di Marcello Semeraro
Durante il ventennio fascista il regime individuò nell’araldica pubblica un valido strumento di consenso e di propaganda politica. A partire dal 1933 negli stemmi dei comuni, delle province e degli enti morali fece la sua comparsa il famigerato fascio littorio, emblema dello Stato fascista (fig. 1).
Non è questa la sede per disquisire della storia di questo antichissimo simbolo, del suo utilizzo nel corso del tempo e dello stravolgimento che ne fece il fascismo. Qui mi limito pertanto ad osservare che si tratta di una figura di origine etrusca, passata poi alla civiltà romana, dove divenne insegna e simbolo dei magistrati dotati di imperium. I fasci romani erano costituiti da verghe di olmo e di betulla, tenute insieme di strisce di cuoio rosse, con una scure inserita lateralmente. Erano portati sulla spalla sinistra dai lictores – una sorta di scorta che precedeva i magistrati in numero diverso a seconda della loro importanza – e simboleggiavano la dimensione coercitiva dell’imperium: le verghe richiamavano infatti la pena della fustigazione, mentre la scure quella della decapitazione.
Come è noto, il fascismo si considerò il naturale continuatore dell’antica Roma e ne mutuò non solo la terminologia (soprattutto in ambito militare e politico) ma anche i simboli. È proprio dall’antica Roma fu attinto quello che sarebbe diventato il principale simbolo del regime: il fascio littorio. Fu il Regio Decreto n. 2061 del 12 dicembre 1926 ad elevare il fascio ad emblema di Stato, disponendone la diffusione su ogni genere di distintivo pubblico. Sette anni dopo fu la volta del Regio Decreto n. 1440 del 12 ottobre 1933, che ne disciplinava l’uso da parte dei comuni, delle province e degli enti morali, stabilendone l’inserimento all’interno dello scudo, nella forma della figura araldica del capo (pezza che occupa la parte più alta del campo, larga 1/3 dello scudo, delimitata da una linea orizzontale).
Nacque così il cosiddetto capo del littorio: di rosso (porpora), al fascio littorio d’oro, circondato da due rami di quercia e di alloro, annodati da un nastro dai colori nazionali (fig. 2).
Il capo è la pezza più importante dell’araldica italiana. Una delle sue funzioni principali è di indicare l’appartenenza a una determinata fazione politica (sono noti, ad esempio, i capi d’Angiò e dell’Impero, rispettivamente distintivi della fazione guelfa e di quella ghibellina). Riprendendo l’uso medievale tipicamente italiano di esprimere l’appartenenza a una fazione politica attraverso il capo araldico, il regime volle così arricchire l’iconografia di Stato introducendo nelle insegne civiche un elemento visivo che rappresentasse l’indissolubile legame tra gli enti territoriali italiani e il fascismo.
La presenza di questa raffigurazione nell’araldica italiana durò tuttavia solo pochi anni. Il 25 luglio del 1943 il Gran Consiglio del Fascismo approvò un ordine del giorno che sfiduciò Mussolini, provocandone la caduta. Già a partire dal giorno successivo, centinaia di persone si riversarono nelle vie delle città italiane e, armati di picconi e scalpelli, iniziarono a cancellare i simboli fascisti (fig. 3).
Il Decreto Luogotenenziale n. 313 del 26 Ottobre 1944 soppresse poi il fascio littorio da ogni documento ufficiale, compresi gli stemmi. Molti comuni italiani seguirono alla lettera le disposizioni del decreto e, pur eliminando il fascio (talora sostituendolo con figure diverse), mantennero tutto il resto (i rami decussati e il nastro). Oria non fu immune da questa furia iconoclasta, i cui effetti sono ancora oggi visibili sullo stemma civico scolpito sulla facciata di palazzo Martini. Dopo essere stato a lungo dimora dell’omonima e illustre famiglia oritana, nel 1933 il palazzo fu ceduto, in cambio del castello svevo, al comune di Oria, di cui fu sede municipale fino alla metà degli anni ’80 (fig. 4). La funzione pubblica svolta dall’edificio in quel lasso di tempo spiega quindi la presenza dello stemma cittadino, in uso almeno dal XVI secolo (fig. 5).
L’insegna è contenuta in uno scudo sannitico racchiuso da una cornice cuoriforme ornata da cartocci e foglie di acanto. Al di sopra dello scudo compare una corona muraria merlata alla ghibellina, timbro che allude al titolo di comune di cui si fregiò Oria fino al 1951, allorché assunse quello di città, acquisendone la corrispettiva insegna, ovvero la corona turrita. Osservando bene la parte superiore del manufatto, si nota con molta chiarezza, in mezzo ai due rami, il particolare del fascio “raschiato”, vittima di quella iconoclastia che si scatenò anche ad Oria dopo la caduta di Mussolini. Dell’emblema di Stato, simbolo del potere fascista, non restarono che il capo e le figure più neutrali (i rami di alloro e di quercia), svuotati di ogni connotazione coercitiva. Come quasi sempre accade dopo rivoluzioni e conquiste, al cambio di regime corrisponde anche una cancellazione dei simboli e degli emblemi del potere precedente.
Nel caso del fascismo, questa damnatio memoriae fu ancora più dissacrante se pensiamo che esso fu un sistema politico che assegnò ai riti e ai simboli una centralità assoluta. Se adeguatamente interpretato, lo stemma civico di palazzo Martini costituisce quindi un manifesto visivo dalla valenza polisemica, rappresentativo dell’evoluzione dello status del comune di Oria nel periodo che va dal 1933 alla fine del regime fascista.
Come tale, non va analizzato come un esemplare a sé stante, ma piuttosto come parte di un contesto più vasto, frutto di una precisa realtà storica e sociale. Solo attraverso la ricostruzione del sistema di appartenenza e del vincolo che lo ha creato e poi dissolto, si può comprendere il messaggio che lo stemma ci trasmette: un messaggio di libertà e di democrazia, valori faticosamente conquistati dai nostri avi dopo anni di feroce dittatura.
BIBLIOGRAFIA
M.C. A. GORRA, Il valore simbolico del fascio, dagli Etrusci ad oggi, in “Cronaca Numismatica”, n° 234, novembre 2010, pp. 63-67.
- Neubecker, Araldica. Origini, simboli, significati, Milano 1980.
- POPOFF, Le “capo dello scudo” dans l’héraldique florentine XIII-XVI siècles , in “Brisures, augmentations et changements d’armoiries”, Actes du 5e colloque international d’héraldique, Spolète 12-16 oct. 1987, Bruxelles, Académie Internationale d’Héraldique, 1988.
- S. Salvatori, Romanità e fascismo: il fascio littorio, in “Forma Urbis”, XVIII, n° 6, giugno 2013, pp. 6-13.
APPREZZANDO MOLTO L’INTERVENTO e la prospettiva storiografica (con la sua attenzione al materiale araldico e numismatico), sperando di far cosa gradita, allego qui il titolo e il link di alcune mie note sul tema:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA “CAPO”!:
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI – II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5889
Federico La Sala
Sarebbe interessante scoprire le origini di Palazzo Martini, originariamente di proprietà dell’abate Carbone di Oria. Nella carta dei beni culturali della regione Puglia è riportato che XIX secolo è stato ereditato dalla famiglia Martini Carissimo (notizia molto vaga se si considera che A)-dovremmo correttamente dire famiglia “famiglia Martini”; B)-non viene spiegato il meccanismo dell’eredità). Grazie.