Suggestivo e singolare il suo modo di fare arte
Vito D’Elia
Terre solari, fatte come d’argilla viva
di Roberto Budassi
Un respiro caldo e profondo, che profuma d’antico, si eleva sopra le terre riarse dal sole e, brulle, si specchiano le ombre immortali su quelle pieghe d’argilla che narrano, ancora, di uomini e miti, di lavoro e fatica, di quella solitudine millenaria che sembra eterna quanto non più eterne, ma brevi, sono divenute le stagioni della vita.
Argilla modellata dal silenzio e dal rigore dell’ispirazione, che non cede mai il passo all’improvvisazione, chiusa com’è in quell’alveo dell’isolamento pensoso che precede l’atto creativo finale. Materia calda e terrosa, passata al fuoco lento della fucina di Efesto non prima di immergersi nella casta bellezza di Afrodite, sua sposa.
Natura solare e mediterranea, che ispira da lungo tempo l’arte fittile di Vito D’Elia e si riversa copiosa sulle sue opere, già esposte nella storica bottega di Giovanni Santi, in quella che un tempo fu la Casa Natale di Raffaello ad Urbino. Sono sculture significative, in terracotta, che appartengono alla stagione più matura dell’arte del maestro galatinese, che catturano la nostra attenzione per quell’essenza immaginifica, per quella sostanza metafisica, per quel modo di esprimere, attraverso le modulazioni chiaroscurali e volumetriche della luce, la verità di una forma che conquista prepotentemente lo spazio e diventa, nel breve volgere di un battito d’ali, stile e metafora di una raggiunta sintassi espressiva.
Sono una ventina di piccoli capolavori che trasmettono il misterioso fascino dell’enigma insoluto, dell’apparizione improvvisa, dell’emozione subitanea che sorprende e stupisce anche per quel continuo variare d’accenti lirici e note in prosa che formano, nell’insieme dei soggetti trattati, il carattere più evidente di una perfetta coralità narrativa, dal profondo contenuto poetico. Non è poi così difficile riconoscere, in quei teatrini metafisici del silenzio, in quegli ambienti domestici violati dallo sguardo e dalla natura impervia dell’ora, in quelle dimore di pietra che celano il mistero dell’esistenza; insomma, in quei luoghi severi e spogli, dove si consumano le stagioni della vita entro le misure di uno spazio angusto, dove la solitudine rende l’uomo straniero di se stesso e del proprio tempo, riconoscere la sostanza iconografica di un’epica narrativa, di una cultura figurativa che fonda le sue radici nella storia millenaria di una terra e di un popolo, il cui respiro sconfina dai ristretti limiti della tradizione più illustre verso l’essenza di una comune matrice di appartenenza, di natura mediterranea, che è propriamente legata ad un modo d’essere e percepire, di vivere ed esperire la realtà tutta, nel suo perpetuo divenire storico e fenomenico.
È per noi, invece, davvero incomprensibile il lungo e immotivato silenzio che l’artista galatinese ha imposto alla sua arte, al suo lavoro, tanto che sorprende come questa, fortunatamente, ha sopportato il trascorrere del tempo e il vivere appartato del suo artefice, presentandosi ora, al nostro sguardo, ancora fresca e sincera, d’umori e sostanze poetiche che paiono indelebili tanto sono impresse sulla materia nobile dell’argilla, come gli afrori di marzo che inebriano l’aria al passare della tempesta, come il decantare di un distillato carico di aromi e profumi.
Come spesso accade, l’opera d’arte riflette l’animo dell’artista, la sua personalità, il suo carattere, tant’è riconducibile all’impronta del suo temperamento, alla dimensione del suo tempo vissuto, alla sua sensibilità e intelligenza creativa.
Le sculture fittili di Vito D’Elia sembrano indicare che l’artista ha operato nella piena consapevolezza dei propri mezzi espressivi e nella convinzione che il lavoro, quello serio, col tempo ripaga i sacrifici e gli sforzi fatti per conquistare la sostanza stessa dell’arte, così da cavare dalla materia più inerte quella scintilla di luce che rende più comprensibile ogni frammento di verità e bellezza.
S’intuisce che Vito D’Elia ha preferito l’isolamento, l’operare pensoso, il lavoro appartato e febbrile, per esprimere le temperie personali. Rileggendo i suoi dati biografici si capisce come D’Elia si sia volutamente e consapevolmente tenuto “lontano” dai clamori della mondanità e abbia preso le distanze dal chiassoso chiacchiericcio modaiolo ed effimero che circonda l’attuale mondo dell’arte, che alimenta le futili velleità di chi aspira più al riconoscimento immediato, in termini soprattutto economici, del proprio lavoro che alla reale consistenza della propria visione del mondo, quale essa sia.
Non da meno egli ha scelto, quale terreno fertile su cui far germinare la metrica del suo linguaggio poetico, la scultura fittile, che gode di una tradizione antica quanto illustre, che radica le sue origini nell’arcadia dell’arte greca e, ancor più oltre, nella profondità della civiltà mediterranea, ma che oggi è quasi caduta in disuso, tant’è negletta presso gli artefici del nostro tempo (pur facendo i soliti distinguo e pur riconoscendo qualche sporadica, seppur significativa, eccezione del caso). Non, dunque, la scultura di tradizione aulica, marmorea e monumentale, fatta “in levare” con la fatica dello scalpello che opera rumorosamente e incessantemente sulla pietra dura o sul nobile marmo, ma il modellato plastico, scelto quale mezzo più silenzioso e certamente più riflessivo per realizzare forme e composizioni che passano attraverso la paziente manipolazione dell’argilla, che diventa lavoro febbrile solo all’approssimarsi di quel tocco finale, che precede di poco la “cottura”, ultima alchimia rigenerativa del fuoco che trasforma la materia friabile dell’argilla in calda terracotta umbratile.
Dunque, scelte tecniche precise che possono apparire anacronistiche e controcorrente ma che palesano, invece, una sensibilità ed una intelligenza espressiva che si pone fuori dai canoni comuni e dalle convinzioni che regolano l’attuale panorama artistico.
E ancor più la tecnica rivela come il respiro creativo di Vito D’Elia non è afflitto dai consueti mali che contaminano tanta parte dell’arte del nostro tempo; la sua opera non si piega alle tendenze del gusto e della moda corrente, non strizza l’occhio alle soluzioni facili e d’effetto, figlie di una speculazione oratoria che ottunde l’intelligenza estetica di questa nostra civiltà speculativa. Civiltà sempre più effimera e di massa per quanto omologata su stereotipi mediatici, di comunicazione virtuale e informatizzata. Ancor meno si contamina dei germi depressivi propri di un’affabulazione nichilista, di natura antiestetica, che s’inchina all’oratoria ermetica e neghittosa dei discepoli dell’arte concettuale, povera, minimale tipico di questa confusa babele d’accenti e dialetti da “villaggio globale”.
La sua arte è sincera, il messaggio è chiaro ì, anche quando esprime il mistero, l’enigma del silenzio, che possono condurre al disorientamento, all’incomprensione. È un’arte che conduce, semmai, alla riflessione pensosa, al richiamo costante verso i canoni estetici e ai valori formali della tradizione figurativa più illustre, che trae le sue origini dal mondo classico ma che, al contempo, sa rigenerarsi bagnandosi nella linfa della modernità, nel flusso vitale che genera lo scorrere del tempo presente su quello passato. I soggetti, trattati nel vigore di un modellato plastico perentorio per quanto evidente nella definizione della forma, nascono come avulsi ad ogni facile affabulazione iconografica, contrari ad ogni forma di cinismo figurativo.
Il significato poetico si allinea sui valori e sugli esempi più illustri che hanno caratterizzato tanta parte della cultura figurativa del nostro Novecento. Su quelle pieghe di argilla cotta, sulle curve e masse plastiche, su quei rilievi di luce non meno che su gorghi generati dalle tenebre e dall’ombra passano ancora le passioni plastiche e pittoriche che animarono il purismo di Arturo Martini, i teatrini immaginifici di Fausto Melotti, le metafisiche contemplazioni di De Chirico e le visioni surreali di e stranianti di Savinio, ma anche e soprattutto la delicata fronda, venata di nostalgia e luce mediterranea del realismo magico, che impiantò la modernità sulle radici stesse del sentimento classico.
Per chi è ancora capace di “vedere”, queste di Vito D’Elia sono sculture dove il movimento della forma assume un tono potentemente evocativo, riservato entro la misura di una sospensione temporale degli eventi, dello spazio e del tempo, che mantiene in sé proprio quel carattere metafisico, classico e mediterraneo, che noi riconosciamo come storicamente e culturalmente “nostro”, dove il silenzio domina l’astrazione del gesto, dove l’evento vive nell’attesa spasmodica del suo compimento e l’accadimento entro il mistero inspiegabile della vita, enigmatici per quanto imponderabili ma, per questo, ancor più sorprendenti e misteriosi.
- pubblicato su “Il filo di Aracne”