di Armando Polito, con la collaborazione-consulenza di Giuseppe Presicce e Rosanna Fantastico
Capita spesso in occasioni di cene con mio cognato Giuseppe, discendente da una famiglia contadina e imprenditore agricolo lui stesso, di ragionare sull’etimo di parole dialettali attinenti a quel mondo. Così’ qualche sera fa mi confessava di sentirsi la spalla a pezzi perché si era dannato l’anima con la binetta. Lì per lì gli ho detto che alla sua età era pericoloso darsi da fare con le donne, ma era evidente che era solo una battuta, non solo perché avevo intuito che la binetta doveva essere un attrezzo ma anche perché sua moglie era presente e volevo vivacizzare la serata che fin lì si presentava, contrariamente al solito, piuttosto moscia, soprattutto perché io e mio cognato contemplavamo desolati l’unica bottiglia di vino messa sulla tavola da mia moglie (è bene fare sempre il nome del colpevole, anche perché qui il cognome, se proprio vi interessa, potete ricavarvelo da soli: Annarita) e che doveva bastare, pensate alla nostra disperazione, a quattro commensali. Imperturbabile, mio cognato si è subito vendicato dello sfottò fulminandomi con un – Non sai che cos’è la binetta?-. Ho dovuto confessare la mia ignoranza e sorbirmi la descrizione dell’attrezzo che compare nell’immagine di testa e col quale anche io, finché il fisico me l’ha consentito, ho avuto molteplici, intensi rapporti … stagionali, perché non ho mai disdegnato l’attività fisica, in particolare quella che pur sempre comporta la gestione di un semplice orticello.
Confesso di aver usato quell’attrezzo senza conoscerne il nome, nè italiano, né, tanto meno, dialettale (quando non la trovavo ero costretto ad usare una lunga perifrasi del tipo – Avete visto quella specie di zappa rettangolare con cui raso l’erba? -; e pensare che amo la sintesi e le parole lapidarie!) e l’imbarazzo è salito alle stelle quando anche la moglie di Giuseppe ha confermato che anche suo padre l’aveva usata abitualmente. Siccome sono uno che si mette da solo nei guai mi son posto ad alta voce:
-Quale sarà mai l’etimo?- e lì, per lì (la classe, 1945 …, ma più che di classe in questo caso si è trattato, come vedremo, di culosa intuizione …) ho buttato un – Probabilmente da bi– (due volte) e nettare – (l’attrezzo, quando è ben affilato elimina superficialmente l’erba già nel primo passaggio). Siccome accanto a sé Giuseppe aveva un cellulare di ultima generazione e non mi andava di interrompere la cena per accendere il pc e, giacché c’ero, controllare pure sul vocabolario del Rohlfs, gli ho chiesto di cercare in rete l’esistenza o meno di binetta in italiano.
Risultato: di binetta nemmeno l’ombra, a parte qualche nome proprio da tenere in considerazione solo se l’attrezzo avesse preso il nome dal suo inventore o costruttore, com’è avvenuto per esempio (non sarà questo il residuo di qualche pulsione inconscia a cancellare col suicidio la vergogna che stavo rimediando?) per beretta.
Non era ancora svanito il rossore derivante dalla constatazione ed ammissione della mia ignoranza che una nuova ondata di vergogna (ma che è, una tragedia greca?) si abbatteva sulla mia testa. Rosanna, così si chiama la moglie di Giuseppe, mi gelava con – La parola dev’essere di origine francese -. Al che ho subito replicato (ero sincero, ma, benedetto presunto esperto, potevo pensarci prima) ammettendo di essere stato un cretino a non averlo ipotizzato prima e a quel punto nello stupido tentativo di rifarmi ho snocciolato parole del tipo di cocotte (prostituta) e buvette (bar, per antonomasia quello del Parlamento). Probabilmente l’ho fatto anche per associazione di idee perché poco prima era terminato il telegiornale che, nonostante sia un megafono del regime, non riesce a scalfire minimamente ma, al contrario, corrobora la convinzione che nutro da tempo: con la politica attuale l’italia (l’iniziale minuscola non è un refuso …) andrà sempre più a finire a puttane …
Ma torniamo alla nostra voce. Una frenetica digitazione di binette sulla tastiera del telefonino e mio cognato mi sbatteva in faccia una caterva di immagini dell’attrezzo in una sorta di esposizione che non credo si sia vista nemmeno nel padiglione di qualche fiera internazionale dedicata agli attrezzi agricoli.
Mentre Rosanna celebrava, con indicibile soddisfazione di mia moglie, il suo trionfo e Giuseppe si mostrava infastidito quanto me, ecco la mia geniale osservazione per recuperare almeno in parte il prestigio perduto: – Tutto è chiaro: binetta è italianizzazione dialettale del francese binette -. Già, ma binette da dove derivava? Il problema poteva o non poteva essere risolto all’istante ricorrendo per la seconda volta al mostro tecnologico di mio cognato? Gli ho detto, perciò, di digitare Lexylogos (conduce ad una serie di vocabolari francesi che pongono solo l’imbarazzo della scelta). Deve aver digitato secondo me Sexylogos perché sul display sono comparse immagini che nulla avevano a che fare con l’attrezzo (almeno con quello di cui stiamo parlando …) e nemmeno un link conduceva ad argomenti ad esso attinenti. L’ho pregato di ridigitare la parola magica ma a quel punto il mostro con un ammiccante ultimo lampeggiamento ci ha fatto sapere che con noi, almeno per quella sera, si era rotto … la batteria. Nemmeno questa volta era il caso di interrompere la cena per operare con la mia attrezzatura (essa sì, degna di menzione anche se in quest’ultima parola il solito invidioso potrebbe sostiture la prima e con una i) quel controllo che prima non avevo voluto fare. La cena è proseguita con l’assicurazione da parte mia che l’indomani avrei fatto conoscere l’esito delle mie ricerche. Faccio ora pubblicamente ciò che mi ero ripromesso di fare privatamente, non tanto perché qualche lettore confermi l’esistenza di binetta nel dialetto neretino (anche se, fidarsi di un cognato e di sua moglie è bene, ma, come si sa, non fidarsi è meglio …), ma perché può interessare quel processo faticoso che sta dietro la storia di una parola.
Dopo aver premesso che nel vocabolario del Rohlfs, in quello di Antonio Garrisi ed a quello in rete di Giuseppe Presicce (omonimo, guarda caso, di mio cognato) la parola è assente, riassumo subito l’esito delle mie ricerche. Essendomi venuto il sospetto che binette potesse avere un’origine deverbale, ho controllato il suo significato in http://dizionario.reverso.net/francese-italiano/binette. Ecco quanto si leggeva e si legge: zappa (per sarchiare). Il mio sospetto era confermato e digitando, questa volta, la forma verbale immediatamente presumibile (biner) ho avuto la seguente risposta: sarchiare. Essendo biner un verbo della prima coniugazione, ho pensato che potesse derivare dal latino, come amer da amare. Chi, però, andasse a cercare binare sui vocabolari latini correnti (che registrano le voci del latino classico e, al massimo di quello tardo) resterebbe deluso, perché binare è voce del latino medioevale, tant’è che è presente nel lessico del Du Cange, dal quale riporto, con la mia traduzione corredata di qualche nota, il dettaglio del lemma.
BINARE Arare il campo per la seconda volta, sarchiare di nuovo la vite. Francese biner, Ugo Vittorino, Sermone XV; Fratelli, abbiamo un campo, il nostro cuore, la vigna del Signore, la buona volontà, i tralci, i buoni pensieri: scaviamola, sarchiamola, ariamola per la terza volta1, come è scritto, per triplice compunzione. E Sermone XVI: Dobbiamo arare per compunzione … sarchiare per compunzione … interzare per compunzione. Archivio della chiesa di Autissiodorus [attuale Auxerre] foglio 108, anno 1270: Scaveranno attorno2 questa vigna, la poteranno, le metteranno i paletti, la scaveranno e la sarchieranno [Papias: Si dice bini come se si dicesse biuni; bino, as, avi deriva da lì].
Per il non addetti ai lavori l’ultimo pezzo potrebbe risultare meno comprensibile dell’ostrogoto. Una delucidazione, per quanto sintetica, è d’obbligo, anche perché darà conferma, sia pure parziale, all’ipotesi etimologica lì per lì’ da me formulata quella sera. Qui Papia (lessicografo dell’XI secolo, autore del dizionario monolingue, cioè solo latino Elementarium doctrinae rudimentum) fa derivare (nulla da eccepire) il verbo binare da bini, numerale distributivo che significa due per volta oppure due per ciascuno. Egli poi considera bini come derivato da *biuni, composto, anche se non lo dice espressamente, dall’avverbio numerale bis (che significa due volte) e da unus che significa uno solo. Tale ricostruzione è anch’essa accettabile in toto e trasferibile a tutti gli altri aggettivi numerali distributivi latini: trini (che significa tre per volta oppure tre per ciascuno; quaterni che significa quattro per volta oppure quattro per ciascuno, etc. etc.).
Appare ora evidente come il latino medioevale binare deriva da bin-, radice di bini, il cui primo componente è propiro quel bis da me messo inizialmente in campo;). Ecco dov’è la conferma parziale di cui dicevo; solo che per il resto mi son lasciato suggestionare da un nettare che, se è semanticamente pertinente alla funzione del nostro attrezzo, non lo è per nulla filologicamente.
Conclusione: binetta è adattamento italiano del francese binette, con progressiva liberazione dal concetto iniziale di seconda lavorazione (sarchiatura) della terra (la prima è stata l’aratura, un tempo anche la zappatura) e utilizzo dello strumento non più e non solo per la fenditura superficiale del terreno (per cui è più adatta il sarchiello, sirchialora in dialetto) ma come semplice rasaerba.
A questo punto il nostro binetta meriterebbe di essere registrato nel vocabolario italiano, ma forse è troppo tardi: le parole acquistano vitalità e l’onore di entrare nella lingua nazionale grazie alla frequenza e alla diffusione del loro uso e, per converso, tendono a diventare inesorabilmente obsolete quando esse si riferiscono a realtà non più esistenti. Pensate veramente, tra job acts e stepchild adoption, tra aratri intelligenti e semi transgenici, che la nostra binetta, relegata a strumento poco più che hobbistico, faccia in tempo, prima di non essere più nemmeno fabbricata, ad essere registrata nell’anagrafe delle parole italiane?
Comunque, ho pregato Giuseppe che nei nostri prossimi incontri conviviali metta in campo solo parole come trattore, aratro, zappa, filare, potatura, innesto e simili, anche perché, nonostante la mia fame di conoscenza, una beretta, magari come semplice idea ispiratrice, è sempre in agguato. Per ora ho perso l’occasione (più perdente di così …) di lasciare su qualche giornale un titolo come: Suicida per una banale binette.
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1 Il tertiemus dell’originale è la prima persona plurale del congiuntivo presente attivo, con valore esortativo, di tertiare che, con lo stesso significato tecnico ricorre già in Columella (I secolo d. C.), autore di un trattato sull’agricoltura , e, con quello, più generico, di ripetere per la terza volta, nelle Metamorfosi di Apuleio (II secolo d. C.). ‘Nterzare è usato ad Alessano e Spongano proprio col significato di arare per la terza volta e corrisponde all’italiano interzare che, con la stessa specializzazione semantica di carattere agricolo, usa pure la forma composta reinterzare costituita dalla particella ripetitiva re– e interzare. Ne approfitto per ricordare che ‘ntirzare a Nardò è usato come sinonimo di allicciare (molto probabilmente perché l’operazione comporta una piegatura, pur modesta, dei denti della sega, rispetto al loro asse perpendicolare). I miei informatori mi attestano, altresì che a Nardò si usa trairsare (corrispondente all’italiano traversare) ma per indicare una seconda aratura fatta in senso opposto. E questo vocabolo non poteva non slittare dal mondo contadino nel proverbio Arata e trairsata ole la terra. Amata e ggimintata ole la tonna (per chi ha interesse ad approfondire: https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/17/ggimentu-e-ggimintare-dalla-speculazione-edilizia-alle-molestie/).
2 Allude alla pratica di coltivazione che prevede di scavare il terreno alla base del ceppo (scuncare in dialetto neretino, corrispondente all’italiano sconcare) non solo per liberarlo dalle erbacce ma per formare una specie di conca dove l’acqua possa raccogliersi.
Binetta è un termine importato dalla Svizzera dagli emigranti degli anni sessanta-settanta.
http://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=binette%201
Armando, concordo in parte con il Sig Angelo, si tratta senzaltro di una recente contaminazione linguistica, infatti, dagli anni “50 del secolo scorso, per circa un trentennio, ossia sino alla messa a punto dei diserbanti chimici selettivi e delle sementi confettate, migliaia di braccianti salentini si recavano in Francia per diradare e sarchiare le coltivazioni di barbabietola da zucchero utilizzando come unico attrezzo appunto la “binetta”. Partivano con regolare contratto di lavoro rilasciato presso appositi uffici, quello di Nardò era allocato proprio presso un’abitazione che conosci molto bene sita al primo piano in Via Regina Elena. Daltronde nel dialetto arcaico neretino lo stesso attrezzo viene appellato: “macialora” per via dell’impiego che se ne faceva soprattuuto in vigna e negli orti prevalentemente nel mese di maggio.
Ringrazio Angelo e Massimo per l’integrazione, peraltro confermatami, per quanto riguarda il dettaglio dell’impiego dei nostri emigrati in Francia nella coltivazione delle barbabietole, da un amico copertinese. La gratitudine è particolarmente viva perché mi consente di fare ancora, grazie al ricordo della “mascialora” e per via della comune etimologia, un riferimento all’abbandonata (perché inconciliabile con il “tutto e subito, a qualsiasi costo”, che è la sintesi del nostro attuale modo di vivere) pratica del maggese, nonché un’altrettanto amara riflessione in cui antropologia e linguistica ancora una volta (e poteva essere altrimenti?) mostrano il loro strettissimo rapporto: il francese “corvette” ha dato vita all’italiano “corvetta”, il francese “binette” solo al dialettale “binetta”, indegno, come abbiamo visto, di passare nella lingua nazionale. Vuoi mettere l’importanza della guerra e dei guerrafondai con il lavoro dei campi e i contadini? … La conferma di tutto questo, sia pur senza il coinvolgimento del francese, in un imminente post dedicato ad un’altra nostra parola, che qui non brucio.
Al contrario rimprovero al sig. Francesco D’Agostino di aver fatto perdere secondi preziosi a me (e, probabilmente, a qualcun altro) con la segnalazione di un link che conduce ad un lemma che in assoluta evidenza nulla ha a che fare con il nostro vocabolo.