di Armando Polito
Debbo confessare che il giudizio del copertinese Giovanni Battista Fulino (L’autore è quel fra Diego de Lequile, che sotto i piedi del niente, ò perde affatto l’essere di buono scrittore, ò è manco del nulla in bene scrivere) riportato quando, nella puntata precedente, ho citato la prima pubblicazione del Tafuro, mi ha lasciato piuttosto perplesso, anche perché bene in vista nel frontespizio del suo libro. Chi non avrebbe pensato, come io ho fatto, alla rabbia dettata dall’invidia per un concorrente? Mi è sembrato strano, però, che anche il giudizio del Lezzi (Grande strepito nel passato Secolo fece il P. Diego da Lequile, e nel suo Ordine de’ Riformati di S. Francesco, e nella corte austriaca, e in Roma,e colla Predicazione, e con parecchi Libri pubblicati, i quali però sono andati tutti a perir nell’obblio), decantato dal trascorrere del tempo, ne fosse la conferma. Non sono un esperto di teologia ma la lettura, per quanto frettolosa (all’inizio è stata più attenta, poi è diventata pallosa …), delle opere del Tafuro di argomento strettamente teologico mi ha dato la conferma di quei giudizi impietosi. Risparmio al lettore quello maturato dopo la lettura (anch’essa frettolosa dopo un po’ …) delle opere encomiastiche, in cui spicca il già citato scimmiottamento virgiliano Enea>Iulo>gens Iulia, con l’aggiunta dell’ultima tappa, cioè la casa austriaca. Fossi stato io l’arciduca dedicatario o uno dei cortigiani e, voglio rovinarmi, uno dei più umili sudditi sufficientemente acculturato, mi sarei sentito offeso … A proposito della gens Iulia e sul mio ferreo convincimento che la vera nobiltà, come la vera competenza, non si basa sui titoli, evito di riproporre qui un aneddoto familiare che chiunque abbia interessa potrà leggere in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/03/mia-madre-e-orazio/.
Rem tene, verba sequentur è la citazione d’esordio utilizzata due puntate fa. Credo che il Tafuro ne sconfessi la validità assoluta, nonostante qualcuno, probabilmente suggestionato solo dalla quantità della sua produzione, lo ammirasse senza beneficio d’inventario …1
Insomma il nostro apparterrebbe a quella categoria di persone dalla parlantina facile che, a seconda degli interlocutori, riesce a mascherare la pochezza dei contenuti. Se da un lato, poi, come abbiamo visto, sembra vergognarsi del suo paese d’origine, dall’altro, sublime narcisistica contraddizione, accetta il Diego Lequile che si legge in alcuni frontespizi e in alcune epistole a lui indirizzate (vedi nota 1). Sarebbe come se Giuseppe Faiella avesse scelto a suo tempo come pseudonimo non Peppino di Capri, ma Peppino Capri.
E io? Il mi limito ad adattare la prima parte della sentenza latina sostituendo rem tene=possiedi l’argomento con argumentum pone=esibisci la prova (incontrovertibile, cioè non passibile, pur nei limiti dell’umana capacità, di interpretazioni ambigue o, peggio, diametralmente opposte). Spero di esserci riuscito. Quanto al verba sequentur, lascio il giudizio, qualunque esso sia, al lettore.
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1 Riporto alcune lettere indirizzategli da un nobile, sfegatato, ma anche, forse, narcisisticamente opportunista, suo ammiratore da Delle lettere del sig. Giovanni Francesco Loredano nobile veneto … raccolte da Henrico Giblet, parte II, Appresso li Guerigli, Venezia, 1661, pp. 45-50, 56, 279, 287 e 484:
Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/11/diego-tafuro-lequile-xvii-secolo-un-frate-fra-santi-principi-parole-13/
Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/25/diego-tafuro-lequile-xvii-secolo-un-frate-fra-santi-principi-parole-23/
Diego Tafuro da Lequile (XVII secolo): un frate fra santi, prìncipi e parole (2/3)