di Pier Paolo Tarsi
Non giriamoci attorno e andiamo subito alla domanda che il pubblico pagante si fa di fronte a uno spettacolo comico: fa ridere? Si, fa ridere eccome, fa ridere tanto davvero. E già questo, a molti, potrebbe giustamente bastare, sebbene non a Taurino, sospettiamo. Per chi non si accontentasse potremmo dire qualcosa di più intorno a questo far ridere, per esempio potremmo chiederci: fa ridere tutti?
Qua le cose si complicano, e come spesso capita nella vita è proprio la sfiga, quella che ci segue anche a teatro, a regalarci le risposte e le intuizioni migliori sulle cose: in sala (in realtà il meraviglioso Chiostro di San Domenico a Gallipoli) c’era un solo ragazzino, uno solo. Indovinate dove era seduto? Già, alle spalle di chi scrive!
Non era uno spettacolo per lui, tant’è che dopo mezz’ora il ragazzetto parlottava ormai solo, faceva acrobazie scomposte e rumorose sulla sua sedia e delirava preoccupantemente, rifiutandosi ormai anche sua madre di spiegargli perché lei e l’amica se la ridessero tanto. Certo, non pareva un tipo molto sveglio per dirla tutta, ma questo, in ogni caso, ci dice qualcosa sul “come” arrivi a regalarci risate Taurino, ossia qualcosa sulla sua specifica vena comica che non ne fa uno spettacolo per tutti, seppur decisamente per molti. Un limite questo? Niente affatto, una caratterizzazione semmai, da cui partire per qualificare i modi dell’arte di Taurino in questo spettacolo scritto, costruito e interpretato da lui.
Arte, e niente affatto solo arte comica. Anzi, di fronte alla coscienza chiara di questo fatto ci mette la costruzione che Taurino tiene in piedi per quell’ora e mezza che vola, letteralmente: far divertire il pubblico è una cosa molto seria e le competenze da mettere a frutto sono davvero tante, da ricercare anche laddove non ce le aspetteremmo mai. Nell’universo e nella cassetta degli attrezzi dello storiografo per esempio: Taurino, dal mare di Gallipoli, ci trasporta sin dai primi minuti nel porto di Livorno, e lo fa come fosse uno storico di professione, con rigore di fonti, dettagli, documenti di ogni genere, e con in più la capacità di far divertire mentre per mano ci conduce a rivivere il processo da cui, sin dal 1500, emerge un’identità corale, lo spirito, la forma mentis del popolo livornese.
Ci svela così il farsi storico di quella tipicità ridanciana dei livornesi, inconfondibile, provinciale e un po’ sboccata, quel loro sguardo “vernacoliere” sulle cose che alleggerisce tutto, l’origine di quello scarto che rende la vita meno greve, meno pisana per dire, ché con la gravità, si sa, i pisani hanno sempre avuto i loro problemi. Con tali premesse, con questo ricorso ai modi di uno storiografo sui generis, Taurino ci immette nella cornice giusta per rivivere fino in fondo quanto accaduto nei giorni di una noiosa estate dell’84, per comprendere cioè il capolavoro assoluto, il fatto storico per eccellenza dell’uomo livornese, l’apoteosi di quel suo modo di stare al mondo e prendersene gioco: sono i giorni in cui tre ventenni prenderanno in giro la città, la nazione, il mondo intero. Complice il caso, magistrale regista di una storia che si complica ad ogni snodo, si arricchisce di toni e sfumature (persino giallistiche a tratti), di protagonisti, attori e profili più o meno comici – e tragici; e complice un Black&Decker ovviamente, quello con cui i tre realizzarono una delle tre finte teste di Modigliani ritrovate nel canale, intaccando la pietra e la reputazione dei più illustri studiosi.
Quello che ne seguirà sarà “l’undici settembre” della storia e della critica dell’arte italiana e non solo. E se credete che non ci sia nulla di peggio dell’undici settembre, è solo perché non ricordate cosa accadde il 13 settembre dell’84 in quel di Livorno: ve lo spiegherà Taurino, se vorrete.
L’intreccio delle vicende, narrato con padronanza della scena, è complesso e ricco di colpi di scena fino all’ultimo, ma all’attore riesce una difficilissima semplicità e di quanto fosse contorto il mosaico non ve ne accorgerete nemmeno. Giovano alla riuscita anche costanti ausili: sul palco vengono proiettate foto, reperti, stralci di giornali, la voce di Taurino riporta altisonanti giudizi di critici d’arte e pomposi discorsi di assessori “alla scultura”, creando spesso dissonanze assurde e comiche con quanto intanto l’occhio vede o lo spettatore viene scoprendo sui falsi di Modì.
Alla fine vi alzerete molto divertiti, ma anche pieni di dubbi e domande che Taurino stesso sollecita e lascia volutamente aperte: chi ha veramente fatto lo scherzo a chi? Tutto ciò è un dramma, tessuto da un destino un po’ beffardo, o una commedia voluta almeno in parte da uomini? Il problema dell’arte (e non solo) è l’essere o il riconoscimento? Il vero autore di un’opera d’arte è colui che sa tenere lo scalpello in mano (o il Black&Decker) o è il corale tessere di un riconoscimento in cui tutti siamo artefici, più o meno credibili o smentibili?