di Armando Polito
La menzogna, senza ritegno e ricorrente, contraddistingue le dichiarazioni di coloro che si sono impossessati del nostro destino, senza che la volontà popolare attribuisse loro quello che un tempo era considerato un onore ed un impegno da far tremare anche le persone più adatte ad interpretare quel ruolo, sinonimo di consapevole e responsabile disponibilità al sacrificio e al servizio. La serie degli esempi eclatanti sarebbe pressoché infinita, perciò mi limiterò a ricordarne solo qualcuno. Un presidente del consiglio con aria da bullo e con un vocabolario degno di un promotore di vendite per anziani con annesso viaggio in pullman e pranzo a prezzi (solo del viaggio e del pranzo …) stracciati, promette che sparirà, politicamente parlando, se il popolo avrà espresso parere negativo su una riforma da lui ritenuta d’importanza vitale; dopo la batosta, è sparito momentaneamente sì, ma solo per studiare come tornare al più presto in sella. Un ministro dell’economia, lui riconfermato non dico da chi …, ci rompe i timpani (ma, purtroppo anche altro …) mattina, pomeriggio e sera con la favoletta della granitica solidità del sistema bancario italiano e con l’assicurazione che i nostri conti sono a posto, mentre ogni banca mostra l’aspetto e il comportamento di uno zombie e l’Europa (avrà pure i suoi difetti, ma non sarà certo per caso che vi occupiamo, in tutto, compresa la famigerata litania della crescita, meno che per corruzione, l’ultimo posto …) gli tira le orecchie come la maestra all’alunno asinello che mostra di avere seri problemi con l’aritmetica. L’ISTAT dà i numeri, ma solo in senso metaforico … etc. etc.
Metti tutto questo in un quadro complessivo di delinquenza premiata, di onestà e merito umiliati, di corruzione eretta a sistema, d’ignoranza prorompente da tempo e, dunque, ormai sedimentata, di creatività (?) incompetente spacciata per genialità, d’incertezza della pena (anzi della sicurezza d’impunità) e non sarà necessario consultare il mago Otelma (magari invitandolo su una rete RAI con un compenso adeguato alla sua rilevanza sociale) per sapere quale futuro attende noi e, quel ch’è più grave, i nostri figli e i nipoti, anche se la schiera di quest’ultimi si va riducendo progressivamente per i noti motivi di ordine demografico, da ricondurre anche loro, alla temperie culturale del nostro tempo, che si nutre sostanzialmente, anzi, quasi esclusivamente, di economia.
Più di cento anni fa, precisamente nel 1909, il neretino Francesco Castrignanò scriveva una poesia, dal titolo Pacenzia, inserita con altre nel volumetto Cose nosce, ristampato, poi, nel 1968 dall’editore Leone di Nardò. Qui ne propongo la lettura con traduzione a fronte in italiano e qualche nota esplicativa in calce per gli amici non salentini, ma anche per qualche conterraneo più o meno giovane che quasi per ineluttabilità storica è condannato, come tutte le generazioni, ma oggi con un processo molto più accelerato, a fare i conti con situazioni per lui inconcepibili o con vocaboli obsoleti.
Per la serie le disgrazie non vengono mai da sole ho avuto poi l’infelice idea di far seguire sul tema un mio componimento con pari numero di strofe ed alternanza di rime e, per l’altra serie me la canto e me la suono, di corredare anche questo di qualche nota. L’idea sarà stata infelice, ma non intendo condannare nessuno all’infelicità, per cui: lettore avvisato mezzo salvato …
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a Corrisponde all’italiano cuneato (in riferimento alla sua forma).
b Voce infantile presente già in greco e in latino.
c https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/03/31/borbottare-meglio-strulicare/
d La variante ciuveddhi, non usata a Nardò, mostra ancor più chiaramente la derivazione dalla locuzione latina qui velles (=chiunque tu voglia). Alla lettera ceddhi significherebbe, dunque, qualcuno ma è sempre usato in frasi di significato negativo (non c’è ceddhi), anche quando, come nella nostra poesia, il non che accompagna il verbo è sottinteso. L’omofono ceddhi è plurale di ceddhu =uccello) ed è, invece, dal latino tardo aucella, variante del classico avicella, diminutivo di avis.
e Corrisponde all’italiano gleba, che è dal latino gleba(m).
f Alla lettera fatico. Fatiàre e fatìa nel dialetto neretino sono sinonimi, rispettivamente, di lavorare e lavoro. È come se il salentino (quello di una volta …) desse per scontato che il lavoro è impegno fino allo sfinimento (qualcuno, invece, non esiterebbe a parlare di vittimismo …) e in tal senso si può dire che il lavorare stanca di Cesare Pavese è come la scoperta dell’acqua calda.
g Corrisponde, con differenziazione semantica, all’italiano cocci.
h Da in+il francese antico mucier (oggi mucher); trafila *inmucier>*immucier>*imbuccier>‘mbucciare.
i Corrisponde all’italiano letterario giamo.
a Alla lettera: foglie.
b Probabilmente dal napoletano guagnì=piagnucolare, di origine onomatopeica.
c http://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/15/dallo-ntartieni-alla-playstation/
d Da ex (con valore estrattivo) e copulare; alla lettera togliere dall’accoppiamento, quindi scegliere.
e Da in+panna. Quando ci si addormenta è come se si scendesse la panna sugli occhi.