di Pier Paolo Tarsi
Mi sedetti alla penombra su un masso posto sul ciglio e restai a guardare la via di casa con l’intento di prestarle per una volta l’attenzione che, proprio in quel momento, reputai non averle mai concesso. Vi era poco di inconsueto; in lontananza, guardando in direzione del paesino, una aureola luminosa e giallastra attorniava le forme confuse dell’abitato, più in alto quella si confondeva con l’aria in una sorta di nebbia, sfumando infine nell’oscurità che sovrastava il tutto. Dal mio sasso non potevo scorgere il borgo posto al centro di quella nube luminosa ma solo indovinare le forme ultime degli orrori edilizi postumi che lo attorniavano.
Rividi, immaginandole soltanto, le viscere antiche e lastricate che dal cuore del paesino si dipanavano qua e là in percorsi male asfaltati ma più lineari; questi si allungavano verso le periferie desolate o andavano a morire in sentieri bui di campagna come la strada in cui ero seduto, quella di casa. Dietro di me, dall’altra parte rispetto al paesino, niente altro che oscurità e profili di alberi o fogliame che offrivano qualche ultima occasione di un riflesso alla luna, prima del nulla alla vista.
Là dove questa non poteva giungere solo il sottofondo costante dei grilli, il richiamo raro di qualche uccello notturno e l’abbaiare a tratti di un cane lasciavano indovinare altre presenze visibili tra le infinite distese di uliveti che seguivano.
L’aria si era fatta più fresca, misi una mano sulla tasca alla ricerca di un accendino con cui dar fuoco al sigaro che avevo già in bocca ma non lo trovai. Mi alzai in piedi senza pensarci e poggiai le mani su entrambe le tasche, alle mie spalle allora sentii quelle parole investirmi e colpirmi con uno scroscio improvviso di terrore: “Devi accendere?”. Sobbalzai violentemente e certamente urlai, voltandomi. La vidi là, a mezzo metro da me, con un braccio proteso e immobile, un riflesso di luce le illuminava mezzo volto, il resto, separato da una diagonale, più in ombra. “Che ti è preso?” mi chiese, senza muoversi, immobilizzata come me da un terrore di riflesso. Poi abbassò il braccio, uscì dall’ombra completamente muovendo un passo verso me ed io indietreggiai di istinto, ancora in preda al panico che non riuscivo a domare. “Chi sei? Da dove sbuchi?” riuscii a dire, forse urlando e di certo in affanno.
Era la prima volta, dopo quei mesi, che risentivo la mia voce, la avvertii esplodere nell’aria come fosse quella di un estraneo.
Non mi rispose, mi puntò lo sguardo in volto e soltanto mi disse, mentre si chinava un poco “Tieni, te lo lascio qua”, abbandonando l’accendino per terra, tra me e lei. Si risollevò, mi guardò ancora, come se attendesse una mia reazione.
Restai immobile e in silenzio, finché lei allargò le braccia come in segno di rinuncia e, mi parve, sbuffando appena con le labbra che accennavano un sorriso.
Si voltò allora per andarsene, dirigendosi nell’oscurità che vidi presto inghiottirla e renderla invisibile, così come era stata per tutto quel tempo seduta dietro me. Solo in quel momento, mentre moriva nell’aria, avvertii il suo profumo che quella sera dileguava sul ciglio della strada di casa. Si dissipava e una certa nostalgia ne prendeva subito il posto.
Uno dei pochi casi in cui qualsiasi commento sarebbe un atto di violenza. Però, non potevo starmene zitto e non farti i miei complimenti.