di Armando Polito
Paghi uno e prendi due. Pare che la formula abbia un certo successo e mi auguro che valga oggi pure per me, tanto più che è tutto gratuito, non solo il titolo ma pure il sottotitolo, che potrebbe essere Giovanni Domenico Roccamora, un neretino professore alla Sapienza, ma pure il vino non scherza …
Non ho avuto il tempo e meno ancora la voglia per una ricerca in rete che mi autorizzasse a cambiare l’un del sottotitolo con un il quasi antonomastico. Il tentativo sarebbe stato, forse, fruttuoso ma certamente non motivo di ulteriore orgoglio scoprire, magari, che Pinco Pallino di Nardò (ma il discorso vale per ogni lembo di questo nostro digraziato paese) in tempi recenti è stato, e magari lo è ancora, titolare di una delle tante cattedre inventate dalla politica per alimentare il suo clientelismo o per sdebitarsi a consenso ottenuto
Il merito e la competenza, ormai, salvo eccezioni sempre più rare, appartengono al passato , nel quale uno che ha i miei anni ogni tanto è obbligato a fare un salutare bagno, per non rovinarsi il poco tempo che gli resta.
Il personaggio neretino del passato di cui mi occuperò oggi è Giovanni Domenico Roccamora. Se provate a digitarlo integralmente in un qualsiasi motore di ricerca otterrete più di un link da consultare, chi digiterà il solo cognome avrà una caterva di collegamenti che conducono ad un vino prodotto da una nota cantina di Nardò. L’etichetta, non quella della bottiglia …, però, mi obbliga a tornare al vino alla fine e ad occuparmi ora del personaggio.
Siccome le immagini, a saperle leggere, sono più eloquenti di mille parole, in assenza di ritratti del nostro, riporto i frontespizi delle sue opere.
Tutte le pubblicazioni del neretino sono piuttosto rare. Per questa in particolare l’OPAC ne registra la presenza di soli sette esemplari nelle biblioteche italiane, di cui uno nella Biblioteca diocesana “Antonio Sanfelice” di Nardò. Non ho avuto il tempo di leggere questo come gli altri testi qui presentati e, quindi, non sono in grado di dare un giudizio, anche per mancanza di competenza specifica. Tuttavia debbo confessare che mi sarebbe piaciuto capire se la nobiltà evocata è quella dell’animo oppure, come temo (credo che da questo punto di vista allora, come ora, le condizioni economiche fossero determinanti per potersi acculturare …), la blasonata. Tuttavia la rete mi ha dato l’opportunità di sfogliarlo rapidamente e di notare, quanto meno, l’indubbio pregio tipografico per la presenza di incisioni, anche se, a differenza di quelle che, come vedremo, sono a corredo di opere successive, sono anonime.
Quella che segue è l’antiporta, che rappresenta Minerva nel suo studio con alcuni ferri del mestiere sparsi sul tavolo ed altri collocati in una specie di libreria alle sue spalle.
Appeso al muro uno stemma nobiliare sul quale tornerò fra poco.
Al frontespizio già visto segue quest’immagine.
Nel drappo/cartiglio retto dall’angelo si legge Tua lege hic nomina (leggi qui il tuo destino), Se fosse riferito al libro non avrei avuto remore a dire che il Roccamora era un grandissimo presuntuoso. Qui (l’Illuminismo ancora è lontano , ma ancora più lontana la riabilitazione di Galileo …) ha voluto solo dire che i due prodotti più cospicui dell’uomo, cioé la scienza (vedi la serie di triangoli inserita nello scudo di destra, simile a quello presente nell’antiporta) e il potere (i due scudi, appunto, entrambi con corone marchesali) debbono essere illuminati dalla sovrintendenza divina. Una curiosità: il timbro che si vede in basso a sinistra (anche in basso a destra nel frontespizio) reca la dicitura ALESSANDRINA, cioè il ricordo della sua appartenenza alla biblioteca dello Studium Urbis (il primo nucleo della Sapienza) fondata nel 1667 dal papa Alessandro VII (al secolo Fabio Chigi), che era stato vescovo, sia pur fantasma (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/04/10/lo-stemma-di-fabio-chigi-vescovo-fantasma-di-nardo-e-poi-papa-celebrato-in-versi/ ) di Nardò. Il testo è del 1668; dunque, a riprova dell’autorevolezza del suo autore, il libro dovette entrarvi molto presto, forse l’anno stesso della sua uscita. Infine, quasi a conforto della componente fideistica apparentemente, per quanto dirò, paradossale , in lege hic nomina sento un’eco del virgiliano (Eneide, II, 691) da deinde auxilium, pater, atque haec omina firma (quindi, o padre [Giove], aiutaci e garantisci questo destino). Ho detto che le due corone sono marchesali; aggiungo che lo stemma di sinistra (dunque anche quello che compare nel frontespizio) è quello della famiglia Costaguti, come conferma la dedica del libro Marchioni munificentissimo Io. Baptistae Costaguto (Al generosissimo marchese Giovanni Battista Costaguti). E in calce alla dedica al marchese, che era anche cardinale (immagine tratta da http://www.araldicavaticana.com/cx135.htm)
quasi la replica sincreticamente aggiornata (i tre scaglioni dello scudo sono scomparsi, ma le tre stelle ora sono sorrette dai tre angeli) dell’immagine precedente:
Da notare la ripetizione quasi ossessiva di quest’immagine all’inizio della trattazione vera e propria, alle pagine 143, 149, 204 (dopo l’indice della prima parte), 306, 402 (alla fine del secondo indice, in pratica del libro)
Quanto detto finora m’induce a pensare che lo scudo di destra vuole essere quasi un’allusiva reductio ad minimum (un triangolo isolato,serie sottostante di triangoli concentrici, che evocano gli scaglioni, tutti con i vertici sormontati da stelle). Insomma, un adattamento certamente arbitrario che consente di affermare senza mezzi termini, coerentemente d’altra parte, con buona pace di Galileo, con la cultura dominante, il primato della fede sulla ragione. A parte altre immagini minori con funzione puramente decorativa (le solite composizioni nastriformi o floreali) e quelle tecniche relative alle dimostrazioni geometriche, nel volume compaiono le seguenti due che non credo abbiano un particolare significato:
alle pp. 2, 69, 145, 193, 265 (prima dell’indice della prima parte), 308
a p. 304
Prima di chiudere il discorso su questa prima opera propongo in visione comparata lasciando al lettore ogni conclusione la testa del Costaguti tratta dal ritratto, quella presente nello stemma dell’antiporta e la testa del terzo angelo (ben diversa da quella degli altri due, non solo per la posizione frontale) a sinistra netta tavola che segue al frontespizio.
Passo alla seconda opera.
Per quanto riguarda le immagini, oltre quelle tecniche di natura astronomica, compaiono gli stessi motivi decorativi e la stessa immagine col cavallo dell’opera precedente a p. 41, 124 e 198.Tuttavia il dettaglio più interessante mi pare essere il tratto finale, in pratica la firma, di una delle tante dichiarazioni di apprezzamento dell’opera all’inizio della stessa riportate, in cui si legge:
Intriga non poco Assist(ens?) et Galil(ei?) discipul(us) ma il tempo incalza.
Questa è l’opera più corposa del Roccamora, uscita in 4 tomi (nelle immagini il frontespizio del primo e dell’ultimo) dal 1668 al 1684. Essa è ancora più rara della precedente, ma è motivo di orgoglio ricordare che un esemplare è custodito nella Biblioteca comunale Achille Vergari di Nardò ed è quello la cui versione digitale, l’unica, è presente in rete. Oltretutto il pregio editoriale è esaltato dalla presenza di tavole, alcune delle quali sono firmate da nomi prestigiosi. Mi pare doveroso, e non è un freddo, ammiccante e prostituente, furbesco tributo all’attuale civiltà dell’immagine se ritengo opportuno soffermarmi su questa componente. riprendendole dalla predetta versione digitalizzata.
Nell’immagine che segue l’antiporta che credo fosse comune a tutti i tomi, anche se nell’esemplare indicato è assente nel primo e nel secondo tomo, il che mi spinge a sospettare che sia stata sottratta, perché è difficile credere che autore ed editore avrebbero pensato bene di eliminarla negli ultimi due volumi con il rame già pronto (a meno che questo non fosse andato perduto).
Mi limito a dire che il primo piano è dominato da Giovanni apostolo ed evangelista che scrive su un libro, il secondo da Dio che regge un rotolo spiegato con la scritta IESUS (dettaglio a seguire).
Tutto il resto sarà chiaro leggendo ciò che risulta scritto nel libro (di seguito il dettaglio ruotato di 90° per facilitare la lettura dello scritto)
Apoc(alipsis) c(apitulum) 5 n. 1
Vidi librum scriptum intus, et foris, signatum sigillis septem.
- 3
Et nemo poterat aperire librum
- ?
Dignus es Domine accipere librum et aperire signacula eius.
Si tratta di un estratto di alcuni paragrafi del libro V dell’Apocalisse che di seguito riporto integralmente con le parti presenti nel libro sottolineate.
5.1: Et vidi in dextera sedentis supra thronum, librum scriptum intus et foris, signatum sigillis septem.
5.2: Et vidi angelum fortem, prædicantem voce magna: Quis est dignus aperire librum, et solvere signacula ejus?
5.3: Et nemo poterat neque in cælo, neque in terra, neque subtus terram aperire librum, neque respicere illum.
5.4: Et ego flebam multum, quoniam nemo dignus inventus est aperire librum, nec videre eum.
5.5: Et unus de senioribus dixit mihi: Ne fleveris: ecce vicit leo de tribu Juda, radix David, aperire librum, et solvere septem signacula ejus.
5.6 Et vidi: et ecce in medio throni et quatuor animalium, et in medio seniorum, Agnum stantem tamquam occisum, habentem cornua septem, et oculos septem: qui sunt septem spiritus Dei, missi in omnem terram.
5.7: Et venit: et accepit de dextera sedentis in throno librum.
5.8: Et cum aperuisset librum, quatuor animalia, et viginti quatuor seniores ceciderunt coram Agno, habentes singuli citharas, et phialas aureas plenas odoramentorum, quæ sunt orationes sanctorum.
5.9: Et cantabant canticum novum, dicentes: Dignus es, Domine, accipere librum, et aperire signacula ejus. quoniam occisus es, et redemisti nos Deo in sanguine tuo ex omni tribu, et lingua, et populo, et natione:.
- 1: E vidi nella destra di uno che sedeva sul trono un libro scritto dentro e fuori, segnato con sette sigilli.
- 2: E vidi un forte angelo che a gran voce esclamava: -Chi è degno di aprire il libro e sciogliere i suoi sigilli?-
- 3: E nessuno poteva né in cielo né in terra né sotto terra aprire il libro né guardarlo.
- 4: Ed io piangevo molto perché nessuno fu trovato degno di aprire il libro né di guardarlo.
5.5: Ed uno dei vecchi mi disse: – Non piangere; ecco, ha vinto il leone della tribù di Giuda, il germoglio di Davide per aprire il libro e sciogliere i sette sigilli.
- 6: E guardai ed ecco tra il trono e quattro esseri viventi e i vecchi un agnello immobile come se fosse stato immolato, che aveva sette corna e sette occhi, che sono i sette spiriti di Dio inviati per tutta la terra.
5.7: E venne e prese il libro dalla destra di colui che sedeva sul trono.
5.8: E, avendo egli aperto il libro, i quattro esseri viventi e i ventiquattro vecchi si prostrarono davanti all’agnello ciascuno con una cetra e una coppa di oro piena di profumi, che sono le preghiere dei santi.
5.9: E intonavano un nuovo cantico dicendo: –Tu sei degno, o Signore, di prendere il libro e di aprire i suoi sigilli poiché sei stato ucciso e nel tuo sangue ci hai riacquistati a Dio da ogni tribù, lingua, popolo, nazione
In basso a sinistra si legge
Clemens Maiolus Ferrar(ensis) del(ineavit)
Clemente Maioli Ferrarese ha disegnato
Clemente Maioli, documentato a Roma tra il 1634 e il 1673, fu allievo di Giovan Franceso Romanelli (1610-1662), le cui opere più volte copiò e con il quale eseguì gli affreschi del sottarco nella cappella Celsi ai Santi Domenico e Sisto in Roma. Per noi è particolarmente interessante il fatto che sua è la decorazione del salone della Biblioteca Alessandrina alla Sapienza con raffigurazione del Trionfo della Religione.
immagine tratta da http://www.adnkronos.com/2015/04/30/per-barocco-roma-apre-battenti-fabbrica-della-sapienza-che-celebra-borromini_1Zd0XFfJlFbLhSm4qSTKbK.html
Torno alla nostra tavola. In basso a destra si legge
Vallet sculp(sit)
Vallet incise
Guillaume Vallet, 1632-1704, incisore parigino, ebbe nei temi religiosi (con tavole a corredo di libri dello stesso genere) e nei ritratti i suoi soggetti.
Giovanni Domenico fu certamente della famiglia Roccamora il più famoso del suo tempo, data la sua notorietà ben estesa oltre i limiti locali. Così non fu, invece, omonimia permettendo, per Giulio Cesare, del quale nulla sapremmo se non ce ne avesse lasciato una curiosa memoria Giovanni Battista Biscozzi, un cronista contemporaneo, nel suo Libro d’annali de’ successi accatuti (sic!) nella Città di Nardò.
Cito dall’edizione sulla quale il lettore che lo desideri potrà trovare ampia informazione in https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/03/nardo-vesuvio-anno-piu-anno-meno/, mentre sul quadro generale in cui si colloca questa testimonianza gli sarà utile quanto a suo tempo riportai in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/18/le-pasquinate-di-nardo/:
A dì primo Novembre 1632, fu fatto un cartello a tutto il Governo, ed altri aderenti del Patrone, e sono li sotto scritti: … Dr. Giuglio Cesare Roccamora, consultore della Città: nosce te ipsum quomodo cecidisti lucifer, cum mane oriebaris.
Riporto dall’ultimo link citato quanto nell’occasione ebbi a dire:
Mi pare evidente come al Roccamora si rimproveri una sorta di tradimento delle aspettative popolari a favore del potere costituito. Di ben altra pasta risulta essere, invece, un altro della stessa famiglia, l’abate Donato Antonio:
A 19 Agosto 1647, furono pigliati carcerati, l’Abate Gio: Filippo de Nuccio, l’Abate Donato Antonio Roccamora, nobili, Dr. Abate Benedetto Trono, Dr. Abate Gio: Carlo Colucci, Francesco Maria Gabbellone, e il cherico Domenico Gabellone Fratelli, D. Giovanni Giorgino, Stefano Gabellone, Fratello dell’anzidetto Gabelloni, tutti questo stevano uniti in casa delli detti Gabelloni per sicurtà, mentre in detta casa steva il Tenente della Compagnia, e detto Tenente li piglò carcerati in poder suo, tutti questi furono che nella falsa informazione presa, che erano stati i fomentatori alla ribellione, e alla congiura contro l’aderenti del Sig. Conte ; vetendo questo, molti del Popolo incominciarono ad uscire della città, andando per diversi luochi, ma la maggior parte in Gallipoli.
La sua permanenza in carcere durò poche ore perché
A 20 agosto 1647, fu tagliata la testa al Dr. Abate Gio. Carlo Colucci, d’anni 47; al Dr. Abate Benedetto Trono d’anni 70; Arciprete Gio. Filippo Muccio, di anni 42; Abate Donato Antonio Roccamora, di anni 53; D. Francesco Maria Gabellone di anni 40; cherico Domenico Gabellone d’anni 37; prima furono archibugiati, e poi tagliate le teste, detto fatto fu dietro il convento di S. Francesco di Paola, e in quell’istante si vide oscurarsi l’aria in tal modo, che non si vedevano l’uno con l’altro, e finito che ebero tal carneficina, l’oscurità si risolse in pioggia così abondante, che era quasi un diluvio, detti sfortunati preti, dacchè uscirono dal castello dove stavano carcerati, sino all’hora della loro morte, non mancavano di salmegiare, e dire diverse orazzioni, dandosi animo l’un con l’altro, e dicendo da continuo, Pater ignosce illis quia nesciunt quid faciunt, tra li quali D. Francesco Maria Gaballone, non cessò mai di dire, concepzio tua Dei genitris Virgo gaudium annunciavit universo Mundo, e doppo morto anche flebilmente risentiva dire dette parole, questo fatto fu ad hore diecinnove; nell’istessa notte fu ammazzato il Barone Pietrantonio Sambiasi a pugnalate, essendo questo d’anni 37, morto che fu l’appesero per piede alle furche mezzo della Piazza, e le teste delli preti, furono posto su il Sedile, e li corpi de medesimi distesi nella piazza attorno le furche.
Nella stessa cronaca il conte di Nardò il 12 dicembre 1654 dispone un sequestro a danno della famiglia Collucci dei seguenti beni: Una casa consistente in quanto necessita, vicino la chiesa di S. Giovanni attaccate le case di Anibale Roccamora …
Qui Anibale Roccamora funge solo da riferimento di confine ma poco più avanti un altro esponente della famiglia è soggetto passivo di sequestro:
A D. Caterina Roccamora : sacco dato nella casa dell’Abate Roccamora, di valore docati 400 di mobili, il trappeto, e giardino preso dal sig. conte.
Le orecchie cominciano a rimbombarmi delle rimostranze di qualche lettore più amante del vino che della storia e della teologia. Lo accontento subito ancora con un’immagine, quella dell’agognata bottiglia, prodotta dalla stessa cantina di Nardò, creatrice di un’altra etichetta legata alla nostra storia, Nauna, sulla quale ho avuto già occasione di dire la mia (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/07/09/nauna-sulla-bonta-delliscrizione-qualche-dubbio-quella-del-vino-nessuna/).
Tutto quanto fin qui detto non sarà scorso come acqua fresca se almeno al momento di stapparne una ci sarà un attimo di riflessione, anche se alla fine di questa pappardella debbo precisare che Roccamora non è in riferimento al professore universitario ma agli sfortunati protagonisti di quel periodo piuttosto buio della storia di Nardò. Mi auguro solo che a qualcuno non venga in mente un’etichetta Il guercio di Puglia …
LA COMETA, L’APOCALISSE, LE “CIFRE DELL’EUCHARISTIA”, E UNA BOTTIGLIA DI ROCCAMORA.IN VINO VERITAS …
A COMINCIARE DALLA FINE, E DALLA BOTTIGLIA DI “ROCCAMORA” (sull’etichetta della bottiglia di “rosso” “negroamaro”, in forma di “croce”, appare un “calice” con dentro il “sole”!), GUARDANDO E “LEGGENDO” CON maggiore ATTENZIONE L’IMMAGINE DELL’ETICHETTA, E FREQUENTANDO (di più) LA “SCHOLA SARMENTI” ( cfr.: http://www.foodandtravelitalia.it/schola-sarmenti-dallamore-la-terra-leccellenza-bottiglia/), è possibile capire MEGLIO (mi sia lecito!!!) QUESTO PREZIOSO contributo del prof. Armando Polito su “ROCCAMORA, OVVERO IL VINO COME STORIA E COME CULTURA” ( cfr.: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/06/05/roccamora-ovvero-vino-storia-cultura/…) e, forse, riuscire a non confondere il buon-vino con il vino taroccato, o, diversamente e più pertinentemente, di non perdere il legame che corre e scorre tra il vino, l’acqua sporca, e il bambino,
Qui il discorso è, o, se si vuole, diventa filosofico, antropologico, e teologico! La questione (e la parola) rimanda alla EUCHARISTIA e alle sue CIFRE – all’opera di GIOVANNI DOMENICO ROCCAMORA (CFR.: https://books.google.it/books?id=l462IgykiVcC&pg=PA21&lpg=PA21&dq=giovanni+domenico+roccamora+e+le+comete&source=bl&ots=VjzOA2bZH7&sig=mrrkDhSfZMElBiduldkTRIJqQoc&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwi597SXm6bUAhVMsxQKHXqcCs8Q6AEIJjAA#v=onepage&q=giovanni%20domenico%20roccamora%20e%20le%20comete&f=false) – vale a dire al lavoro di DECIFRAZIONE (dei “due libri”: Bibbia e Natura, come da lezione di GALILEO GALILEI) portato avanti dal teologo, filosofo e matematico, GIOVANNI DOMENICO ROCCAMORA.
SENZA FARSI PRENDERE DALLA FRETTA (vedi: “Intriga non poco Assist[ens?] et Galil[ei?] discipul[us] ma il tempo incalza”), Il lavoro sulla “Filosofia dei nobili” del 1668, il trattato sulla cometa del 1670, e il trattato sulle “cifre dell’Eucharistia” (1668-1684) vanno riletti di nuovo e insieme, e, sicuramente, in un orizzonte di cultura che sappia riunire la SAPIENZA dell’Università (Roma) e la “SCHOLA SARMENTI” del ROCCAMORA!!!
UNA BUONA E BELLA OCCASIONE DA NON SCIUPARE, PER BRINDARE AL BRILLANTE LAVORO DEL PROF. POLITO, ALLA FONDAZIONE TERRA DI OTRANTO, E ALLA “SCHOLA SARMENTI” E AL ROCCAMORA..
Federico La Sala
P. S.
SUL TEMA, da ricordare e non sottovalutare, che tra il 1660 e il 1680 ISAAC NEWTON si occupa di interpretazione delle profezie e particolarmente dell’ “Apocalisse” (cfr. Isaac Newton, “Trattato sull’Apocalisse”, a c. di M. Mamiani: http://eprints.unife.it/532/1/NEWTON%20E%20LAPOCALISSE1.pdf)
DOC.: UNA BOTTIGLIA DI ROCCAMORA. IN VINO VERITAS…
Dalla Controriforma ai Lumi. Ideologia e didattica nella “Sapienza” romana del Seicento (di Giovanni Rita) *
[…] Dopo una pausa di altri due anni in cui restò ancora senza maestri, la disciplina vide per la prima volta una continuità con Benedetto Castelli, un monaco benedettino già alunno e amico di Galilei, chiamato dal papa come precettore del nipote Taddeo Barberini 129. Castelli poté svolgere a Roma anche un’attività di consulente in opere idrauliche, fino a che l’esito del processo a Galileo non gli consigliò di ritirarsi in Toscana. Ma intanto il maestro aveva potuto formare numerosi allievi, ricordati ancora oggi in vari campi, ove essi finalmente ebbero modo di applicare i nuovi metodi130. Tra di loro, il lucchese Santini fu suo successore sulla cattedra romana: benché, a giudicare dai ruoli, svolgesse ancora gli Elementi euclidei e la Sfera di Sacrobosco, Santini dedicò un corso a quella che sembra una nuova impostazione disciplinare, la «geometria speculativa et practica»; oppure una «theorica planetarum» che figurava indipendentemente dalla tradizionale «astronomia Ptolemaei» 131. A sua volta l’eclettico monaco Gian Domenico Roccamora, pur subendo ancora a volte il fascino del barocco 132, proseguì nelle innovazioni del predecessore, aggiungendo ulteriori argomenti quali «de arcibus muniendis», «de optica», «de fortificationibus»133. […].
Nota 132:
Roccamora (mathematica 1664-1684: I maestri, p. 923) fu autore del Delle cifre dell’Eucharistia. Cioè a dire di quel Libro, che fù discifrato dall’Agnello à i venti quattro Vecchioni dell’Apocalisse, I-IV, Roma, Dragondelli, 1668-1684, grottesca opera di pseudo-esegesi biblica su cui, con ampie citazioni, v. Giovanni Rita, Il Barocco in Sapienza. Università e cultura a Roma nel secolo XVII, in Luoghi della cultura nella Roma di Borromini, Roma, Retablo, 2004, p. 56-58. Da quanto risulta inoltre da ASR, Università 87, f. 6-9 (del 1681) Roccamora aveva progettato una «sfera bizzarrissima» che avrebbe segnato l’ora nelle varie parti della terra oltre alle fasi lunari, eventuali eclissi e perfino riprodotto con giochi d’acqua l’esistenza di fiumi e oceani.
* RIPRESA PARZIALE. Cfr. : Annali di Storia delle Università italiane – Volume 9 (2005): http://www.cisui.unibo.it/annali/09/testi/17Rita_frameset.htm
Federico La Sala
Musica di Bruno Petrachi testo della canzone “Mieru”
Quanti bicchieri di mieru mi bbivu, quanti pensieri di capu mi llevu
mieru mieru mieru la la, quanti culuri me faci cangià.
Cu miezz quintu sung nu cardillu, cu miezz litr mi sentu già brillo
mieru mieru mieru la la, quanti culuri me faci cangià.
Lu megghiu dottore, lu cantinieri leva di capu tutti li pensieri
mieru mieru mieru la la, quanti culuri me faci cangià.
Musica
Iè la chiam e quà nun ven, Iè la chiam e quà nun ven, Iè la chiam e quà nun ven
sta facci toosta.
e na na, ninne fusciemu, e na na, ninne fusciemu, e na na, ninne fusciem
mo tutti i tuoi.
Quanti bicchieri di mieru mi bbivu, tanti pensieri di cap mi llevu
mieru mieru mieru la la, quanti culuri me faci cangià.
Musica
Quanti la sira a casa mi torno, non ci la fazz manco mi spoglio
mieru mieru mieru la la, quanti culuri me faci cangià.
Se la fatia si chiama cucuzza, mamma che puzza mamma che puzza
mieru mieru mieru la la, quanti culuri me faci cangià.
“Mieru” fonte di Bruno Petrachi
rilevatore Ersilio Teifreto