di Armando Polito
La rappresentazione grafica completa più antica della favola di Piramo e Tisbe che io conosca è nel foglio 47r di un manoscritto del 1289 custodito nella Biblioteca Nazionale di Francia (Ms. lat. 15158).
A testimonianza della popolarità ininterrotta nel tempo della favola va detto, facendo un balzo indietro di parecchi secoli, che molti affreschi pompeiani (nelle immagini quelli più leggibili, almeno fino ad ora …) ci hanno restituito una sua rappresentazione fedele al racconto ovidiano; il primo e il secondo dalla Casa della Venere in bikini, alias Casa di Massimo (I, 11, 6.7), il terzo dalla Casa di Lucrezio Frontone (V, 4, 11), il quarto dalla Casa di Ottavio Quartione, alias di Loreto Tiburtino (II, 2, 2).
Del mito, però, esiste anche una versione greca, forse più antica ma attestata, non senza dubbi di attribuzione, da un autore successivo, e di secoli, ad Ovidio, cioè da Nicolao Sofista, V secolo d. C.: Tisbe e Piramo avevano lo stesso reciproco desiderio. Gli innamorati si unirono: la ragazza restata incinta e nel tentativo di nascondere l’accaduto si uccide; il giovane appresolo si abbandona allo stesso destino e gli dei mossi a compassione per l’accaduto trasformarono entrambi in acqua e Piramo divenuto fiume scorre attraverso le terre della Cilicia. Tisbe è divenuta una fonte e in questo fiume getta le sue acque1
In una Moneta di Valeriano I (253-260) rinvenuta a Mopso, città della Cilicia (parte meridionale della penisola anatolica): al retto, busto drappeggiato dell’imperatore con testa coronata; legenda: AYT·K·OYAΛΕΡΙΑΟC·CE (da sciogliere in ΑYΓOYCTOC KAICAP CEBACTOC=Augusto Cesare Venerabile).
Al verso: il dio-fiume Piramo adagiato su un ponte a cinque campate all’interno delle quali è composta la legenda ΔΩΡΕΑ=dono; in basso legenda ΠΥΡΑΜΟC=Piramo; in alto legenda AΔΡ ΜΟΠΕΑ ΤΩΝ (da risolvere in AΔΡOTHC ΜΟΠΕΑΤΩΝ)=forza degli abitanti di Mopso.
Nel gruppo di immagini che segue le prime due riproducono due dettagli di un mosaico datato al II-III secolo d. C. rinvenuto nella Casa del Portico a Seleucia, la terza quello di un mosaico datato al III secolo d. C. rinvenuto, sempre a Seleucia, nella Casa di Cilicia. Piramo e Tisbe, rispettivamente nella prima e nella seconda, e Piramo nella terza esibiscono un copricapo costituito da un serto di foglie acquatiche.
Passo ora ad un mosaico datato al III-IV secolo d. C. e rinvenuto nella Casa di Dioniso a Pafo nell’isola di Cipro; esso mostra, secondo me, la fusione fra le due versioni, quella greca e quella romana, del mito.
La postura di Piramo, infatti, è quella tipica del dio fluviale, completata dall’anfora su cui poggia il braccio sinistro e dalla quale si riversa un liquido scuro che si direbbe sangue (vino non direi …), mentre sotto l’ascella, sempre sinistra, spunta una canna palustre, le cui foglie, inoltre, compongono il copricapo già rilevato nei mosaici precedenti. Nella destra stringe una cornucopia da cui sembrano traboccare quelli che si direbbero grappoli di uva più che sorosi di gelso. Appartiene, invece, all’iconografia romana il leopardo che, però, sostituisce la leonessa originale. Manca la drammaticità e, direi, la truculenza dell’iconografia romana ed a questo contribuisce non solo la raffigurazione di Piramo ma anche quella di Tisbe colta nel momento in cui scopre Piramo morente e non in quello in cui ha già dato esito alla sua volontà di farla finita. Del tutto normale, poi, sulle rispettive teste, la scarna didascalia costituita dal nome dei protagonisti (ΘΙCΒΗ e ΠΥΡΑΜΟC).
Ogni mito contiene sempre un fondo di verità e la favola di Piramo e Tisbe con la metamorfosi dell’albero (dettaglio presente solo in Ovidio) confermerebbe l’origine orientale del gelso bianco (Morus alba L.), specie che non compare nella letteratura scientifica greca o latina, ove si parla solo del gelso nero (Morus nigra L.) e del rovo (Rubus fruticosus L.).
Non a caso tutte le essenze appena indicate con il loro nome scientifico, nonché il lampone (Rubus Idaeus L.) hanno in comune il dominio (Eukaryotes), la divisione (Magnoliopsides), l’ordine (Urticales) e la famiglia (Moraceae).
Certamente, però, non si può fugare il dubbio che la metamorfosi ovidiana del gelso sia un’invenzione poetica (i frutti del gelso non hanno da subito la colorazione che assumono quando sono maturi), la quale piacque a tal punto che a distanza di quasi 1500 anni il napoletano Jacopo Sannazaro la rielaborò nell’elegia In morum candidam (Al gelso bianco), in cui la protagonista, la naiade Morinna (nome scelto certamente non a caso …), a Baia viene trasformata in un gelso bianco2 per sfuggire (solita storia …), rallentata nella sua corsa da una tempesta di grandine e pioggia (alla fine il poeta le amplifica in nives=nevi), alla libidine di un essere che, secondo me non senza ironia, viene chiamato semideusque caper semicaperque deus (e semidio capro e capro semidio).
Per tornare ad Ovidio: secondo il Keith3 alla base del racconto ci sarebbe un gioco di parole che coinvolge in una sorta di ammucchiata paronomastica (questa definizione è mia) le voci morus=gelso, mora=indugio, amor=amore, mors=morte. L’osservazione è suggestiva ma credo che tutto sia dovuto al caso perché è difficile immaginare che un versificatore abilissimo come Ovidio4 si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di utilizzare pure l’aggettivo morus/mora/morum=pazzo nella forma maschile morus (che nulla ha a che fare col morus sostantivo precedente) riferito a Piramo e/o in quella femminile mora (nulla a che fare col precedente sostantivo) riferito a Tisbe. E se per morus/mora/morum mi si può obiettare che la voce è attestata solo in Plauto (III-II secolo a. C.), che probabilmente era di uso popolare e, comunque, obsoleta (e da tempo) a quasi due secoli di distanza, Ovidio avrebbe potuto utilizzare pure uno dei casi di mos/moris=abitudine, carattere, volontà, capriccio.
Ho già detto che nessun autore greco o latino parla del gelso bianco, ma la produzione della seta dal baco è già nota in Aristotele: Poi da un grande verme, che ha come corna e differisce dagli altri, c’è dapprima, col cambiamento del verme, un bruco, poi un baco, da questo una crisalide e cambia tutte queste forme in sei mesi. Da questo animale alcune donne sciolgono i bozzoli dipanandoli e poi tessono.5
Ciò fa pensare che anche nel mondo greco i bachi si nutrissero delle foglie sì del gelso, ma di quello nero; e un passo di Piero de’ Crescenzi (1233-1320) autorizza a supporre che ciò sia continuato per lungo tempo anche in Occidente dopo l’introduzione del baco da seta: Grande danno inoltre subisce il gelso fino ad ostacolare la crescita sua e dei suoi frutti tanto da renderli del tutto inutilizzabili se vengono spogliati delle loro foglie e soprattutto se non sono lasciate quelle che in essi si trovano alla sommità dei rametti o, ancora peggio, se le stesse cime vengono raccolte con le foglie, come spesso inopportunamente fanno esagerando le donne, quando le raccolgono come cibo dei vermi poiché esse sono ottimo cibo per loro. Sono raccolte non appena i vermi sono nati fino a che non smettono di mangiare e cominciano a compiere la loro opera. Il frutto poi mostra la maturazione con la nerezza e con la tenerezza.6
Come siano andate effettivamente le cose e come finiranno i gelsi dell’Incoronata, la stessa chiesa e l’immondo scheletro di calcestruzzo che oscenamente fa loro compagnia nessuno può dirlo. Mi illudo solo che chiunque si sia imbattuto in queste righe, passandoci vicino, dedichi alla riflessione qualche secondo in più rispetto al tempo che la frenetica e superficiale vita di oggi usualmente ci concede. Non sono un credente, almeno nel senso corrente del termine, ma mi piace, comunque, immaginare che un salentino, Roberto Malerba, l’uomo che sussurrava ai gelsi, scomparso poco più di due anni fa e forse troppo presto dimenticato, in barba al mito, alla scienza, alla storia, alla tecnologia, ai giochi di parola consapevoli o meno e ai limiti di ognuno di noi, ora lo sa e, magari, difenderà, insieme con gli altri, i gelsi dell’Incoronata e le innumerevoli nostre bellezze, almeno quelle superstiti, più di quanto non abbia già fatto, egregiamente, durante la sua troppo breve avventura terrena.
Per la prima parte:
https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/06/15/gelsi-dellincoronata-mi-piace-ricordarli-cosi-13/
Per la seconda parte:
https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/06/17/gelsi-dellincoronata-mi-piace-ricordarli-cosi/
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1 Progymnasmata, II, 9, in Rhetores Graeci, a cura di Cristiano Walz, v. I, F. Didot, Parigi, 1832, pag. 271: Θίσβη καὶ Πὑραμος τὴν ἴσον πρὸς ἀλλήλους ἐκέκτηντο πόθον. Ἐρῶντες δὲ ἐπλησίαζον· κύουσα δὲ ἡ παῖς καὶ τὸ γεγονὸς πειρωμένη λαθεῖν ἀναιρεῖ μὲν ἑαυτὴν, μαθῶν δὲ ὁ νέος παραπλησίαν ὑφίσταται τύχην, καὶ θεοὶ τὸ συμβὰν ἐλεήσαντες εἰς ὕδωρ. Ἄμφω μετέστησαν, καὶ ποταμὸς μὲν γεγονὼς ὁ Πὑραμος διαῤῥέει τοὺς Κίλικαϛ, πηγὴ δὲ ἡ Θίσβη, καὶ παρὰ τοῦτον ποιεῖται τὰς ἐκβολάς.
Due ricordi più sintetici della metamorfosi idrica di Piramo e Tisbe ma anteriori rispetto a Nicolao, sono in Imerio di Bitinia (IV secolo d. C.): Orationes, I, 11: Εἰ ἔδει καὶ ποταμῶν ἔργα συνάπτειν τῷ γάμῳ, ὕμνετο ἄν ἐκ τούτων ὁ γάμος. Ποταμῷ μὲν τῷ γείτονι προξενεῖ Θίσβην τὴν γείτονα, ἥν καὶ ἐκ κόρης εἰς ὕδωρ ἀμείβει, καὶ τηρεῖ μέχρι ναμάτων τὸν ἔρωτα, εἰς ταυτὸν ἄγων τῆς τε ἐρωμένης καὶ τοῦ νυμφίου τὰ ῥεύματα (Se fosse necessario applicare le vicende dei fiumi alle nozze, anche le nozze potrebbero essere da loro celebrate. Ciò avvicina al vicino fiume la vicina Tisbe che pure lei da fanciulla diventa acqua e custodisce l’amore fino alle sorgenti congiungendo in una stessa cosa il corso e dell’innamorata e dello sposo); ancora nello Pseudo Clemente (IV secolo), Recognitiones, X. 26, del testo originale in greco rimangono solo pochi frammenti e la traduzione fatta nel secolo successivo da Rufino di Aquileia:…Thysbem apud Ciliciam in fontem et Pyramum inibi in fluvium resolutos … ( … mutati Tisbe in Cilicia in fonte e nello stesso posto Piramo in fiume …); infine, in Nonno di Panopoli (V secolo d. C.), Dionisiache, XII, 84-85: Θίσβη δ’ὑγρὸν ὕδωρ καὶ Πὑραμος, ἥλικες ἄμφω,/ἀλλήλους ποθέοντες … (Tisbe acqua fresca al pari di Piramo, ambedue giovani reciprocamente innamorati …). Per completezza cito le altre fonti: Lattanzio Palcido (IV secolo), Narrationes fabularum Ovidianarum, IV, 3: Pyramus et Thisbe urbis Babyloniae, quam Semiramis regina muro cinxerat, et aetate et forma pares, cum in propinquo habitarent, rima parietis et conloquii et amoris initia inter se pignerati sunt. Constituerunt itaque, ut a matutino ad monumentum Nini regis sub arborem morum convenirent ad amorem. Et cum celerius sub lucem Thisbe, nacta occasionem, ad destinatum locum venisset, conspectu leaenae exterrita abiecto amictu in silvam refugit. At fera a recenti praeda cum ad fontem vicinum tumulo sitiens decurreret, relictam vestem cruento ore laceravit. Post cuius discessum Pyramus cum eundem venisset locum et amictum sanguine adspersum invenisset, existimans a fera consumptam, ferro se sub arbore interfecit. Deinde Thisbe deposito metu, cum eundem fuisset reversa locum et conperisset, se causam mortis adolescentis exstitisse, itaque, ne diutius dolori superesset, eodem ferro se traiecit. Quorum cruore morus arbor adspersa, quia foedissimi spectaculi fuerat inspectrix, poma, quae gerebat alba, in conscium vertit colorem (Piramo e Tisbe della città di Babilonia, che la regina Semiramide aveva cinto di un muro, pari di età e bellezza, abitando vicini, si assicurarono lo sviluppo iniziale del loro amore e dello scambio delle loro parole parole grazie ad una fessura della parete. E così stabilirono un incontro d’amore di primo mattino presso la tomba del re Nino sotto un albero di gelso. E Tisbe, sfruttando l’opportunità, essendo arrivata prima sul far dell’alba al luogo stabilito, atterrita alla vista di una leonessa, lasciato cadere il velo, si rifugiò nel bosco. Ma la belva in preda alla sete, correndo dalla preda appena incontrata verso una fonte vicina alla tomba lacerò con la bocca insanguinata il velo abbandonato. Piramo, essendo giunto nel medesimo luogo ed aver trovato il velo insanguinato, credendo che la ragazza fosse stata divorata dalla belva, si uccise con la spada sotto l’albero. Poco dopo Tisbe, deposta la paura, essendo ritornata sul medesimo posto ed avendo scoperto di essere stata la causa della morte del giovane, così, per non sopravvivere troppo a lungo al dolore, si trafisse con la stessa spada. L’albero di gelso cosparso del loro sangue, poiché era stato spettatore dell’orrenda scena, mutò i frutti, che portava bianchi, in un colore che ricordasse la disgrazia).
2 Ecco il momento culminante nei versi 55-60: Fitque arbor subito. Morum dixere priores/et de Morinna nil nisi nomen habet:/pes in radice, in frondes ivere capilli,/ et quae nunc cortex caerula vestis erat./Brachia sunt rami, sed quae nitidissima poma,/quas male vitasti, Nimpha, fuere nives. (E all’istante diventa albero. Gelso lo chiamarono gli antichi e di Corinna nulla ha se non il nome: il piede divenne radice, i capelli si trasformarono in fronde e quella che ora è corteccia era una veste azzurra. Le braccia sono rami ma, o ninfa, furono le nevi che non riuscisti a superare quei bianchissimi frutti).
3 A. M. Keith, Etymological Wordplay in Ovid’s ‘Pyramus and Thisbe, in The classical Quarterly, LI, n. 1, 2001, pp. 309-312.
4 Di se stesso così dice senza falsa modestia (Tristia, IV, 10, 26): Et quod temptabam dicere versus erat (E ciò che tentavo di dire era verso).
5 De historia animalium, V, 19, 551: Ἐκ δέ τινος σκώληκος μεγάλου, ὅς ἔχει οἷον κέρατα καὶ διαφέρει τῶν ἄλλων, γίνεται πρῶτον μὲν μεταβαλόντος τοῦ σκώληκος κάμπη, ἔπειτα βομβύλιος, ἐκ δὲ τούτου νεκύδαλος· ἐν ἕξ δὲ μησὶ μεταβάλλει ταύτας τὰς μορφὰς πάσας. Ἐκ δὲ τούτου τοῦ ζῴου καὶ τὰ βομβύκια ἀναλύουσι τῶν γυναικῶν τινὲς ἀναπηνιζόμεναι, κἄπειτα ὑφαίνουσιν.
6 Dell’agricoltura, V, 14; cito dall’edizione De omnibus agriculturae partibus et de plantarum et animalium generibus, 1548, s, n., s. l., pag. 151: Accidit praeterea nocumentum magnum moro, ut eius impediatur augmentum et fructibus eius, ut omnino inutiles fiant, si suis foliis spolientur et maxime si non fuerint quae in summitatibus sunt ramusculorum in eis relicta, vel, quod peius est, si sint ipsae summitates cum frondibus collectae, ut saepe importunae nimium faciunt mulieres cum eas proptere escas vermium colligunt, quae vermibus sunt optimus cibus. Colliguntur statim cum vermes nati fuerint usque quo a cibo desistunt et incipiunt opus facere. Fructus autem cum sua nigredine et teneritudine maturitatem fatetur.