di Armando Polito
Ho esercitato la professione più bella del mondo, cioé quella dell’insegnante e sono orgoglioso, nel fare il suo bilancio, di aver appreso dai miei allievi, anche da quei pochi che per colpa mia non conseguivano, sempre secondo il mio giudizio, risultati soddisfacenti, più di quanto io sia stato in grado di trasmettere loro. Se così non fosse stato, non sarei stato in grado, oggi, di scrivere queste poche note. Tuttavia, se per assurdo mi fosse concesso di vivere una seconda vita, forse preferirei essere un artista, per creare la bellezza, non per commentarla, come oggi, indegnamente, mi accingo a fare. Lascio giudicare al lettore quanto mi sia lasciato trascinare dalla passione campanilistica, visto che l’autore del busto in gesso è un neretino, lo scultore Michele Gaballo (1896-1946), che lo realizzò nel 1935, cinque anni dopo la Fontana del toro, forse l’opera sua più conosciuta, perché bene in vista in piazza Salandra, ragione, evidentemente, non sufficiente per garantirne il decoro, oltre che la conservazione, con periodiche operazioni di pulizia …
Il busto, invece, è in una condizione più protetta, ma, paradossalmente, meno adatta ad una sua fruizione diretta, nonostante questa sia diventata solo auspicabile (siamo diventati un popolo che si pasce di auspici …), anche per ciò che quotidianamente è sotto i nostri occhi, per un’insensibilità dilagante, frutto di un imbarbarimento di cultura e valori solo in parte giustificato dal ritmo forsennato della vita di oggi, tutta dedita al presente, senza sguardi al passato e proiezioni nel futuro. Esso, infatti, è custodito nella quinta sala a destra del Convento dell’Immacolata a Galatina. Ignoro totalmente le ragioni di questa sua collocazione e non so neppure se le sembianze ritratte sono quelle di un personaggio reale o fittizio. Sarò grato a chiunque sia in grado di dare notizie al proposito, ma, secondo me, ciò che dirò varrebbe comunque in un caso (personaggio fittizio) o nell’altro (personaggio reale). Ho definito la scultura sintesi della vita perché a mio parere riassume in sé tutte le sue fasi meno la nascita, che, paradossalmente, è la meno importante, se non è il preludio di tappe scandite più o meno costantemente da quei comportamenti e connessi sentimenti che, forse presuntuosamente, consideriamo come il crisma che distingue l’umanità dalla bestialità.
Solo l’arte è in grado di riscattare tutta la negatività che è racchiusa nella parola ambiguità, anzi, sotto questo punto di vista, credo che tutta l’arte, quella vera, sia ambigua. E per questo è in grado di suscitare in chi sa leggerla sentimenti comuni e nello stesso tempo reazioni individuali, condizioni indispensabili, credo, per la sua universalità ed attualità.
Qui l’età non è perfettamente decifrabile ma potrebbe essere collocata in quello che Dante chiama mezzo del cammin di nostra vita, poco più o poco meno. L’atteggiamento si direbbe assorto, pensoso ma nello stesso tempo sofferto, doloroso, quasi ai limiti di una voglia di reagire che ancora non è diventata (e forse mai diventerà) rassegnazione e resa. E il dettaglio degli occhi chiusi ne fa quasi una maschera funeraria, in cui l’impronta dell’ultimo sguardo (quello che precede la morte) resta fissato a coincidere quasi con il primo (quello della nascita). Il tutto espresso con una nitidezza formale che nulla concede al dettaglio retorico, antica e modernissima nello stesso tempo; insomma, quello che si definisce un classico.