di Marcello Semeraro
Il drago è, insieme all‘aquila, il solo “animale” che appartiene all’emblematica di tutti i paesi e di tutti i tempi. La seguente ricerca, scevra da qualunque pretesa di esaustività, si propone di individuare il ruolo che questo mostro leggendario ebbe nello specifico ambito araldico, con una particolare attenzione alla Terra d’Otranto.
IL DRAGO IN ARALDICA
Nell’araldica europea il drago è la creatura più instabile e polimorfa del blasone. Bipede o quadrupede, alato o attero, monocefalo o bicipite, il drago araldico è una figura chimerica ibrida che prende in prestito le sue parti da vari animali: dai rettili (il corpo e la coda), dall’aquila (le zampe e gli artigli), dal pipistrello (le ali), dal leone (talvolte le zampe), dall’uomo o dalla capra (la barba e talora anche la testa), dal pesce (talvolta la coda), dal grifo (le orecchie) e dal coccodrillo. Questa sua natura instabile e composita si ritrova, del resto, anche nei bestiari medievali, quella particolare categoria di manoscritti che descrivono le proprietà delle bestie per ricavarne significati morali e religiosi e che, com’è noto, esercitarono un’influenza notevole sull’arte, sull’iconografia e sulla stessa araldica (figg. 1 e 2).
Per gli autori dei bestiari e, più in generale, per la cultura medievale europea – memore delle tradizioni bibliche – nessun drago è positivo. È una creatura diabolica, il simbolo del Male e sconfiggerla è un’impresa che possono compiere solo certi santi, come Giorgio (fig. 3), Michele, Marta e Margherita, o certi eroi leggendari (Tristano, Artù, Sigfrido). In araldica il drago si rappresenta generalmente rampante, con il corpo munito di scaglie, testa allungata, fauci spalancate, lingua sporgente a forma di dardo, ali di pipistrello, due o quattro zampe, con la coda aguzza, spesso acciambellata e terminante a dardo (fig. 4).
Raramente è rappresentato in atto di vomitare fiamme. Cronologicamente, i più antichi esemplari di scudi recanti draghi sono quelli ricamati su alcune scene dell’arazzo di Bayeux, il celebre manufatto tessile realizzato intorno al 1080, probabilmente nel sud dell’Inghilterra, su richiesta di Oddone, vescovo di Bayeux e fratellastro del re Guglielmo, per celebrare la conquista normanna dell’Inghilterra (fig. 5). Ma è soprattutto nell’araldica immaginaria – una moda che a partire dalla fine del XII secolo si diffuse parallelamente alla diffusione delle armi vere e proprie – che questo animale leggendario godette di una certa popolarità. La fantasia degli artisti galoppò e furono attribuiti stemmi recanti draghi a certi personaggi del ciclo arturiano (Uther Pendragon, Ariohan di Sassonia, Brehus, Calinan, Seguran, ecc.) e, addirittura, a figure bibliche come Giosuè e Giuda Maccabeo (fig. 6). Nel stemmi d’invenzione, tuttavia, la fortuna di questa figura è legata soprattutto alla sua funzione peggiorativa.
Nel bestiario del Diavolo e dei nemici della cristianità il drago occupa infatti il primo posto, tanto che neI secoli XIII e XIV divenne l’emblema degli eretici e dei capi musulmani. Ciò nonostante, nel blasone vero e proprio il suo indice di frequenza è piuttosto basso, mentre in epoca moderna prevale il suo uso come figura parlante. Non di rado il drago compare anche quale ornamento esterno dello scudo, sia come supporto, sia, soprattutto, come cimiero. Celebri sono i cimieri innalzati, a partire dal XIV secolo, dai sovrani aragonesi e portoghesi, cimieri che, per motivi ereditari, ricomparvero qualche secolo dopo sulle armi di Filippo II di Spagna e dei suoi successori: in Terra d’Otranto se ne conserva ancora qualche traccia (fig. 7).
IL DRAGO NEL BLASONE DI TERRA D’OTRANTO
Valutare l’indice di frequenza del drago nel blasone delle famiglie nobili e notabili di Terra d’Otranto non è un’operazione facile. Malgrado la grande quantità di manufatti araldici di cui è ricco il territorio, mancano infatti repertori completi e aggiornati in grado di offrire un quadro d’insieme del fenomeno e i pochissimi stemmari a disposizione dello studioso presentano non poche lacune. La migliore raccolta pubblicata finora, sebbene imperfetta e parziale, resta ancora l’Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, opera pubblicata agli inizi del Novecento da Amilcare Foscarini. Nell’Armerista il drago ha un indice di frequenza bassissimo. Statisticamente, tra i quattrocentoquaranta blasoni censiti dal Foscarini, solo due hanno un drago, ossia lo 0,45% del totale. Gli stemmi appartengono alle famiglie Trane (o Trani) e Protonobilissimo.
I primi, originari di Trani e conosciuti dapprima come Gaza, presero in seguito il cognome dal toponimo d’origine. In Terra d’Otranto ebbero i feudi di Guardigliano, Tutino, Lucugnano, Montesano, Tiggiano, Torrepaduli, Specchiapreti, Scorrano, Martano, Calimera e Corigliano. Foscarini attribuisce loro un blasone acromo avente “un drago alato e rivoltato, mirante una stella di sei raggi e sostenente con la branca sinistra una testa di toro” (fig. 8).
Quanto ai Protonobilissimo, furono un’antica schiatta attestata sin da XIII secolo. La famiglia, di origini amalfitane, passò dapprima a Sorrento e da lì a Napoli, dove fu aggregata al seggio di Capuana. Conosciuti anche come Faccipecora (fig. 9), si suddivisero in vari rami. In Terra d’Otranto possedettero i feudi di Brongo, Palagiano, Leporano, Roca, Mottola, Specchiapreti e Muro Leccese, concesso nel 1438 dal principe di Taranto Giovanni Antonio del Balzo Orsini a Florimonte Protonobilissimo ed in seguito (1723) elevato a principato. Il Mazzella, il Foscarini, il Crollalanza e il Rietstap assegnano ai Protonobilissimo uno scudo “di rosso, al drago alato d’oro” (fig. 10).
Tuttavia, l’analisi di un frammento di piatto stemmato, conservato presso il Museo del Palazzo del Principe di Muro Leccese, dimostra che il ramo murese dei Protonobilissimo caricò il drago d’oro non su un campo di rosso, ma d’azzurro (fig. 11).
Recuperato durante gli scavi nel Palazzo del Principe e databile alla fine del XVI secolo, questo frammento ceramico è una fonte araldica di primaria importanza perché contiene dati che furono controllati direttamente dalla committenza. Tale considerazione ci permette di affermare che la diversità del colore del campo che si osserva nei due blasoni dei Protonobilissimo poc’anzi descritti è legata a esigenze di brisura di linea. Con questo termine si intende un’alterazione dello stemma originale, operata per distinguere i vari rami di una stessa famiglia. L’uso delle brisure, particolarmente diffuso nell’araldica del regno di Napoli, si espresse attraverso varie modalità, fra cui la modificazione degli smalti dello scudo, ottenuta invertendo gli smalti del campo e della figura principale, oppure cambiandone solo uno, come si vede nello stemma del Protonobilissimo di Muro. Per differenziarsi, infatti, essi modificarono l’arma tradizionale “di rosso, al drago d’oro”, mutando in azzurro il colore della superficie dello scudo. In ogni caso, quale che sia la brisura impiegata dai Protonobilissimo, il drago, animale “totemico” della casata, rimase sempre d’oro.
BIBLIOGRAFIA
– G.B. Di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890.
– A. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903 (rist. anast. Sala Bolognese, Arnaldo Forni, 1978).
– E. Noya di Bitetto, Blasonario generale di Terra di Bari, Mola di Bari 1912 (rist. anast. Sala Bolognese, Arnaldo Forni, 1981).
– M. Pastoureau, Bestiari del Medioevo, Torino 2012.
– M. Pastoureau, Medioevo simbolico, Bari 2014.
– J. B. Rietstap, Armorial général précédé d’un dictionnaire des termes du blazon, 2 voll., Gouda 1884-1887.
Credo anche quello dei Brienne fosse assorbibile dal bestiario dei draghi.