di Raffaele De Giorgi
Schivo, essenziale, introverso, eccentrico (da intendersi qui letteralmente nell’accezione prima greca -ἔκκεντρος- e poi latina –eccentrus- di “fuori dal centro”) e pur contemporaneamente naturale, integro, adamantino, profondo: così è qui l’Artista e così è anche – spontaneamente – la sua opera (non solo quella pittorica). Autodidatta di raro talento, Marco De Mirto frequenta in gioventù l’Istituto d’Arte salentino scegliendo poi di avviarsi solingo per i sempiterni calli della recherche artistica, non a caso maturata ab initio – armonicamente e in parallelo – con la sue sperimentazioni musicali.
La sua è una figurazione iperrealista ma non troppo, a suo modo ‘magica’ perché profanamente mistica, che si allarga poi motu proprio dal particolare al generale: una riflessione obbligata sull’universo con tutte le sue “sfumature di grigio”, così come lo sono i suoi primi studi accademici, soprattutto bozzetti di nudi e di teste. Sottili variazioni tonali volte piuttosto all’apparenza del non-colore che all’impeto cromatico; il che richiama scientemente alla mente l’Ottocento di certa Académie française un po’ pompier e, nello specifico, i sentieri espressivi di artisti quali William-Adolphe Bouguereau.
Da qui, nel corso del tempo, il Nostro si è poi lasciato gradualmente sedurre dallo studio di contenute e quasi rarefatte gamme cromatiche come se la ricerca del colore dovesse de facto essere necessariamente una riflessione austera e contenuta, cercando al contempo di ritrovare strenuamente una dimensione dell’animo umano ormai quasi svanita per sempre e, per questo, tragicamente impalpabile, languidamente evanescente. Ecco dunque che le infinite variazioni sul tema della Vanitas sono per l’Artista occasione connaturata per meditare costantemente e in profondità sul destino dell’intero creato e sull’ampia gamma delle conseguenti implicazioni etiche, teoretiche ed escatologiche.
Ebbene l’Artista è pure lucidamente cosciente del fatto che, ahimé, il mondo non è solo pax æterna atque harmonĭa dato che la Natura porta (sempre e comunque) con sé il suo pesante, inclito fardello; esso è però allo stesso tempo spontaneamente foriero di ciclica rinascita e di schietta rigenerazione proprio tramite il transfert demiurgico dell’arte: un miracolo profano che si rinnova ciclicamente e che si esplicita qui nella meta-serie di I trasportatori di uova (fig. 1, Casuario-trasportatore d’uovo, olio su tela, cm 90×90).
Ad ogni modo, a livello fattuale, l’essenza pittorica di De Mirto è maturata diacronicamente non prescindendo mai da un altro importante tassello espressivo, anch’esso maturato in primissima gioventù: la passione-ragione per l’illustrazione, cosicché la matrice fondante della sua arte – ora come allora – porta a una rappresentazione dettagliata dell’esistenza in tutte le sue espressioni-impressioni. Ma tale natura è per l’appunto ‘illustrata’ agli occhi di tutti noi con evidente intimità: un ossimoro figurativo che trova il giusto equilibrio proprio nel caratteristico stile dell’Artista. E in questo ambito, colpisce poi l’attenzione del Nostro per le trame delle tele, ora di lino ora di cotone o di iuta, ora a trama fitta ora più larghe; tutto ciò porta a una molteplicità di effetti pittorici e di esiti espressivi tanto che, laddove la tela è assai ‘fine’, la pittura si distende naturalmente quasi a rendere l’effetto mobile e levigato di una tavola. E, al contrario, le tavole producono spontaneamente effetti nient’affatto scontati dove la pellicola materica affranca i soggetti rappresentati che si ancorano saldamente alle superfici, caratterizzate da tessiture assai fitte e strutturate alla stregua di vere e proprie tele, come accade in Elmo (fig. 2, olio su tavola, 43×27 cm). Ma qui gli sfondi appaiono scarni, non lavorati; anzi l’Artista lavora per sottrazione, ispirandosi a ciò che avveniva nelle opere di alcuni artisti, quali ad esempio Rembrandt, dove lo sfondo non è trattato né dipinto, rimanendo quasi inerte per creare strumentalmente e per contrasto un effetto di profondità che tende sinergicamente a esaltare plasticamente il soggetto rappresentato.
A ciò si aggiunge una tecnica essenzialmente “alla prima”, che esclude ‘teorie di velature’ ed effetti tres léchés a favore di una resa pittorica più naturale e solidamente materica. E non finisce qui poiché, altre volte, il work-in-progess si conclude addirittura con un’imprimitura fatta di paste che si addensano bruscamente, raggrumandosi randomly in alcuni punti della trama pittorica; ed ecco che, nella Capra mistica, la tela di lino appare oltretutto “imbrattata” da un alone di sottile ironia, il che però si impone qui quasi miracolosamente ma anche con assordante serietà. Così che il celebre Agnello mistico di Van Eyck è ora ‘una capra sopra la panca’, che fiera si bea di noi con la sua austera sagoma di profilo, fatta per essere rimirata… proprio lì, a un passo da noi, ma senza possibilità alcuna di poter interagire concretamente; perché, dopo tutto, Lei è vicina ma conserva pur sempre in sé qualcosa di mistico e quindi è di fatto intoccabile. E a dimostrazione di ciò, se pur sorniona, essa custodisce dignitosamente un illustre lascito del tempo, un attributo-feticcio ancora mirabilmente effigiato sul suo bianco capo: un’aureola dipinta con ostentata, ‘incongruente’ autenticità (fig. 3, Capra mistica, olio su tela, cm 50×40).
A tutto ciò si affianca poi la straordinaria ricchezza iconografica dei dipinti di De Mirto, ulteriormente amplificata dalle tante modalità rappresentative; il che trasfonde a sua volta le proprie radici in un’amplissima fucina di stimoli e di rimandi figurativi che includono, con pari fervore creativo, altrettanti temi tratti dalla natura, dal mito, dall’uomo e da una cospicua messe di profondi nessi archetipici (si vedano, ad esempio, opere come Il cavaliere armato, Cerere (fig. 4 – olio su tela, cm 50×60), Ganimede, Liberté égalité fraternité, Intonazione (fig.5 – olio su tela, cm 30×40 cm), Mors tua vita mea, Davide e Golia, alias “un uccello posato sul cranio di bufalo” o, ancora, recentissimi dipinti-studi come San Giorgio e il drago. E, ancora, risaltano all’occhio inebriato dell’osservatore alcune superbe associazioni iconografiche, a un tempo fantastiche e (talvolta) volutamente paradossali, contenenti però un simbolismo assai pregnante che, peraltro, non prescinde mai da un’altrettanto acuta significazione; cosicché una Gazza cova un uovo di pterodattilo, magari dopo averlo immaginificamente depredato nel tempo da una Natura ormai “trapassata”. Si arriva quindi alle ultime sperimentazioni-meditazioni linguistiche dell’Artista, vale a dire una serie di sketch compiuti di getto, dove un fanciullo dal volto assai familiare diviene un virgulto in metamorfosi (anche interiore): un testamento dell’anima da indirizzare lietamente al mondo. Un racconto in fieri, ancora tutto da scrivere e soprattutto da figurare che, tuttavia, affonda già saldamente le radici nella bellezza del mondo, trasmessa per imagines a noi osservatori attraverso la purezza dell’infanzia… Uno straordinario afflato di arte – e quindi di vita – che ancora una volta Marco De Mirto fa magnificamente ri-apparire grazie a matite e pennelli.