di Armando Polito
* E io che pensavo che nell’armadietto avesse messo la riserva delle mie scatolette!
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Qualche lettore potrebbe essere colto dal sospetto che il blog stia cominciando a strizzare l’occhio alla cura del viso dopo quella, per così dire, della pancia, visto l’enorme, inarrestabile successo registrato dal post che l’amico Massimo Vaglio dedicò tempo fa alla frisella e che puntualmente è ogni giorno, male che vada, al terzo posto tra quelli più letti.
Niente di più sbagliato e, comunque, destinato a deludere chi già si stava precipitando a prendere carta e penna convinto che grazie ai miei consigli sarebbe stato in grado, se non di fermare, almeno di rallentare gli effetti inesorabili dell’avanzare degli anni. Chi, invece, vuol fare insieme con me una breve passeggiata nel tempo mi prenda a braccetto (e se si tratta di un omone il cui braccio ha una circonferenza massima di quaranta centimetri? Non sarebbe meglio, perciò, dire a braccio?), perché si parte con un vecchio detto salentino.
Li tienti no sso’ nnienti, li capiddhi no sso’ iddhi, li ràppuli so’ quiddhi! (I denti non son niente, i capelli non sono essi, le rughe sono quelle [che tradiscono la vecchiaia].
Credo che l’incalzare del tempo e la connessa evoluzione (dal costume, alla scienza, dalla politica alla tecnologia) abbia, soprattutto negli ultimi decenni, messo in dubbio molte verità cui si riferivano ie massime del passato. Non c’è da meravigliarsi, perché pure la cultura non popolare ha conosciuto disfatte ben più gravi. Basti pensare al ciceroniano historia magistra vitae, che da quando è nato ha collezionato per due millenni miliardi di sconfessamenti nella molteplicità delle manifestazioni della vita privata e pubblica.
Mi pare opportuno, però, prima di esaminare la veridicità o meno del detto dialettale, farne una disamina, anche qui, alla luce della storia. Nei decenni passati, quando non esistevano cure odontoiatriche che non fossero, soprattutto per i meno abbienti, la semplice e sbrigativa estrazione del dente cariato, quando per la calvizie dei ricchi c’era la parrucca ma non ancora il trapianto e per i poveri c’era … la calvizie, quando per le donne (e, credo, anche per gli uomini …) abbienti era molto più difficile di quanto non sia ora rimodellare l’ovale (e non solo quello …) e il nesso chirurgia estetica non esisteva nemmeno nella fantasia di qualcuno, essendo la perdita dei denti e dei capelli in età relativamente giovane un fatto non eccezionale, erano le rughe l’indizio, anzi la prova, inconfondibile dell’età avanzata, sempre che non fossero, rubando la metafora a Il sognatore di Peppino di Capri (lui 76 anni, io 71: siamo in tema …), il tatuaggio di un dolore.
Ora, anche se nessuno dei lettori, giustamente, se ne frega, sono costretto ad aggiornarvi sulla mia condizione attuale per quanto riguarda denti, capelli e rughe. Comincio con i capelli, dicendo che, per quanto riguarda queste formazioni cornee, continuo ad avere un rapporto conflittuale, non con loro ma con mia moglie, secondo la quale dovrei tagliarli al massimo ogni quaranta giorni. Ormai mi sono rassegnato a questa scadenza e ci ho fatto pure l’abitudine, anche perché il barbiere viene a domicilio, è pure simpatico, ma quella mezz’oretta per me resta una rottura di scatole, motivo per cui, dovendo prima o poi tagliare questi benedetti capelli, mi chiedo come mai, pare, dico pare, che a Nardò non ci siano barbiere (non ho sbagliato la concordanza tra verbo e soggetto…).
Passiamo alle rughe: a detta degli altri il mio volto, quando è rasato, è liscio come il culetto di un bambino, di rughe nemmeno l’ombra. Ho il sospetto, però, che, anche se di rughe effettivamente non se ne vedono, sia un modo elegante per dirmi che ho una faccia da culo … piccolo, ma sempre culo è. Credo che questo dettaglio sia il beneficio della quantità industriale di limoni che ho consumato, e continuo a farlo anche se in quantità … artigianale, da quando ero bambino.
Proprio i limoni mi portano dritto dritto all’ultima dolentissima nota: i denti, o, meglio, a ciò che di loro resta. Molto probabilmente saranno stati proprio questi agrumi dal sapore acre (questo fa il paio, vendoliano, con il formazioni cornee precedente) ad aver intaccato progressivamente lo smalto. Così, pur non essendoci carie, dei miei denti oggi restano solo monconi, e, quando anche loro saranno consumati, non mi resterà che masticare con le gengive.
Stando al detto, dunque, in assenza di ràppuli e con i capelli al loro posto, non sarei tanto vecchio …
Per non alimentare patetiche illusioni e ridicole velleità è meglio darsi … alla filologia (all’ippica no, perché il cavallo, anche se brocco1 …, per la paura mi disarcionerebbe un secondo dopo aver visto la mia bocca aperta …).
Più che il maschile ràppuli mi sarei aspettato di leggere il femminile ràppule, in quanto diminutivo di rappa2, voce oggi obsoleta3, ma ancora viva in molti dialetti (compare in vocabolari dialettali del bergamasco, del genovese, del napoletano, del siciliano) sinonimo di grinza, ruga. Quanto all’etimo il Dizionario De Mauro (2000) reca “dal gotico rappa=rogna”. Il cambiamento di genere è, per quanto possa sembrare strano in un detto popolare, per motivi metrici.
Basta disporre il testo nei seguenti versI:
Li tienti
no sso’ nnienti,
li capiddhi
no sso’ iddhi,
li ràppuli
so’ quiddhi!
Il lettore noterà per i primi quattro versi l’alternanza delle rime AABB. Se fosse continuata questa struttura avremmo dovuto avere per gli ultimi due versi CC; invece è CB, cioè l’ultimo verso si aggancia al terzultimo. Non è finita: tutti i versi terminano per -i, il che conferisce a tutto il detto una musicalità che ràppule non avrebbe consentito.
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1 Dal latino broccus=sporgente (detto dei denti).
2 Da cui, con aggiunta in testa della preposizione ad e successiva assimilazione, il verbo ‘rrappare==raggrinzire.
3 La più antica attestazione che son riuscito a trovare è in M. Francesco Sansovino, Ortografia delle voci della lingua nostra o vero dittionario volgare et latino, Sansovino, Venezia, 1568:
Bell’articolo!
Nei dialetti di Daunia non esiste un termine specifico per “ruga” ma è operativa l’espressione “è tutt’ arrappat’ ” per indicare un volto inciso dai segni dell’età.
In piemontese è “rupia”, credo che siamo nello stesso “solco” per rimanere in carattere
Caro Sergio, l’affinità semantica mi pare indubbia. quella etimologica improbabile e, comunque, l’etimo di “rùpia” (è da leggere così, vero?) pone non pochi problemi. Lo scempiamento di “p” rispetto a “ràppuli” mi indurrebbe a pensare per “rùpia” in virtù di quella “u” una derivazione dal latino “ruga” (come l’analoga voce italiana) con mutamenti fonetici tutti da spiegare con esempi comparativi, torinesi, che non sono in grado di produrre), mentre il gruppo “-pia-” mi fa pensare al francese “repli”=piega, che è da “replier”, a sua volta dal latino “replicare”, ma con esito -pli->-pia- tipicamente italiano (“piega” dal latino “plica”, anche se il gruppo si è conservato in “plico”; planus>piano, etc. etc.). E poi: chi ci assicura che la voce piemontese non sia, tal quale, quella italiana che definisce una “manifestazione eruttiva della pelle con croste sollevate a cono al centro e degradanti verso i margini, che si forma su lesioni ulcerative complicate da infezioni suppurative” (Dizionario italiano De Mauro, 2000) ? L’italiano “rùpia” è dal greco ῥύπος (o ῥύπον)=sporcizia e se fosse stato attestato un diminutivo ῥύπιον il suo plurale (ῥύπια) avrebbe spiegato l’alleggerimento semantico rispetto alla definizione citata. E ancora, come dimenticare il latino medioevale “rupia” che è sinonimo di cucitore (la ruga è in fondo una cicatrice appena visibile)? Comunque, come sempre, è stato un piacere.
Pese che vai.
Su questo argomento ràppolu= rughe,
apriamo questo dialogo io dico la mia: noi a Novoli usavamo dire tamme nna rappa te ua, oppure nnu rappulu te ua senza accento sulla A,
rappulu per indicare grappolo di uva viene anche detto in Calabria e Sicilia.
Sempre a Novoli a fine vendemmia si raccoglievano le racioppe queste piccole rappe venivano trascurati durante la vendemmia rimanendo subbra li cippuni.
Chiedo conferma a Sergio sei in Piemontese(Grappolo) si dice Rapa o Rapoli diminuitivo.
un saluto Ersilio Teifreto
Caro Ersilio, mi scuso, ma non avevo visto questa tua richiesta. Ormai ho risposto alla tua e.mail, comunque ribadisco anche qui. “Grappolo d’uva” in piemontese si dice “Rapa d’uva”; i “grappolini” che rimangono sulle viti si chiamano “Rapèt” e questa parola ha anche un altro significato simbolico,perchè si dice “pijé un rapèt” che significa “schiacciare un pisolino”.
Sergio Notario