I treni scontratisi in Terra di Bari e la voce di Eliana

puglia

di Rocco Boccadamo

 

Provo una profonda tristezza, giacché, per l’ennesima volta, sia a livello dei massimi sistemi e vertici istituzionali, sia sul fronte dei vocii, ritornelli e sproloqui d’ogni genere attraversanti i canali d’informazione e/o dei fiumi d’inchiostro versati sulle pagine dei quotidiani, ci si è lasciati andare senza controllo e al di là dei confini, addirittura abbandonandosi, da più parti e pulpiti, a odiose spettacolarizzazioni e strumentalizzazioni della vicenda del gravissimo incidente ferroviario fra Andria e Corato, che ha causato ventitré vittime.

Ancora più amaramente, mi viene di temere che non è e non sarà l’ultima stazione di siffatto calvario comportamentale sul piano del pubblico e singolo dire e sentire.

Ma io, comune e povero pugliese, come mi devo porre al cospetto di quanto accaduto, quale contributo può venir fuori dal mio ragionamento, ancorché ispirato, almeno come tentativo, al massimo buon senso?

Beh, intanto non devo aggiungermi al coro di cui anzi e tenermi ancorato, invece, a pochi, chiari, semplici e inoppugnabili dati di fatto.

Con l’aggiunta, semmai, di sparuti suggerimenti, se e in quanto utili e, nello stesso tempo, all’obiettiva portata delle nostre finanze pubbliche.

Niente più: in fondo, non solevano già i nostri “antichi” tagliar corto con l’affermazione, evidentemente ultra sperimentata, che “le chiacchere stanno a zero”.

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La mia regione, per buona sorte di tutti e in primis dei suoi abitanti, non si trova affatto ai margini o all’ultimo posto in classifica, come meglio piaccia dire, del tessuto economico – sociale italiano.

E’ chiaro, vi sono carenze (dove non ne esistono?) e, però, a fianco di molteplici risorse, ricchezze naturali o dell’ingegno, intraprendenze.

Credo che sia ora di finirla con le polemiche a tutto campo, occorre guardare e cercare di affrontare i problemi con decisione, uno per volta, secondo una semplice e ragionevole scala di priorità.

La realtà del binario unico, teatro del disastro di questi giorni, non è una grave anomalia della Puglia; al contrario, in base a una tabella diffusa dal “Corriere della Sera”, la presenza, qui, di strozzature nelle rotaie è sotto la media dell’insieme delle regioni italiane.

I controlli sulla marcia dei due treni non hanno funzionato perché obsoleti o inadatti o inefficienti? Bene, basta togliere le deroghe, sul punto, date alle società concessionarie private rispetto alle regole vigenti e operanti sulle linee gestite dall’entità pubblica Rete Ferroviaria Italiana e definite tra le più efficaci e sicure su scala europea.

Errori da parte di taluni addetti? Purtroppo, non è la prima volta che, a monte delle sciagure, ricorrono manchevolezze umane, ma, al riguardo, le autorità preposte devono occuparsene a riflettori spenti, con tutte le prove e disamine possibili, con estrema serenità di giudizio.

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Di fronte al dramma, si è arrivati finanche a lanciare una campagna mediatica regionale a tutto campo, da Lesina a S. Maria di Leuca, per la raccolta di sangue, certamente iniziativa lodevole e d’indubbia valenza, ma per niente da collegarsi, nello specifico, al numero dei feriti bisognevoli di plasma: lo stimolo a donare il sangue va seriamente proposto in ogni dove e durante l’intero arco dell’anno.

Si ferma a questo punto la penna del comune osservatore di strada e narrastorie, rendendosi del resto conto, nella circostanza, di essersi accostato più a una tragedia che a una semplice storia.

Tuttavia, in conclusione di queste note, si ritiene di trascrivere l’intervento, profondo e puntuale da par suo, oggi pubblicato sul proprio profilo Facebook dalla cara amica leccese Eliana Forcignanò, giovane filosofa, poetessa e critica letteraria:

 

“Non dobbiamo temere la morte, perché, quando noi ci siamo, essa non c’è e, quando essa c’è, noi non ci siamo”. Questo scriveva Epicuro, tuttavia mi riesce difficile credere che, nell’istante in cui i due treni si sono scontrati, le vittime non abbiano incrociato, sebbene per qualche istante, il volto della morte. Per loro non vi è stato silenzio: il clangore nefasto dei treni che entrano uno nell’altro, lo stridere delle rotaie, le sirene dei soccorsi, le urla dei parenti, l’inutile frastuono delle polemiche, il cordoglio di tutti noi espresso con parole veementi di sdegno e sofferenza. Eppure, sono questi i casi in cui la parola, per quanto necessaria a un’elaborazione del lutto e a una canalizzazione della disperazione, rimane tristemente impotente. Né potremo mai sapere ed esprimere per mezzo delle parole ciò che hanno provato le vittime, né, forse, riusciamo a esprimere quel che ci tormenta adesso. Da un lato, l’idea che su quel treno potevamo esserci noi o un nostro congiunto; dall’altro, la rabbia verso qualcosa che serba ancora contorni troppo imprecisi per essere assunta come capro espiatorio.

  1. La generica accusa che si può muovere contro la politica, infatti, non ha poi note così diverse da quella che noi abitanti del Meridione siamo soliti muoverle sempre: ossia, di averci abbandonati a un destino “di seconda classe” – è tristemente il caso di dirlo – del quale non possiamo più essere artefici, se non attraverso la scelta individuale di andar via, di lasciare questa terra in cui siamo nati e cresciuti. Ma questa è una vecchia storia: la tiriamo sempre fuori e sempre la guardiamo inabissarsi nel sopravvivere quotidiano, almeno per chi resta. Poi, ti colpisce alla radio il pianto disperato del familiare di una vittima che chiede giustizia e prega: “Non lasciateci soli!” Anche in questo caso ti accorgi di quanto la parola sia impotente a esprimere la sete di giustizia. Si fa supplica la parola, una supplica struggente da cui traspare la rabbia, perché la logica continuazione di quell’appello sarebbe: “Non lasciateci soli anche questa volta”, ma, nei fatti, un destinatario cui rivolgere l’appello non c’è: il potere cambia faccia, la gente riprende la sua vita seppur nello sconvolgimento generale, ma il dolore, acuto e lancinante, appartiene a chi sopporta la perdita di una persona cara e rimane a noi impenetrabile. Allora, la domanda è quella che i Fontamaresi di Silone rivolgerebbero anche a noi: che fare? Qualcosa d’importante lo hanno fatto i donatori di sangue; qualcosa, per quanto di poco conto, può farla ognuno di noi ascoltando quella stanchezza che ci viene dal profondo: la stanchezza di vederci compianti e immiseriti, la stanchezza di dover supplicare per ottenere giustizia, la stanchezza di udire polemiche tanto bieche quanto sterili, perché, se è vero che la parola è impotente, molto può la consapevolezza di essere stanchi: chi è stanco si ferma, rifiuta di portare oltre i pesi, recalcitra. Forse, dovremmo fermarci, rifiutare, recalcitrare dinanzi all’ovvietà di certe consolatorie promesse e pretendere che venga davvero restituita ai nostri morti la dignità di esser caduti in una terra in cui, da sempre, è più facile cadere che rialzarsi. “Gettate foglie sui morti – scriveva il poeta Salvatore Toma – poiché sono essi i veri vivi”.
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