Carmare e craminare

di Armando Polito

Ogni lingua è un organismo vivente, proprio come chi la usa e, perciò, alcune sue cellule muoiono e si rigenerano in continuazione, perché la natura ha dotato l’organismo di tale capacità; per altre, come i neuroni, la perdita è irreversibile e si potrà sperare, forse, in una parzialissima compensazione da parte degli altri con il loro intervento solidale che comporterà, comunque, un abbandono, quanto parziale è difficile dire, della loro specializzazione. Qualsiasi cellula, poi, può impazzire, per ragioni endogene (patrimonio genetico) o esogene (ambiente) o per entrambe.

Anche il dialetto, che sempre lingua è,  non può sfuggire a questa condanna  e la conclusione cui giunge Pier Paolo Tarsi in  L’antropologia linguistica della memoria narrata: uno sguardo filosofico all’opera di Giulietta Livraghi Verdesca Zain e Nino Pensabene, saggio pubblicato recentissimamente nella rivista di questa fondazione  Il delfino e la mezzaluna, anno IV, nn. 4-5, agosto 2016, pp. 229-256, parrebbe  angosciante per i cultori di ogni dialetto e per chi si adopera a mantenerne e a rivalutarne  l’uso. Pier Paolo osserva come lo scollamento tra il significante (la parola) e il contesto culturale in cui quella parola è nata o al quale essa per lungo tempo si è riferita, magari pure in un’ampia gamma di significati tutti, però, legati al concreto del momento, implica inevitabilmente la sua morte. Tutto vero, anche quando l’autore si spinge ad estendere tale fenomeno dal microcosmo della singola parola al macrocosmo del vernacolo nel suo complesso, rinvenendone la causa sostanzialmente nella fine della civiltà contadina. Ineccepibile, anche se il fenomeno ha da sempre coinvolto ogni lingua, solo che oggi i processi di trasformazione (oggi come allora di natura economica …) sono vertiginosi e mi pare che la filosofia dell’usa e getta inevitabilmente ha finito per prevalere anche nel linguaggio in senso esteso. In passato il malinteso (per chi conosceva l’italiano …) senso d’inferiorità del dialetto si manifestava anche a livello ufficiale con improbabili italianizzazioni della voce dialettale che non aveva corrispondente formale in italiano (emblematico è il caso proposto nel suo saggio da Pier Paolo di Via degli Zoccatori a Copertino; esilarante, poi,a Nardò, il via Scapigliari. di cui ho avuto occasione di parlare in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/01/la-scapece-e-una-forse-indebita-illazione-toponomastica/), con equivoci propiziati dall’omofonia e da parziali congruenze semantiche; vedi nello stesso saggio per carmare l’indebito passaggio dal significato originario di incantare (carmare è  dal calabrese carmu=formula magica, dal latino carmen=formula magica, incantesimo, da cui l’italiano carme, con regolarizzazione della desinenza1 e il francese charme; carmen probabilmente è da un *canmen, da cànere=cantare2)  a quello di calmare, proprio per italianizzazione per influsso (in linguistica incrocio) della voce italiana. E proprio l’etimologia di calmare (da calma, a sua volta dal greco καῦμα=calura; riferimento, dunque, ad una calma climatica contraddistinta da atmosfera secca e cielo limpido) mostra il terremoto semantico che ha sconvolto  il primitivo carmare (che trova il suo corrispondente semantico e parzialmente formale nell’italiano carminare, del quale, a sorpresa, dirò alla fine, anche se la veste esteriore è assolutamente identica). Da quel malinteso senso di inferiorità del dialetto rispetto all’italiano si sta passando oggi ad un malinteso (questa volta lo dice uno che non parla l’inglese, ma lo traduce facilmente e fedelmente con l’aiuto di un semplice vocabolario grazie ad una conoscenza appena sufficiente  dell’italiano, del latino e del greco, di fronte ai quali l’inglese è … non voglio dire che cosa) complesso di inferiorità generalizzato dell’italiano rispetto all’inglese, con l’aggravante che, anche e soprattutto chi ci rappresenta, pur ignorando l’esatto significato di parecchi vocaboli della lingua nazionale (alcuni fino a qualche decennio  piuttosto elementari), esprime i suoi concetti in un italiano che, per quanto riguarda la semplice struttura, ha le sembianze di chi è appena uscito da un grave incidente; in più si presenta costellato con luminosità (?) crescente di vocaboli inglesi, anche quando (e per me questo è un dettaglio fondamentale) non è necessario. Se si pensa poi che in questo mondo lo spirito di emulazione sembra alimentato solo dai modelli negativi, o quanto meno discutibili, e in numerosi casi assolutamente idioti …

A riprova di come la lingua possa geneticamente produrre equivoci, fraintendimenti ed errori, ispirato proprio da carmare, mi accingo ad introdurre  craminare. Prima però debbo dire che il Rohlfs riporta nel suo vocabolario (datato 1976) due lemmi carmare distinti, l’uno col significato di calmare, l’altro di incantare, senza etimologia. Più avanti, però, è riportato il brindisino carmisciari col significato di incantare le serpi e con l’indicazione etimologica dal citato carmen. Debbo dedurre, anche se il Rohlfs non lo scrive esplicitamente, che a carmen si colleghi pure il secondo carmare. Direi, in conclusione di questa fase,  che l’antropologa copertinese abbia corroborato con i dati antropologici raccolti sul campo l’etimo del Rohlfs e non sapremo mai se è stato proprio il filologo tedesco o, come vedremo, qualcun altro a darle l’abbrivio (pardon, l’input …). Anzi, per dare completamente a Cesare quel che è di Cesare, va detto che:

1) il carmisciari rohlfsiano reca la sigla B4 che corrisponde a Francesco Ribezzo, Il dialetto apulo-salentino di Francavilla Fontana, in appendice alla rivista Apulia, v. II-IV, 1911-1912, p. 87. Carmisciari è dal tema carm– di carmare+il suffisso (con valore intensivo-iterativo) –isciare, che è dal latino –idiare (in italiano –eggiare, come in maneggiare), a sua volta dal greco –ίζω (-izo).

2) il carmare rohlfsiano, che è quello che ci interessa più da vicino reca come fonte la sigla L9 che corrisponde a Etimologie neritine nella rivista Giambattista Basile, anno II, 1884, pp. 85-87. In queste tre pagine del neretino Luigi Maria Personè compaiono 15 vocaboli di Nardò ed uno di questi è proprio carmatu, col significato di stregato. A scanso di equivoci mi preme dire che in stregato qui c’è stato un passaggio dal significato passivo tipico di qualsiasi participio passato di un verbo transitivo a quello attivo. Stregato, perciò, è da intendersi non come ammaliato ma come in grado di ammaliare, così come in italiano dotato  (concetto passivo) evolve verso un significato attivo: dotato di poteri  (particolari o meno)  è colui che ha ricevuto il potere (da Dio, per chi ci crede, dalla natura, dagli uomini, dalla credulità popolare …) ma poi  è in grado di espletare sugli altri (concetto attivo) il potere ricevuto.

x1

La stampa antica raffigura San Paolo; per comprendere la presenza dei serpenti e i rapporti con carmare, che pure possono essere intuiti, consiglio di leggere il saggio di Giulietta Livraghi Verdesca Zain (Tre santi e una campagna, Laterza, Roma, 1994; il lettore più pigro  troverà un estratto del pezzo che ci interessa in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/30/origine-e-discendenza-dei-carmati-ti-santu-paulu/) e quello di Pier Paolo.

Dopo aver detto  che le precedenti  precisazioni non intendono certamente sminuire la grandezza dell’antropologa(salicese di nascita, romana prima e copertinese infine di adozione)  e il metodo magistrale con cui Pier Paolo ha sfruttato il suo taglio antropologico  per dimostrare filosoficamente (con un linguaggio tanto chiaro ed essenziale che credo di aver capito tutto pure io), la sua tesi, dopo aver sottolineato che le stesse precisazioni non vogliono neppure esaltare, in un empito di umano, ma nell’occasione più che mai stupido, campanilismo, il mio concittadino Luigi Maria Personè, passo a craminare.

La voce corrisponde (con sola metatesi car->cra-) all’italiano carminare, sinonimo di cardare, cioè districare le fibre delle materie tessili. Oggi il mercato offre materassi di ogni tipo: a molle, ad aria, ad acqua, di lattice, etc. etc. Fino ad un sessantennio  fa il più sofisticato (e per questo non riservato a tutti) era quello ripieno di lana, che periodicamente, insieme con quella dei cuscini, veniva scompattata e liberata dalla polvere, cioè craminataCraminare è dal latino carmen, omofono del precedente, col significato di pettine per cardare, a sua volta da càrere=cardare.

 

immagine tratta da http://isolana.altervista.org/?page_id=331
immagine tratta da http://isolana.altervista.org/?page_id=331

 

A riprova di quanto affermato da Pier Paolo: c’è da meravigliarsi se ormai solo qualcuno prossimo a diventare centenario ricorda (arteriosclerosi permettendo …) la parola ed il suo significato?4

E, d’altra parte, è perfettamente normale che la parola non sia non dico usata ma neppure ricordata da chi non ha vissuto quell’esperienza femminile del tempo che fu, nemmeno evocata, in chi osserva una foto antica o una recente ad uso e consumo dei turisti o un presepe,  vivente o no.

immagine tratta da https://www.rivieraoggi.it/2005/01/03/9075/presepe-vivente-di-grottammare-le-foto/
immagine tratta da https://www.rivieraoggi.it/2005/01/03/9075/presepe-vivente-di-grottammare-le-foto/

 

Fra poco, con le fibre sintetiche e con l’utilizzo sempre più ridotto della lana destinata a prodotti di nicchia, perciò costosissimi (amara rivincita della civiltà contadina …), anche l’italiano carminare diventerà obsoleto. Resterà, invece, in vita [Tromba ti culu sanitate ti cuerpu (tromba di culo salute del corpo) recita la traduzione salentina di uno dei principi della scuola medica salernitana], favorito dalla sua natura tecnico-specialistica (e dalle multinazionali del farmaco …), carminare (da cui l’aggettivo carminativo) che significa  promuovere l’eliminazione di gas dall’intestino; ho detto omofono, perché esso non è dal secondo carmen (pettine per cardare) ma dal primo (canto) messo in campo per carmare, con riferimento alle formule magiche che in passato, direi di regola nella medicina popolare, accompagnavano i medicamenti.5

Più in bellezza di così non potevo chiudere …

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1 Nell’immaginario grammaticale contadino salentino –u ed –a sono, rispettivamente, le desinenze del singolare maschile e femminile (così è anche in italiano per la gran parte delle parole, le quali derivano dalla prima, seconda e, per i maschili, dalla quarta declinazione latina). Qui la regolarizzazione è stata estesa ad un sostantivo derivante dalla terza declinazione, con carmen>carme>carmu.

2 Per analogia di formazione con fulgère=brillare>*fulgmen>*fulmen (=fulmine); lucère>=splendere>*lucmen>lumen (luce) o flùere=scorrere>flumen (fiume) o sèrere (seminare)>*sermen>semen (seme), etc. etc.

3 Il valore dei suoi studi secondo la mia, pur modestissima, opinione non ha trovato fino ad ora,  anche da parte degli addetti ai lavori, il dovuto riconoscimento  e addolora il cuore prima ancora che la mente pensare al destino delle sue ricerche rimaste manoscritte ed amorevolmente custodite dal marito Nino Pensabene, scomparso anche lui, quasi tre anni fa. E su Nino mi piace sadicamente (per le osservazioni che farò, anche se a  qualcuno posso sembrare blasfemo; ma lo faccio anche, forse soprattutto, per questo …) riportare quanto si legge in Umberto Eco, Il costume di casa, evidenze e misteri dell’ideologia italiana degli anni sessanta, nel capitolo intitolato L’industria del genio italico, Bompiani, Milano, 1973, s. p. : Il piacere si fa ricco di informazioni quando si leggano poi in quotidiani o settimanali a diffusione non esattamente nazionale lunghe cronache, ad esempio, di sessioni dell’Associazione internazionale di poesia, dove alla presenza di note personalità del mondo letterario (cito da una cronaca: “Comm. dott. Armando De Santis e signora Velia, prof. Mario Rivosecchi, Donna Acsa Balella, dottor Nino Pensabene, eccetera”) l’attrice Maria Novella dà lettura delle ultime liriche di Lorena Berga fattori (Ad ogni ora che passa) definite dall’oratore ufficiale affini per certi versi alla lirica leopardiana e rispondenti al dettame del Croce secondo cui “la poesia è verità”.

Un quadro sarcastico in cui Nino (a meno che non si tratti di un omonimo) appare come una delle tante marionette che, loro sì, sembrano popolare certi cenacoli o, per scendere più in basso, certe manifestazioni editorial-pseudo  culturali di oggi,  in cui il recensore di turno si abbandona senza pudore a giudizi reboanti, sempre entusiastici,  e magari non ha letto nemmeno la metà della pubblicazione oggetto del suo intervento. Umberto Eco, prima di far esplodere il suo solito sarcasmo, che in più di una circostanza, non solo qui, sconfina nella pura supponenza, avrebbe fatto meglio a trarre qualche informazione sui personaggi nominati. Quello che segue, però, è, secondo me, più interessante e indicativo di quanto ho appena detto.

In queste occasioni, nelle pagine delle riviste citate, e nei volumi a cui le riviste rimandano, raro è trovare scrittrici che portino nomi brevi e banali come Elsa Morante, Anna Banti, Gianna Manzini. Le poetesse hanno sempre due cognomi, come le professoresse di matematica, e si chiamano Alda Mello Caligaris, Antonietta Damiani  Ceravolo, Maria Pellegrini Beber, E. Ghezzi Grillini (per citare i nomi più recenti del catalogo Gastaldi), oppure Giselda Cianciola Marciano (autrice delle liriche Polvere di stelle), Antonietta Bruno di Bari (Azzurro Corsiero), Carlotta Ettorè Tabò (Sinfonia di vita e di morte), Edvige Pusineri Chiesa (Mesti palpiti).   

– Capra! – avrebbe detto Vittorio Sgarbi – mi citi questo carnoso popò (non po’ po’ …) di nomi e dimentichi Giulietta Livraghi Verdesca Zain? -.

Qui, secondo me, la spocchiosità ha ceduto alla paura che la salentina, leggendo, gli rispondesse a tono, riscuotendo gli interessi anche per il marito …

4 Ancor meno probabile che una madre dica al figlio che si appresta ad uscire – ‘Ddo’ sta’ bbai tuttu  scramignatu? – (Dove stai andando tutto spettinato?), anche perché quella spettinatura, d’autore, è costata alla famiglia, orgogliosa del figlio alla moda, un occhio della testa … Scramignatu è, anzi è stato …, participio passato di scramignare, che è da *excramineare, composto da ex privativo+cramineare, per metatesi da *carmineare, a sua volta da carminare.

5 Tuttavia per Walther von Wartburg anche questo carminare si ricollega a carmen=pettine per cardare, quasi fosse un’operazione di districamento dell’intestino. E io aggiungo, senza per questo avanzare preferenze definitive, che carmen (pettine per cardare) da càrere (cardare) mostra una formazione più regolare e scorrevole (ma può non significare granché)  rispetto a quella indicata nella nota precedente, in cui solo flumen non presenta, come in questo caso càrere>carmen, il passaggio in più.

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Un commento a Carmare e craminare

  1. “Più in bellezza di così non potevo chiudere…”: concordo! Un lavoro straordinario che tocca le corde di un orizzonte ancora più vasto (di archeologia e antropologia, in senso filosofico) .e getta luce sul problema delle origini stesse del nostro vivere. Carminare, carmare, carmen, san Paolo e i serpenti … lasciano intravedere – sempre sul filo (del “suono”) delle parole – l’intrecciarsi della tradizione greca ed ebraico-cristiana: l’uscita dal “paradiso” terrestre, l’uscita dalla grande foresta (“ingens sylva”), Apollo, il Pitone, le Muse, le Grazie ( … le Sibille!), e il lavoro paziente di civilizzazione (Ercole – Vico), ancora tutto da fare….

    Federico La Sala

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