di Rocco Boccadamo
T. e L. sono entrambi della classe 1928, ossia a dire hanno oltrepassato le ottantotto primavere; invero, niente d’eccezionale, giacché, com’è noto, la durata media della vita si è nettamente modificata, tanto a livello delle pile d’almanacchi riservate a noi umani, tanto e soprattutto riguardo alle sembianze fisiche che, dell’esistenza, rappresentano, in fondo, uno specchio indicativo.
Notazione sullo specifico argomento anagrafico e d’apparenza, ho recentemente rinvenuto sul web, una vecchia foto, risalente al 1946, di un gruppetto di pescatori intenti a riassettare gli attrezzi di lavoro sul loro gozzo di legno, fermo tra il bagnasciuga e il risicato scalo per le barche del porticciolo di Castro.
In primo piano e in risalto, due figure, una delle quali con giubbotto e coppola, che danno l’idea, rispettivamente, di un uomo anziano, intorno alla sessantina o giù di lì, e di un secondo di mezza età, ovvero intorno ai quaranta. In realtà, l’ho potuto apprendere successivamente da fonte sicura, i suddetti personaggi contavano, all’epoca, solamente trentatré e ventidue anni.
Ritornando ai marittimesi T. e L., essi sono contadini, si può affermare, dalla nascita e a tale mestiere si sono dedicati per l’intera vita, prodigandosi, appieno, ancora adesso.
Un mondo d’albe e tramonti, il loro, a contatto dei campi, delle zolle rosse, di una miriade di coltivazioni e di piante, compresi gli alberi simbolo del Salento, cioè a dire gli ulivi. Una lunghissima missione di lavoro espletata con impegno, sacrifici, dedizione e dignità, fonte e fulcro, ovviamente, delle risorse per la formazione e il sostegno, anche, dei rispettivi nuclei famigliari.
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Giorni fa, al supermercato, mi trovavo in coda al reparto frutta per alcuni piccoli acquisti. L’impiegata addetta stava servendo un cliente, il quale, passando le ordinazioni con tutta calma e a singhiozzo, sembrava non esaurisse mai la sua lista, mentre insieme con me, arrivata qualche attimo avanti, attendeva una giovane donna, d’aspetto gradevole, occhi scuri, volto solare.
Alla mia domanda se aspettasse anche lei il suo turno e se fosse una compaesana, la signora mi precisava di esserlo per residenza a seguito del matrimonio, provenendo, invece, da una località vicina e, come si verifica quando tra persone di diversa generazione difficilmente ci si conosce, mi forniva anche riferimenti in merito alla famiglia del suo sposo.
Aggiungeva di essere casalinga, contrariamente a quanto avrebbe desiderato, a ciò costretta, purtroppo, da gravi e al momento insuperabili ragioni famigliari.
Tuttavia, durante il breve approccio e le confidenze nelle more dell’acquisto della frutta, la solarità di quel viso non usciva scalfita, prevalendo al contrario un composto equilibrio, forse sorretto dall’auspicio di tempi e sviluppi migliori per i propri cari.
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A breve distanza di tempo, un’altra attesa, in questo caso davanti al bancomat del mio istituto di credito.
Fra gli altri astanti/utenti, una giovane bruna, dall’accento non salentino, in compagnia di un ragazzino biondissimo.
Probabilmente anche per ingannare l’attesa, mi chiede, la donna, se, almeno, v’è la certezza che all’interno dell’apparecchiatura non si esaurisca il contante, impedendo quindi di prelevare. Mi viene spontaneo, sulla base delle mie esperienze, di rassicurarla e approfitto dell’occasione per domandare se il ragazzo sia suo figlio o fratellino. Risposta, è bielorusso, ha undici anni, la sua famiglia, alcuni decenni addietro, è stata testimone, spettatrice ravvicinata e in qualche modo vittima del disastro nucleare di Chernobyl. Sicché, nel quadro di accordi di solidarietà fra associazioni italiane e bielorusse a ciò preposte, il bambino, ormai da sette anni, è ospite, in estate e anche durante le vacanze natalizie, di una famiglia italiana.
Salutando, apprendo, direttamente dal piccolo, che si chiama Illya.
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Da una settimana circa, mi sono trasferito alla “Pasturizza”, la mia villetta del mare.
In questo angolo prediletto, ai piedi del muro di cinta lungo la strada per l’Acquaviva, ieri sera ho avuto la piacevole sorpresa, purtroppo non frequente, di scorgere una lucciola, con il suo magico lumicino fra l’azzurro e il verde.
Al che ho avvertito un sussulto di gioia dentro, con l’aggiunta che, in detta ultima circostanza, ispirato dai problemi famigliari della giovane signora incontrata al supermercato, ho voluto attribuire al simpatico insetto, sommessamente luminoso nello scuro notturno, il significato di un ideale faro di speranza.