Echi ideali da Marittima
Volti, luoghi, testimonianze e ricordi di un nido senza tempo
di Rocco Boccadamo
Francesco Nullo, Giacomo Leopardi, Pier Capponi, Isonzo, Piave e Premuda sono le denominazioni di sei viuzze, lunghe al massimo sessanta/settanta metri, che, susseguendosi oppure incrociandosi, delimitano e nello stesso tempo racchiudono il minuscolo territorio, in forma di quadrilatero irregolare, su cui si trova insediata una sorta di suggestiva bomboniera della tradizione, ossia a dire il rione Ariacorte della mia Marittima.
Un agglomerato di modeste, eppure dignitose, casette e, soprattutto, per secoli, lungo le scansioni del pendolo nei tempi andati,un concentrato di nuclei famigliari, un coacervo di vite per molti aspetti uniformi, pulsanti sulle medesime lunghezze d’onda, in stretta comunione interpersonale.
Non è lontano dalla realtà parlare di cuori che battevano all’unisono e, insieme, costantemente dischiusi al sentimento della solidarietà e del mutuo soccorso e sostegno, dischiusi esattamente al pari, per scendere sul piano della quotidianità pratica, degli usci delle abitazioni.
Quindici lustri fa, sul lettone di casa dei suoi genitori, proprio nell’Ariacorte, chi scrive s’è trovato ad aprire gli occhi alla propria avventura esistenziale.
Ariacorte, in fondo zona periferica nel perimetro urbano di Marittima, un solco nel campicello paesano, un angolo modesto e, tuttavia, affatto anonimo, non fosse altro per essere costeggiato, sfiorato e occhieggiato nei suoi tessuti interni dalla generalità della popolazione, con maggiore e intensa frequenza nell’arco della stagione estiva, poiché area coincidente con la direttrice che porta alla locale marina per antonomasia, ovvero l’incantevole insenatura Acquaviva.
A proposito di quest’ultimo sito, piccola ma lucente perla naturalistica, per chi ha i capelli bianchi e radi come me, è bello e gratificante osservare che, un tempo, vi accedevano, per prendere i bagni nelle sue fresche e corroboranti acque, unicamente gli indigeni o nativi, a voler esagerare gli abitanti delle località contermini, mentre, il giorno d’oggi, l’Acquaviva è meta conosciuta su scala nazionale e, addirittura, anche all’estero, visitata nel corso di tutto l’anno e, a luglio e agosto, letteralmente gremita di gente, dalle prime ore del mattino fino a notte inoltrata.
Ritornando all’Ariacorte e alla sua evoluzione sotto l’aspetto demografico, compresi i correlati costumi, e rapportandomi, ovviamente, ai miei primi ricordi, peraltro tuttora vivi, ho potuto agevolmente stabilire che, nel decennio 1945-1955, vi dimoravano quaranta famiglie, con un totale di centonovantanove componenti, cioè, in media, cinque persone per nucleo.
In termini di paragone, ora, i medesimi valori riferiti ai residenti si attestano su basi numeriche ben più ridotte, nell’ordine, rispettivamente di dieci e sedici, poco più di una persona e mezzo per ogni singolo focolare. Per completezza, bisogna però osservare che alcune abitazioni sono nel frattempo passate di mano, andate in proprietà a forestieri approdati a Marittima per turismo, i quali, in certo qual modo, le animano nel canonico bimestre estivo.
Sia come sia, rispetto al pullulare intenso di vita di un tempo, l’Ariacorte si è trasformata in un’oasi di silenzio, di rari passi, di quiete.
Piace in modo speciale, al narrastorie che già c’era da bambino – ragazzo e che, per sua buona sorte, vive ancora e si trova sovente a osservare di passaggio l’ambiente in cui è nato, piace, dicevo, e gli è caro, rievocare determinate figure che sono rimaste a palpitare nella sua memoria e, finanche, nelle sue suggestioni interiori.
Per la verità, si conserva nitida l’immagine, con particolari e dettagli, di tutti i centonovantanove abitanti dello scorso secolo, a cominciare, ovviamente, da quella dei nonni paterni, degli zii e delle zie.
‘A Valeria ‘e l’Ancilu (Valeria, moglie di Angelo) aveva, specialmente, le mani fatate, sapeva fare tante cose.
Era mescia (maestra) del magazzino, una delle quattro manifatture di tabacco che operavano nel paesello. Inoltre, grazie alle mani fatate, era bravissima nella tessitura a mano e, mediante un vecchio ma efficace telaio di legno, realizzava manufatti di particolare pregio, commissionati da innumerevoli famiglie del paese; insomma, non vi era ragazza in procinto di sposarsi che non tenesse a poter dire di avere qualche capo del proprio corredo realizzato da Valeria. ‘A Valeria ‘e l’Ancilu, ben voluta da chicchessia. Trifone Mariano, al vertice dell’omonima famiglia, si distingueva per la bella abitudine della preparazione annuale, nella ricorrenza del 19 marzo festa di San Giuseppe, di un pentolone di massa, tagliolini fatti in casa, piatto tipico di quel giorno, a beneficio delle famiglie meno abbienti del paese, in altri termini una tavolata, detta, non a caso, di San Giuseppe.
Giovanni ‘u Pativitu (discendente da un certo Ippazio Vito), il quale divideva il tetto con la consorte Ndolurata, era contadino e però, a tempo perso, anche fabbricante di panieri e cesti di giunchi e vimini.
Peppe ’u cardillu era un uomo di bassa statura, buono e scherzoso, sebbene, ogni tanto, preso di mira da noi bambini che gli cantavamo
Zzumpa cardillu
mmenzu sti fiuri
zzumpa cardillu
lalleru lallà.
Cosimo maccarrune, al contrario, si offendeva sentendosi appellare con detto nomignolo e, quindi, bisognava contenersi.
Giulia era giunta a Marittima da un paese vicino, sposando Fortunato e, a distanza di circa un anno, aveva messo al mondo Teresa, classe 1941 come me.
Purtroppo, ancora giovane, la donna scivolò in condizioni di salute precarie, con gravi problemi all’apparato respiratorio.
Spesso, pareva che le mancasse il fiato e, nelle fasi maggiormente critiche, se ne usciva da casa e si portava in un vicino slargo, dove c’era più aria e soffiava diritta la tramontana, restandosene lì per ore, magari al freddo, seduta sugli scalini di chianche della casa di Siveria: almeno respiro, si consolava.
Toti anzi cumpare Toti, vicinissimo di casa, era un contadino, sposato con, a carico, la moglie, sei figli e la suocera. Un buon uomo, ma, invero, non un grande lavoratore, nella sua magione, di conseguenza, non regnava benessere, si avvertiva, al contrario, una sensazione di fame, il pane si mangiava se e quando c’era, sulla tavola appena una minestra di verdure coltivate nell’orto.
Ciononostante, cumpare Toti giammai intese rinunziare ad allevare un uccellino, ora un cardellino, ora un canarino. Teneva tanto a ciò, al punto che, in un’annata in cui anche la sua famiglia fu costretta a emigrare in Basilicata, dove coltivare, in mezzadria, estensioni di tabacco, all’atto di caricare l’autovettura a noleggio che doveva trasportare persone e suppellettili, Toti fu irremovibile nel pretendere che, nell’abitacolo del mezzo, trovasse posto anche la gabbia con l’amato uccellino.
Costantina ‘u medicu, da parte sua, era una vecchietta minuta ma assai sveglia e dotata di forte temperamento. Vedova, viveva da sola alla fine di via Isonzo e attendeva con premura alle necessità di due nipoti, Maria e Costantino, rimasti orfani in tenera età, intanto già divenuti adulti e però non ancora sposati. Mi è rimasto impresso il particolare che Costantino, quando compì la fuitina con Gemma, pensò di cercare e trovare rifugio presso la nonna, la quale tenne la coppia in casa per qualche tempo, sino a quando non le parve giusto di intimare ai due sposini di andare a starsene da soli, in un’abitazione tutta per loro.
Aveva, Costantina, un vezzo, diciamo così, non gradito a noi bambini e ragazzi del rione, era contraria a che, durante le nostre giocate a palla in via Isonzo, lanciassimo la sfera a sbattere spesso sulla porta o sulla parete esterna della sua casetta. Talvolta, ci sequestrava la palla e ci toccava insistere a lungo per averla in restituzione.
I germani Luigi e Tore ‘u casinu, abitanti a poche decine di metri di distanza l’uno dall’altro ed entrambi proprietari di una doppietta, erano soliti andare a caccia insieme; ricordo, particolarmente, gli apprezzabili carnieri di tortore che riuscivano a portare a casa, utilizzando tali bottini come pietanze per le rispettive famiglie.
A fianco della citata anziana Costantina, si ergeva l’abitazione di Peppe ‘e Tuie, netturbino e necroforo comunale, coniugato con Cesira e padre di Nata, Cici e Ucciu, gli ultimi due miei cari amici e compagni di giochi.
Pressoché attigua, la dimora di Consiglio ‘u minicone e Concepita e dei loro otto figli, tra maschi e femmine e, esattamente di fronte, l’abitazione di Rosaria ‘u fusu, sul cui nucleo vado a soffermarmi diffusamente nelle righe che seguono.
Rosaria, proveniente da Andrano, reduce da un primo matrimonio nel corso del quale le erano nati due figli, Andrea e Giuseppa (Pippina), rimasta vedova ancora giovane, aveva sposato in seconde nozze il marittimese Ciseppe (Giuseppe) ‘u fusu, reduce anche lui da una precedente unione, padre di tre figli e, pure, rimasto prematuramente vedovo.
Rosaria e Giuseppe, insieme, procrearono ulteriori quattro figli, sicché, a un certo momento, venne a formarsi un antesignano nucleo allargato, con, in totale, undici persone, fra i due coniugi e i nove figli dell’insieme di letti.
Non era per niente facile, per Rosaria e Giuseppe, e tanto meno per Rosaria da sola quando lei rimase vedova per la seconda volta, far crescere tanti rami della pianta famigliare, ma, con il loro personale impegno e sacrificio e, quindi, il conseguente buon esempio, aiutati, sin dalla tenera età e vie più man mano che crescevano, da figli e figlie, conducevano in veste di mezzadri una serie di terreni, una vera e propria “masseria” (grande azienda agricola) la chiama adesso Costantino, il penultimo dei figli sopravvissuto insieme con la sorella Concetta.
Molti i ricordi e le annotazioni, taluni particolari, vuoi per averli vissuti da testimone diretto, vuoi per essergli stati riferiti, che si affacciano nella mente del narrastorie riguardo ai componenti della famiglia di Rosaria e Giuseppe ‘u fusu.
Innanzitutto, intorno alla fine degli anni Trenta o agli inizi del Quaranta del secolo scorso, la scomparsa di Giuseppe a causa di un incidente, una rovinosa caduta mentre era intento a fissare a un gancio del soffitto un chiuppu di tabacco già essiccato (una sorta di grosso casco, prendendo a riferimento le banane), in attesa d’essere conferito al magazzino.
Di seguito, nel 1945, io avevo appena compiuto quattro anni, il matrimonio di Pippina, che rivedo nell’atto di varcare la soglia di casa nell’Ariacorte in abito bianco e con un’acconciatura semplice e tondeggiante di egual colore a cingerle il capo. Pippina, minore di solo un anno rispetto a lei, era grande amica di mia madre.
Poi, esattamente il 22 gennaio 1947, le nozze dell’altro figlio di primo letto di Rosaria, Andrea, con Valeria, coetanea e cognata di Pippina, anche lei amica di mia madre, giacche, da nubile, abitante di fronte e, in sostanza, cresciuta insieme sulla via Convento.
Ora, in quel lontano 22 gennaio 1947, Marittima registrò il particolarissimo fenomeno di un’abbondante nevicata: bellissima ed eccezionale, perciò, la scena dell’uscita dalla chiesa dei novelli sposi, intanto che gruppi di ragazzi e giovanotti facevano a gara nel formare grandi palle di neve e a sospingerle a rotolare sulla strada, in leggero declivio, dalla piazza del paese verso la Campurra.
A più riprese, negli ultimi anni, imbattendomi in Valeria, non ho resistito a ricordare la coincidenza e, sempre, la donna ha di buon grado assecondato la mia rievocazione della scena, senza mancare, nello stesso tempo, di porre l’accento sui legami d’amicizia e d’affetto che aveva nei confronti della mia genitrice, la quale che, purtroppo, non c’è più da mezzo secolo.
Mentre, Valeria, l’ho rivista ancora ieri seduta in poltrona, esitante sulle gambe, ma lucida, a casa sua.
Nel 1951, virgola capitò, invece, un’improvvisa e brutta traversia a Vitale, il secondo dei quattro figli di Rosaria e Giuseppe, sotto forma di un’infezione da tetano a un piede. La situazione era divenuta quasi tragica, una mattina ci fu grande scompiglio nel rione Ariacorte, meno male che, provvidenzialmente, si trovò, per il malcapitato, la possibilità di un’immediata corsa in macchina e del ricovero nell’ospedale di Lecce. Dopodiché, Vitale guarì e riprese completamente la sua attività di contadino.
Costantino, fratello minore di Vitale, mi ha precisato che, in quel frangente, egli era assente da Marittima, da poco partito per il servizio militare in Marina e si trovava di stanza alla Spezia, imbarcato su un dragamine: chiosa dell’interessato, buon vitto a bordo e pure la paga era buona, rispetto ai magri guadagni da contadino al paesello.
A quest’ultimo proposito, ha soggiunto Costantino, quanta fatica, quanti sforzi a zappare, soprattutto, o per seminare, falciare, raccogliere grano, lupini, altri legumi, fichi, olive, carrube e tabacco, nella “masseria” che aveva per base il fondo denominato “Magno”, con un grande capannone!
Affondi di zappa o semina di lupini, in un terreno, fra gli altri, denominato Cisteddru ‘a chiesia. La prima accezione, richiamante, forse, due tipi di manufatti artigianali, ciste e cistizzi, fabbricati da alcuni compaesani marittimesi, mediante l’utilizzo di steli di cereali intrecciati, manufatti poi adibiti alla conservazione del grano o di prodotti similari. Della chiesa, perché, a quei tempi, il bene, verosimilmente pervenuto per donazione, era di proprietà della locale parrocchia.
Il comprensorio dei cisteddri ha la caratteristica d’essere situato al culmine di un piccolo promontorio affacciato sulla distesa azzurra nel nostro mare e di vantare una pregevole veduta panoramica sulla località di Castro, una delle più fulgide perle del Salento.
Ieri, ispirato delle antiche testimonianze di Costantino, ho voluto fugacemente avventurarmi dentro la plaga agricola in discorso, cogliendovi una sensazione di pace assoluta, diffusa sia sui tappeti di terra rossa profumata di lontani sani sudori e di sante fatiche, sia nelle sacche di frescura donate dalle argentee chiome degli ulivi.
Con la chicca, della visione di minuscoli grilli nell’atto di saltellare aprendo le loro alette, dall’interno di colore fra il celeste e il ceruleo, e dell’ascolto, in pieno giorno, anche del canto di qualche gufo o civetta, rapaci che, come è noto, capita, in genere, di udire nelle ore notturne.