Nuova edizione della Fondazione per celebrare l’arte fotografica di Emilio Nicolì, per il quale ha curato e stampato un volume, “Oltre lo sguardo“, cartonato, a colori, con foto tra le più belle della nostra terra. L’edizione, non commerciale, terza della Collana “Scatti d’Autore, è riservata ai soci della Fondazione e alle biblioteche.
Così si presenta egli stesso nel volume:
Ho “rischiato” di nascere in spiaggia nel giorno di Ferragosto del 1964, da allora il mare lo porto dentro. Per studio e lavoro ho vissuto a Parma, Chieti, Bologna e Firenze, ma sono sempre tornato “a casa”, a Lizzanello (Lecce), nel Salento, vicino al mio mare. So che è lì e, anche se non lo vedo, so che si trova a pochi chilometri da me per proteggermi e coccolarmi.
Ho studiato Medicina ma mi sono laureato in Biologia con tesi sulla biodiversità.
Ho Lavorato nell’industria del farmaco. Dal 2004 lavoro nel settore automotive e servizi.
Dopo aver praticato ciclismo a livello amatoriale ed aver avuto modo di guardarmi intorno viaggiando a velocità ridotte, mi sono appassionato alla fotografia che mi permette di fare miei momenti e posti che orami fanno parte di me e, da autodidatta, proseguo la mia ricerca verso la foto “perfetta”.
La presentazione è stata scritta da Pier Paolo Tarsi, che tra l’altro, scrive di lui:
“Vi sono tipologie non pretenziose e mai inflessibili alle quali possiamo giocosamente affidarci per interpretare ciò che incontriamo, blandi e immaginifici tentativi per orientarci nell’esplorazione mai compiuta e definitiva dell’animo e del sentire altrui.
Provando a giocare con uno di questi criteri, potremmo classificare i salentini come appartenenti a due ideali stirpi, diverse per indole e mai intimamente unificate dal passare dei secoli, dai ricami di pensieri, illusioni e sogni: potremmo chiamarle quella degli “adriatici” e quella degli “ionici”, i primi con l’animo teso a levante, i secondi con lo sguardo assorto a ponente.
Emilio Nicolì, nella sua ricerca senza termine dello scatto perfetto, ci mostra una personalità “adriatica”, tende infatti a cercare la sua meta prevalentemente ad est, spingendosi verso i lidi dove il sole può soltanto sorgere e la terra trapassa nell’azzurro che porta verso Oriente, verso l’origine, la fonte dove dipana il tracciato antico di ciò che è stato ed è venuto dal mare prima di noi.
La fantasia, si sa, regala infiniti criteri per guardare nuovamente alle cose e agli uomini, nelle sue giocose combinazioni e negli intrecci possibili talvolta illumina aspetti propri del reale altrimenti invisibili, ad esempio qualcosa di più profondo del carattere degli abitanti di questa terra. Allora, di nuovo, immaginiamo questa volta due stirpi ancor più antiche che qui convivono nell’intimità del sentire collettivo, la prima piantata nella terra, la seconda approdata dal mare e come destinata a tornarvi.
Il salentino in generale non è che un’identità archetipica irrisolta che si riavvolge senza posa tra questi due caratteri, tra un legame con la terra ed uno fatto di speranze e timori con i due mari.
Non è gente di mare questa, sta e vive sulla terra, ma come sorvegliando da una torre che il mare non porti sventure o in attesa che questo si calmi e il vento sia favorevole per andare non si sa dove. L’ulivo ci dice il suo primo modo di essere, il suo radicarsi, il suo progettarsi nei millenni in un matrimonio con un terra a cui sarà fedele. Ma fra i tratturi e le fronde si intravede sempre un orizzonte azzurro che cova una minaccia pronta a scompaginare tutto o promette un’altra esistenza, un’altra occasione.
Tutto ciò che questa fantasia idealtipica svela ci pare possiamo rinvenirlo come un deposito tacito e implicito nello sguardo di Nicolì, nella sua postura da osservatore e nella posizione che accomuna gli scorci che i suoi scatti regalano. Il suo atteggiamento appare quello dell’uomo fedele alla terra, da qui egli muove e attraversa uliveti per osservare per lo più un mare che richiama, attrae, affaccia e sospinge verso un mistero orientale.
Ne nasce una dialettica che si risolve sempre in un compromesso: il confine, il limite. Anche quando è rinvenuto in un sentiero di campagna alla periferia del borgo, è questo confine il soggetto prevalente di Nicolì, il risultato ultimo in cui sfociano questi moti interiori e opposti d’attrazione. Nelle istantanee che compongono il mosaico i due elementi, terra e mare, si mischiano e abbracciano, là dove uno primeggia l’altro si insinua quasi sempre, si interseca, talvolta per mezzo di un solo richiamo o di un sottinteso all’orizzonte: il mare seduce ed è cercato, ma la terra non è mai completamente alle spalle, fosse anche soltanto nella forma dell’allusione, del lembo, del faraglione.
Quel che uno vede dall’obiettivo di Nicolì non è l’approdo che si manifesta a colui che giunge dal mare ma è la varietà infinita – malinconica o trasognata – di un affacciarsi dai confini di questa terra sull’altrove, è un respiro intimo, una parentesi meditativa sulle estremità prima del ritorno alla dimora, al quotidiano legame con la propria gente e con la trama delle proprie faccende. Il suo è lo sguardo di chi sa che al di là di quella distesa contemplata sono inscritte altre storie e possibilità, e tuttavia non salperà; è l’evasione di colui che fa di quel confine il ristoro solitario, la concessione di una fantasia, il breve sogno di chi relega la rottura momentanea e circoscritta del patto con la terra che calpesta alla dolcezza o all’avventura che si consuma nello spazio dell’immaginazione, nella durata di un’ora blu in riva al mare o lungo un tratturo.
Quando scruta l’orizzonte sulla distesa d’acqua, Nicolì pare invitarci ad una pausa meditativa nella quale continua spesso a persistere sullo sfondo il legame con l’umanità che abita e contagia lo spettacolo naturale che si apre allo sguardo. I segni di questa umanità sono per lo più dettagli, inequivocabili tracce tuttavia di una presenza vivace in momentaneo riposo, o come assopita: un pedalò sulla battigia, un trespolo che si eleva sull’arena, le travi di un ponte sospeso sulla scogliera, una lignea staccionata, un caseggiato addormentato, le luci agrodolci dei lampioni, una panchina solitaria, un muretto a secco consunto a tratti dal tempo, una torre diroccata, una gradinata ricavata nella roccia friabile; particolari questi che si affacciano come a raccontare inoltre di un rapporto possibile – rispettoso e non invasivo – tra la mano dell’uomo e il paesaggio naturale. Gli scenari inneggiano e invitano al silenzio di una riflessione in solitudine, elogiano la lentezza della vita di un abitante di un faro che vigila sul confine oltre le luci del borgo, in disparte, in un luogo placido nel quale godere di un momentaneo commiato dal resto, di una parentesi che non è mai una cessazione di un legame, non è un addio, ma solo una sospensione tra lo scorrere rinnovato della vita che attende nel ritorno…”.
Come posso avere questa pubblicazione ? Grazie.
può richiederla alla fondazione previo contributo: fondazionetdo@gmail.com
In 4 foto su 13 c’è qualcosa di Roca Vecchia, che è anche “casa” mia, per tantissimi motivi. Bravo, comunque, Nicolì, ma credo che la foto perfetta dipenda solo in parte dal fotografo. In parte, anche se minore, penso che sia frutto del caso.
Stupende immagini…semplicemente il cuore nello sguardo!