I gigli, il lambello e la banda: breve studio sulla genesi e l’evoluzione
dello stemma dei principi della Casa d’Angiò-Taranto
di Marcello Semeraro
Sull’araldica dei principi angioni di Taranto del Trecento (Filippo I, Roberto e Filippo II) non esistono studi specifici. Il presente contributo, pur nella sua brevità, si propone di colmare in parte questa lacuna, richiamando l’attenzione degli studiosi su un campo di ricerca particolarmente interessante, anche per via delle sue notevoli implicazioni interdisciplinari. Per comodità di trattazione, abbiamo suddiviso la nostra indagine in due parti: nella prima ci occuperemo dello stemma innalzato da Filippo I d’Angiò, nella seconda di quello dei suoi successori.
Lo stemma Filippo I d’Angiò
Si dicono brisure (dal francese briser, “rompere, spezzare”) quelle varianti introdotte in uno stemma rispetto all’originale per distinguere i diversi rami di una stessa famiglia. Comparse verso la fine del XII secolo – ovvero in un’epoca in cui le armi cominciarono a diventare ereditarie – e diffuse soprattutto nei paesi di araldica classica (Francia, Inghilterra, Scozia, Paesi Bassi, Germania renana, Svizzera), le brisure furono istituite probabilmente dagli araldi per ragioni essenzialmente militari: riconoscere gli individui apparentati che innalzavano armi simili nel campo di battaglia o nel torneo, ovvero nei luoghi dove materialmente comparvero le prime armi nella prima metà del XII secolo.
Il sistema si basava su un principio molto semplice: all’interno di una stessa famiglia, solo il più anziano del ramo primogenito aveva il diritto di portare le armi familiari piene, ovvero il blasone primitivo senza alterazioni di sorta. Gli altri (il primogenito, vivente il padre, e i cadetti, con l’esclusione delle donne) dovevano apportare una leggera modifica all’interno dello scudo originario che li differenziasse dal capo d’armi.
L’uso delle brisure, che ebbe il suo apice fra il XIII e il XIV secolo e che diminuì man mano che l’araldica perse la sua centralità nel campo di battaglia, non fu mai sottoposto ad un sistema di regole uniformi e valide per tutte le epoche e tutti i luoghi, ma fu piuttosto un fenomeno legato ad abitudini familiari, mode geografiche o cronologiche. In linea di massima si possono distinguere tre principali modi di brisare un’arma: la modificazione degli smalti (che si ottiene, ad esempio, invertendo gli smalti del campo e delle figure), la modificazione delle figure (aumento o diminuzione del numero delle figure uguali, cambiamento della forma o della posizione oppure sostituzione di una figura con un’altra) e l’aggiunta di altre figure specifiche chiamate pezzi di brisura (lambello, banda e sue diminuzioni, bordura, quarto franco, stelle, merlotti, anelletti, conchiglie, ecc.).
Dal XIII secolo quest’ultima modalità rappresenta il procedimento più diffuso per brisare uno stemma. Manca lo spazio per approfondire la questione. Qui ci limitiamo ad osservare che in Italia le brisure non ebbero mai una speciale importanza, tranne a Venezia e nel reame napoletano, dove se ne fece un uso abbastanza ampio. Ma è soprattutto con le dinastie capetingia e plantageneta che si assiste ad un impiego massiccio di brisure e di sovrabrisure (ulteriori modifiche di uno stemma già brisato), utilizzate per distinguere i cadetti e le linee da essi derivate (fig. 1).
Lo stemma gentilizio innalzato dal principe di Taranto Filippo I d’Angiò (†1331) ce ne offre un fulgido esempio (fig. 2).
La linea d’Angiò-Taranto nacque come ramo cadetto uscito dalla Casa d’Angiò-Napoli del ceppo capetingio, generato dal predetto Filippo, quarto figlio del re di Napoli Carlo II (†1309) e di Maria d’Ungheria, principe di Taranto dal 1294 al 1331 e dal 1313 imperatore titolare di Costantinopoli a seguito delle nozze con Caterina II di Valois-Courtenay. Essendo un ultrogenito, egli dovette giocoforza adottare un’arma che lo differenziasse da quella adoperata dal padre.
Come re di Napoli, Carlo II portava lo scudo del padre Carlo I d’Angiò (†1285), suo predecessore sul trono partenopeo sin dal 1282, ovvero un partito di Gerusalemme (d’argento, alla croce potenziata d’oro, accantonata da quattro crocette dello stesso) e d’Angiò antico (d’azzurro, seminato di gigli d’oro, al lambello di rosso)1 (fig. 3). L’uso di questa associazione d’armi risale tuttavia al 1277, quando Carlo I, re di Sicilia dal 1266, si intitolò, senza esserlo mai stato di fatto, re di Gerusalemme e sanzionò araldicamente questa pretensione inaugurando uno scudo partito dove pose a destra (sinistra per chi guarda) l’insegna gerosolimitana e a sinistra (destra per chi guarda) quella gentilizia. In precedenza, a partire dagli anni 1246/1247, dopo essere stato appannaggiato delle contee d’Angiò e del Maine, Carlo portò l’arma di Francia antica (d’azzurro, seminato di gigli d’oro), insegna propria dei sovrani capetingi di Francia (figg. 6 e 7), brisata da un lambello di rosso (figg. 4 e 5).
Quando la ribellione dei Vespri siciliani (1282) scacciò re Carlo dalla Sicilia, riducendolo al possesso dei territori meridionali al di qua del Faro, lo scudo partito di Gerusalemme e d’Angiò antico divenne proprio della corona di Napoli e della pretensione, ad essa collegata, al trono gerosolimitano. Carlo I morì nel 1285 e il suo regno, unitamente alla pretensione gerosolimitana, fu ereditato dal figlio Carlo II, al quale il padre trasmise anche lo stemma. Nel 1273 re Carlo II sposò Maria, figlia del re d’Ungheria Stefano V. Da questo matrimonio nacquero quattro diramazioni principali, corrispondenti ai figli e alle terre che essi ereditarono: il primogenito Carlo Martello fu lo stipite della linea d’Angiò-Ungheria, Roberto continuò quella reale d’Angiò-Napoli, mentre Filippo e Giovanni diedero vita rispettivamente alle linee d’Angiò-Taranto e d’Angiò-Durazzo.
Non potendo portare in quarto di pretensione gerosolimitana, in quanto legato esclusivamente alla corona di Napoli, Filippo I si limitò a sovrabrisare la sola arma d’Angiò antico, facendola attraversare da una banda d’argento. Lo stemma che ne risultò può essere così blasonato: d’azzurro, seminato di gigli d’oro, al lambello di rosso; con la banda d’argento, attraversante sul tutto (Angiò-Taranto).
L’arma del principe di Taranto è dunque il risultato di una sovrapposizione di tre piani diversi, ottenuta dapprima brisando e poi sovrabrisando lo stemma originario capetingio.
Il piano di fondo (il seminato di gigli d’oro in campo azzurro dei re di Francia) è quello più antico, seguito da quello intermedio (il lambello di rosso, proprio dei re angioni di Napoli) e da quello più recente (la banda d’argento, tipica dei principi angioini di Taranto). E’ così, del resto, che devono essere letti tutti gli stemmi, ovvero partendo dal piano di fondo fino ad arrivare a quello più vicino all’osservatore, secondo un ordine di lettura contrario alle nostre abitudini moderne.
Per comprendere meglio come sia avvenuto storicamente questo processo di alterazione della primitiva insegna capetingia riteniamo sia utile soffermarsi sulla genesi e lo sviluppo delle figure che compongono lo scudo di Filippo I.
A partire dal regno di Filippo Augusto (1180-1223), i sovrani capetingi di Francia portarono come insegna araldica un seminato di gigli d’oro in campo azzurro. Questa scelta non fu casuale. Il giglio fa parte del repertorio delle insegne e degli attributi della monarchia francese sin dai tempi di Luigi VI (1108-1137) e Luigi VII (1137-1180). Esso è allo stesso tempo un attributo mariano (simbolo di purezza e verginità) e un simbolo di sovranità. Questa sua duplice dimensione simbolica (religiosa e regale) è rafforzata dalla particolare disposizione in seminato con cui i gigli sono distribuiti sulla superficie dello scudo.
Nell’iconografia medievale la struttura in seminato è quasi sempre legata a un’idea di sacro. L’arme di Francia antica ha dunque un’essenza divina e sottolinea al tempo stesso la speciale protezione accordata dalla Vergine ai re di Francia e la dimensione religiosa della funzione regale. Per modificarla i cadetti adoperarono varie figure, fra cui il lambello che costituisce la più antica brisura portata dai principi capetingi. Il primo ad impiegarla fu Filippo Hurepel (†1234), figlio cadetto del re di Francia Filippo Augusto e di Agnese di Merania, come testimonia un esemplare raffigurato su una vetrata della cattedrale Notre-Dame di Chartres.
Circa un ventennio dopo – intorno agli anni 1246/1247 (vedi supra) – Carlo d’Angiò, ultimogenito di Luigi VIII e di Bianca di Castiglia, modificò l’arma piena dei re di Francia, scegliendo come brisura una figura che poteva liberamente adottare dopo la morte di Filippo Hurepel, fratellastro di Luigi VIII. Ricordiamo che fra tutte le figure aggiunte per alterare lo stemma originario, il lambello è quella che si riscontra con maggiore frequenza nelle armi, nonché quella più tipicamente indicativa di un intervento di brisura. Nel Medioevo la sua forma è variabile. La versione primitiva (chiamata più propriamente rastrello) è costituita da un listello orizzontale munito di pendenti lunghi e rettangolari che diventeranno trapezoidali (cioè un lambello tout court) solo verso la fine del XV secolo. Il listello tocca quasi sempre i bordi dello scudo fino alla fine del XIV secolo, mentre in quello successivo si trova sia intero che scorciato. Per quanto riguarda il numero dei suoi pendenti, il lambello a cinque è quello più impiegato fino agli anni 1270-1275, mentre successivamente prevale quello a tre. Anche la banda è una brisura molto usata, ma raramente è impiegata come sovrabrisura.
Prima di Filippo I, conosciamo un solo caso di scudo d’Angiò antico sovrabrisato da una banda d’argento. Si tratta dell’arma del padre Carlo II d’Angiò quand’era ancora principe di Salerno, come dimostrano due esemplari raffigurati rispettivamente su un sigillo equestre appeso ad un atto del 1280 (fig. 8) e sull’Armorial Wijnbergen (ca. 1265-1270). Divenuto re di Napoli nel 1285, Carlo II eliminò la banda dal suo scudo e adottò un partito di Gerusalemme e d’Angiò antico, stemma, come abbiamo già osservato, ereditato dal padre Carlo I d’Angiò, suo predecessore sul trono napoletano. Dopo questa data, quindi, Filippo d’Angiò fu libero di poter aggiungere allo scudo gentilizio d’Angiò antico la banda d’argento. Lo studio delle testimonianze sfragistiche e numismatiche relative a Filippo I permette di affermare che per tutta la durata della suo principato (1294-1331) egli portò il solo scudo d’Angiò-Taranto, senza ulteriori ampliamenti. A riprova di ciò consideriamo come estremi cronologici due controsigilli appesi a due documenti datati rispettivamente 1303 e 1321, ovvero prima e dopo l’acquisizione del titolo di imperatore latino di Costantinopoli (1313).
In entrambi i casi compare uno scudo gotico con la sola arma d’Angiò-Taranto, racchiusa da una cornice esalobata (figg. 9 e 10). Lo stemma gentilizio appare anche sul recto di un gettone anepigrafo, che reca sul verso un altro scudo a sé stante, quello dell’impero latino di Costantinopoli (di rosso, alla croce accantonata da quattro anelletti crociati, ciascuno accompagnato da altrettante crocette, il tutto d’oro). Coniato per Filippo d’Angiò dopo la sua nomina imperiale, questo gettone non mostra, quindi, una combinazione d’armi, ma due scudi diversi, rappresentati separatamente (fig. 11).
Sarà invece il figlio Roberto (†1364), principe di Taranto dal 1331 e imperatore titolare di Costantinopoli dal 1346, il primo ad associare in un unico scudo partito le insegne araldiche paterne e quelle costantinopolitane ereditate dalla madre. Ce ne occuperemo nella seconda parte di questa indagine.
- L’arma d’Angiò antico viene anche detta d’Angiò-Sicilia e d’Angiò-Napoli.
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