di Paolo Vincenti
“Rotomatismi”, con un curioso neologismo, chiama Marcello Toma queste sue opere, a metà tra futurismo e surrealismo. Gli ingranaggi ossessivamente riprodotti nelle tele vengono da un passato che è ormai storia, ci parlano del progresso della tecnica che ha portato al grande sviluppo industriale del Novecento, anzi le cupe atmosfere grigio fumo dei quadri richiamano proprio quelle del cielo di Londra, ossia di quella nazione, l’Inghilterra, in cui è scoppiata due secoli fa la rivoluzione industriale. Le macchine però sono calate in una ambientazione onirica, vagamente cupa, inquietante. Il primo riferimento che balza alla mente dello spettatore è a quel capolavoro del cinema che fu “Metropolis” di Fritz Lang, così come a “Tempi moderni” di Charlie Chaplin, quindi alla condizione di straniamento del lavoratore delle grandi fabbriche e alla sua alienazione, robotizzazione.
In questi “rotomatismi”, si muove lo spirito del capitalismo moderno. Attraverso i perversi meccanismi di un capitalismo senza volto e senz’anima, quello del “produci consuma e crepa”, la strada del progresso intrapresa dalla odierna società del benessere non può che portare al baratro, alla catastrofe. Attraverso le macchine, l’uomo ha affermato il suo potere, il suo dominio sulla natura, ma poi da queste stesse macchine è stato soggiogato, schiacciato, come ne “Il grande ingranaggio”, una delle pitture più significative di Toma. L’homo tecnologicus si affida agli automatismi che guidano con estrema regolarità la sua esistenza e infine egli stesso diventa una macchina e ci saltano agli occhi le scene di “Blade runner”. Gli ingranaggi dunque sono emblema dell’esistenza dell’uomo moderno, schiacciato fra impegni e responsabilità, orari e routine, la cui vita frenetica può essere iconizzata da quel “Concerto meccanico”, altra notevole rappresentazione del nostro autore.
Toma predilige la tecnica dell’olio su tela. Si coglie un classicismo nelle sue opere, che è dovuto sicuramente alla formazione artistica dell’autore e ai suoi studi universitari. Laureato in architettura, è uno che ha confidenza con la geometricità, con l’essenzialità delle linee, che si riflettono in opere come “Rotomatismo”, “Labirinti”, “In blu”,“Il presente ha un cuore grigio”, con scoperti debiti verso il divisionismo e la pittura metafisica. Alla compattezza quasi materica dell’acciaio, di pistoni, bielle, dinamo, ruote, si contrappone l’atmosfera onirica, la consistenza lieve e aerea degli sfondi e di oggetti quotidiani decontestualizzati, come una candela, delle carte da gioco, le costruzioni dei bambini, una lumaca, una barchetta, una tazzina di caffè, che sembrano messi lì a caso. Il colore è forte, pregnante, ma non sovraccarico, è funzionalizzato al tema dell’opera, nelle sue infinite variazioni. Toma infatti dipinge sempre lo stesso soggetto, declinato in diverse modulazioni. Che cosa vuole comunicarci con questi perni, bulloni e altri pezzi di archeologia industriale, attrezzi di una realtà ormai dismessa, superata, consunta? Sarebbe facile cogliere la connotazione metaforica di queste opere, la loro connessione con la psicologia, darne insomma una lettura esistenzialistica o introspettiva. Non nego che anche il mio primo approccio sia stato caratterizzato da un forte impatto psicologico, cioè che queste opere abbiano parlato alla mia anima prima ancora che al mio cuore, all’intelligenza razionale prima ancora che a quella emotiva, alla ragione prima che agli occhi. Come non farsi trascinare, infatti, da un turbine di suggestioni letterarie osservando l’opera “Macchina del tempo”, in cui il dipinto è diviso in due campi e al grigio plumbeo di un passato di lavoro e sfruttamento dell’uno, si contrappone, nell’altro, il presente (e il futuro) di un bimbo che gioca con le sue coloratissime lego? La valenza simbolica degli ingranaggi è forte, certo, e rischiamo noi stessi di rimanerne schiacciati, stritolati. Ma poi mi sono volto all’aspetto formale dei quadri, alla loro dimensione estetica, e credo di poter affermare che queste opere possano vivere anche staccate da ogni interpretazione psicanalitica. Vivere nella loro fisica identità, come pura forma, come colore, senza guardare al messaggio. Del resto, dopo queste macchine, sono passate tutte le mutazioni del postmoderno e delle avanguardie artistiche e di ogni tipo di sperimentazione; porre un filtro cognitivo fra noi e queste opere, come si fa con l’arte concettuale, significherebbe ormai svalutarle, neutralizzarle, o al più ritenerle anacronistiche. Si dovrebbe dunque consegnare all’utopia questa sorta di back to the future, che Toma ci propone, ossia un ritorno al passato per correggere gli errori della storia, abbandonare l’interpretazione critica, affidarsi ai sensi, e scaricando di ogni valore etico questi soggetti, depotenziando il simbolo, si potenzierà il segno.