 1557.
[27] A. Chacòn (Ciacconius), Vitae, et res gestae pontificum romanorum et S.R.E. cardinalium, edizioni diverse fra 1601 e 1751; B. Platina, De vitis pontificum romanorum (Le vite de’ pontefici), edizioni diverse fra 1540 e 1703.
[28] Gorra, L’arma cit., p. 560.
[29] Cfr. Constitutiones monachorum Ordinis S Benedicti Congregationis Coelestinorum, sanctissimi domini nostri Urbani papae VIII iussu recognitae et eiusdem auctoritate approbatae et confirmatae, Roma 1627; Paoli, Fonti per la storia cit., p. 57.
[30] Lo stemma innalzato dai monaci della Congregazione Celestina non ebbe nel corso del tempo una configurazione stabile. Manca lo spazio per approfondire la questione. In questa sede mi limito pertanto a dire che in origine i monaci portarono uno scudo d’argento, alla croce latina accollata alla lettera S, il tutto di nero: la bicromia bianco/nero rappresenta l’araldizzazione dell’abito monastico, mentre la lettera S sta probabilmente per Santo Spirito (ma altre spiegazioni sono state addotte), al quale Pietro del Morrone era particolarmente devoto, come provano anche i numerosi monasteri eretti sotto questo titolo e alcune fra le denominazioni primitive della Congregazione (v. supra, nota 14). Successivamente lo stemma fu incrementato con l’aggiunta di altre figure di carattere allusivo: un monte all’italiana di tre cime, probabile allusione ai monti Morrone e Maiella, cari al papa eremita, e due gigli, in ricordo della speciale protezione e del sostegno accordati ai Celestini dai sovrani angioini di Napoli e da quelli di Francia. Lo stemma divenne così d’azzurro, alla croce latina di nero (alias d’oro), accollata alla lettera S d’oro, accostata da due gigli dello stesso e fondata su un monte all’italiana di tre cime di verde, movente dalla punta. Ma vi furono varianti sia negli smalti, sia nella foggia della croce. Talora la lettera S assunse una forma serpentina. Cfr. Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., pp. 80-88; G. Zamagni, Il valore del simbolo: stemmi, simboli, insegne e imprese degli Ordini religiosi, delle Congregazioni e degli altri Istituti di perfezione, Cesena 2003, pp. 53-54.
[31] L. Marini, Vita et miracoli di San Pietro del Morrone già Celestino papa V, Milano 1630, p. 4.
[32] V. supra, nota 27.
[33] Gorra, L’arma cit., p. 576.
[34] Ibid.; Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 93.
[35] V. il blasone riportato da X. Barbier de Montault, Armorial des Papes, Arras 1877, p. 15.
[36] Gorra, L’arma cit., p. 576.
[37] Come si vede nell’esemplare raffigurato sull’altare di S. Antonio di Padova nella chiesa di S. Maria di Bethlehem di Mesagne. La chiesa e l’ex convento ad essa attiguo (antica dimora dei Celestini, oggi palazzo di Città) custodiscono vari esemplari dello stemma attribuito a Celestino V. Dato il loro interesse, sarebbe interessante farne oggetto di un’indagine specifica.
[38] Cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., p. 76.
[39] V. supra, nota 30. Dall’osservazione di alcune foto d’epoca scattate prima dell’abbattimento del 1912, si evince che un altro stemma della Congregazione Celestina era collocato sul portale d’ingresso del palazzo. Altri esemplari, che sicuramente erano presenti all’interno dell’edificio, sono andati purtroppo persi. Lo stemma dei Celestini scolpito, negli anni 1726-1730, sui due lati del parapetto del giardino di Parco Montalbano (fig. 10) è stato da taluni erroneamente confuso con il bastone di Asclepio, noto simbolo della medicina, deducendo da ciò l’ipotesi che il giardino sia stato adoperato dai monaci come luogo per la coltivazione di erbe medicinali. A questa tesi strampalata sembra credere anche l’autore delle note storiche su Parco Montalbano presenti nel sito del comune di Oria: cfr. http://www.comune.oria.br.it/territorio/da-visitare/item/parco-montalbano.
[40] Lo stemma in questione mostra l’arma gentilizia propria dell’abate Grassi (troncato: nel 1° un’aquila coronata, rivolta e posata sulla partizione; nel 2° scaccato di quattro file) abbassata, per mezzo di uno scudo troncato, sotto il quarto della Religione Celestina. Il timbro è costituito da un cappello prelatizio (di nero) da cui pendono due cordoni terminanti con dodici nappe, sei per lato (1.2.3), delle quelli si vedono solo quelle terminali. L’arma si presenta acroma, ma per la ricostruzione degli smalti può essere utile il raffronto con stemma dello stesso abate, privo tuttavia del quarto celestino, visibile nell’abbazia di S. Spirito al Morrone, nell’altare sinistro della chiesa interna, così blasonabile: d’argento, all’aquila al volo abbassato di nero, coronata e rostrata d’oro, posata su una campagna scaccata di cinque file dell’ultimo e del secondo. Lo scudo è timbrato da un cappello prelatizio a sei nappe per lato (1.2.3), il tutto di nero (fig. 13). Altri esemplari del suo stemma si trovano in Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., pp. 73-75.
RICCHEZZA E NOBILTÀ: LA CHIESA DI COSTANTINO, CELESTINO V E IL POSTUMO “RISARCIMENTO” ARALDICO …
“ORIA. UN CASO DI ARALDICA PONTIFICIA IMMAGINARIA”: UN LAVORO MAGISTRALE DI GRANDE INTERESSE. Tra le sue righe una notazione che getta luce sulla intera storia della Chiesa e non solo su Celestino V (la Congregazione dei Celestini, la città di Oria e al Salento), ma anche su papa Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), su Benedetto XVI (Joseph A. Ratzinger), papa Francesco (Jorge M. Bergoglio), e, ancora, su DANTE ALIGHIERI (con la sua profetica lezione teologico-politica, cfr. “Monarchia” e “Commedia”) e al tempestoso presente storico entro cui ancora oggi (nel III Millennio d. C.) naviga l’Istituzione nata e cresciuta all’ombra di COSTANTINO, della sua “donazione”, del suo “LATINORUM”, e della sua “CARITAS” (da non confondere con la “CHARITAS”, cfr. i commenti all’art. di Marcello Gaballo, “L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò” https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/):
“Com’è noto, il primo pontefice di cui si possa attestare con certezza l’uso di uno stemma nell’esercizio della sua carica fu Bonifacio VIII (1294-1303), ma è con Clemente VI (1342-1352) che la conformazione dell’arma papale si canonizza nella forma che diventerà classica (…), mantenendosi tale fino al pontificato di Benedetto XVI”; nota 16: “Com’è noto, Benedetto XVI abolì l’uso della tiara come timbro dello stemma papale, sostituendola con una mitria d’argento ornata da tre fasce d’oro, unite da un palo dello stesso colore. Il suo successore, Francesco, ha mantenuto tale uso” (cfr. sopra, Marcello Semeraro, “Oria. Un caso di araldica pontificia immaginaria”, https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/09/25/93712/#_ftn16).
Federico La Sala
La ringrazio per le sue belle parole Sig. La Sala
CELESTINO V E MIGUEL VAAZ. Napoli 1617, il conte di Mola salvato da san Pietro Celestino…
“[…] Il duca di Osuna contro Miguel Vaaz. Alla partenza da Napoli del conte di Lemos nel 1616, la posizione della famiglia Vaaz, quelle del suo membro più in vista, Miguel conte di Mola, e del gruppo dei banchieri che lo circondavano, sembravano molto ben consolidate rispetto al decennio precedente. Tuttavia, la situazione cambiò completamente e in modo assai rapido nel giro di pochi mesi con l’ingresso a Napoli del nuovo viceré Pedro Téllez Girón, duca di Osuna.
Il duca di Osuna, com’è ben noto schierato su posizioni opposte rispetto al conte di Lemos nella lotta tra fazioni alla corte di Filippo III, poco dopo il suo arrivo scatenò una dura persecuzione contro tutti i più stretti collaboratori del suo predecessore; tra questi non poteva mancare {{Miguel Vaaz}}, che il duca di Osuna sospettava di aver cercato di contrastare la sua venuta a Napoli e che proprio nel momento dell’arrivo del nuovo viceré l’organismo municipale napoletano accusava di aver venduto alla città grano guasto o di cattiva qualità.
Il primo colpo arrivò alla sua famiglia: nello stesso 1616 il fratello di Miguel Vaaz, Benedetto, e sua moglie furono accusati dall’Inquisizione di essere giudaizzanti, in un processo che si volle ispirato dallo stesso viceré. L’anno seguente toccò a Miguel Vaaz.
Il 4 maggio del 1617 il duca di Osuna ordinò la detenzione di un gruppo di patrizi napoletani accusati di aver congiurato contro di lui; a questa accusa nel caso del banchiere portoghese si aggiunse anche quella di aver mantenuto corrispondenze segrete con gli infedeli.
Miguel Vaaz, che incrociò i birri al momento di uscire di casa per andare ad ascoltare la messa nel contiguo convento dei monaci Celestini, si rifugiò nella casa religiosa, dove rimase chiuso tre anni, protetto dall’immunità di cui godeva il luogo.
Successivamente egli raccontò di essere stato avvisato in sogno da san Pietro Celestino dell’imminente pericolo e nel 1622, per ricordare il debito di gratitudine che lo legava ai Celestini, comprò per 1.000 ducati un terreno contiguo alla sua casa e al convento, che offrì ai monaci con il vincolo di edificare su di esso una chiesa dedicata a S. Michele e con una dotazione di 10.000 ducati per realizzare la costruzione e di altri 9.000 per decorarla; successivamente istituì anche un censo per garantire il finanziamento dei lavori anche dopo la sua morte […]” (cfr. Gaetano Sabatini, “Un mercato conteso: banchieri portoghesi alla conquista della Napoli dei genovesi (1590-1650)”, cfr. pf. 4, pp. 159-160, senza le note: http://www.storiapatriagenova.it/Docs/Biblioteca_Digitale/SB/396b22c37e8bbc6c44c30828fc127900/Estratti/2d92279ee6d647e9e5f2c963055edf59.pdf).
Federico La Sala
DOC.: LA PERDONANZA CELESTINIANA PATRIMONIO DELL’UMANITA’… *
[…] La Perdonanza Celestiniana è diventata patrimonio immateriale dell’umanità. L’iscrizione ufficiale nella lista del “The Celestinian Forgiveness” è avvenuta ieri, dopo il parere favorevole del Comitato intergovernativo a Bogotà.
La candidatura, sostenuta dal Comune dell’Aquila, dal Comitato Perdonanza Celestiniana, in collaborazione con i gruppi e le associazioni di praticanti locali, è stata presentata dall’Italia con il coordinamento tecnico-scientifico dell’ufficio Unesco del Mibact.
«La Chiesa e la città di L’Aquila esultano, unanimi, per questo prestigioso riconoscimento – sono le parole dell’arcivescovo della città, il cardinale Giuseppe Petrocchi – Il perdono è una chiave necessaria per aprire la porta della pace: a livello comunitario e personale».
La notizia che arriva dalla Colombia, perciò, è una spinta ulteriore «per testimoniare che solo l’amore può vincere la logica del conflitto, spalancando orizzonti di dialogo costruttivo e di intese convergenti, ricche di verità e di bene: aperte a Dio e, proprio per questo, degne dell’uomo».
La comunità aquilana è custode dal 1294 di questo rito annuale di riconciliazione che si svolge tra il 28 e il 29 agosto. «Ora grazie all’Unesco – dice il sindaco del capoluogo abruzzese, Pierluigi Biondi – lo spirito di riconciliazione e la rinascita si fondono e sostengono, attraverso la Festa del Perdono, in una rinnovata dimensione di città di pace, aperta e solidale, pronta ad accogliere le comunità che vorranno con noi partecipare al bene dell’umanità».
* Cfr.: Alessia Guerrieri, “L’Aquila. La Perdonanza Celestiniana riconosciuta patrimonio dell’umanità”, Avvenire, giovedì 12 dicembre 2019 (https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/perdonanza)