di Giuseppe Resta
Conoscere è importante per ricordare.
Ricordare è necessario per essere comunità.
Certi fenomeni sociali e di pietà popolare, legati alla storia e all’antropologia, oggi, dimenticate ma non perdute le ragioni dell’origine, sembrano svuotati dai significati originari. Questo porta chi non conosce la genesi di questi fenomeni a giudizi non sempre obiettivi, a volte affrettati.
Purtroppo tante delle nostre tradizioni (dal latino traditiònem, da tràdere = consegnare, trasmettere) hanno perso il messaggio significante, confondendo il percettore sul significato. E chiunque legga la tradizione con i paradigmi dell’oggi e non quelli del passato può incappare in giudizi superficiali, nati su presupposti errati.
A mio modestissimo parere la tradizione non dovrebbe essere bruscamente cancellata o violentemente modificata solo perché oggi c’è chi si dimostra incapace di leggerla, ma piuttosto bisognerebbe indagare e riscoprire i veri profondi significati che la hanno generata e trasmetterli ancora per divulgare la comprensione e rinsaldare il legame con la comunità per fortificare la socialità e la civicità.
E’ pertanto difficile, per un appartenente alla Comunità Galatea, assistere a spostamenti di significati di antiche tradizioni consolidate, senza provare, seppur nell’obbedienza, un moto di disagio.
« Le storie antiche sono, o sembrano, arbitrarie, prive di senso, assurde, eppure a quanto pare si ritrovano in tutto il mondo. Una creazione “fantastica” nata dalla mente in determinato luogo sarebbe unica, non la ritroveremmo identica in un luogo del tutto diverso » (Claude Levi Strauss)
In antropologia la tradizione è l’insieme degli usi e costumi – e dei valori collegati – che ogni generazione, dopo aver appreso, conservato, modificato dalla precedente, trasmette alle generazioni successive. La tradizione è particolarmente sentita dalle comunità minoritarie che, attraverso di essa, tendono a conservare la propria identità.
Nella teologia cattolica, la tradizione cristiana è quella approvata dal concilio di Trento, ricca anche di tutti gli eventi non provabili, ma che sono ritenuti reali dai fedeli e/o dalle gerarchie ecclesiastiche. Nella teologia cattolica la tradizione è la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, nell’atto in cui perpetua e trasmette a tutte le generazioni “tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede” (Concilio Vat II, Dei Verbum 8).
Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, al n° 1679 <<Oltre che della liturgia, la vita cristiana si nutre di varie forme di pietà popolare, radicate nelle diverse culture. Pur vigilando per illuminarle con la luce della fede, la Chiesa favorisce le forme di religiosità popolare, che esprimono un istinto evangelico e una saggezza umana e arricchiscono la vita cristiana.>>
Un rito (o rituale) è ogni atto, o insieme di atti, che viene eseguito secondo norme codificate.
Secondo Ernesto de Martino, lo studioso italiano che tanto ha legato il suo lavoro alle fenomenologie antropologiche di questo nostro Salento, il rito aiuta l’uomo a sopportare una sorta di “crisi della presenza” che esso avverte di fronte alla natura, sentendo minacciata la propria stessa vita. I comportamenti stereotipati dei riti offrono rassicuranti modelli da seguire, costruendo quella che viene in seguito definita come “tradizione”.
Il sociologo Emile Durkheim ha invece fatto notare come la componente iniziale religiosa del rito porti a una funzione sociale, che permette di fondare o di rinsaldare i legami interni alla comunità. Sulla stessa linea anche l’antropologo funzionalista Bronislaw Malinowski.
Diversamente gli antropologi Arnold Van Gennep e Meyer Fortes considerano primaria la funzione sociale e culturale del rito che può estendersi poi in ambito religioso.
Pertanto la sfera della “tradizione”, così come quella del “rito”, così interconnesse, rappresentano un patrimonio culturale connotante una comunità, identificandola.
<<Tutto ciò che tentiamo di pensare e in qualunque modo tentiamo di pensarlo, lo pensiamo nell’ambito della tradizione. Essa si impone quando ci libera da un pensiero che segue le cose per portarci verso un pensiero che le anticipi senza essere più un pianificare. Solo se ci rivolgiamo pensando verso ciò che è già stato pensato, ci troviamo ad esser volti al servizio di ciò che ancora è da pensare.>> (M. Heidegger- Identità e differenza-).
Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, alla voce “La religiosità popolare”, n°1674: <<Oltre che della liturgia dei sacramenti e dei sacramentali, la catechesi deve tener conto delle forme della pietà dei fedeli e della religiosità popolare. Il senso religioso del popolo cristiano, in ogni tempo, ha trovato la sua espressione nelle varie forme di pietà che accompagnano la vita sacramentale della Chiesa, quali la venerazione delle reliquie, le visite ai santuari, i pellegrinaggi, le processioni, la «via crucis», le danze religiose, il Rosario, le medaglie, ecc.>>. 1679: <<Oltre che della liturgia, la vita cristiana si nutre di varie forme di pietà popolare, radicate nelle diverse culture. Pur vigilando per illuminarle con la luce della fede, la Chiesa favorisce le forme di religiosità popolare, che esprimono un istinto evangelico e una saggezza umana e arricchiscono la vita cristiana>>.
Lo spaesamento (letteralmente!) che potrebbe derivare da una perdita di queste connotazioni sarebbe gravissimo, portando alla spersonalizzazione di una comunità, nel baratro della globalizzazione amorfa e senza elementi identificativi, verso l’incultura dei “nonluoghi”, come li definisce l’etnoantropologo Marc Augé, in contrapposizione ai luoghi antropologici. Cioè tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici; prodotti della società della surmodernità (o supermodernismo), incapace di integrare in sé i luoghi storici confinandoli e banalizzandoli in posizioni limitate e circoscritte; privilegiano l’immagine e la quantità sull’essenza e la qualità.
Due tradizioni storiche centenarie, come l’Asta, per aggiudicarsi il privilegio devozionale e sacrificale del portare in processione la statua del SS. Crocifisso, o addirittura tricentenarie, come il “carro di San’Elena”, rappresentano una connotazione identitaria forte per tutto la comunità galatea. Perderle sarebbe veramente “un peccato”.
Secondo i sociologi sono questi rituali con i quali gli abitanti del posto ripetono una tradizione che li contraddistingue da tutti gli altri paesi vicini. Dunque il tema è quello del loro valore socializzante: la festa diventa il simbolo principale della propria storia, cultura, tradizione, della propria personalità collettiva. Il riferimento alla tradizione rappresenta in tal modo il patrimonio culturale, ambientale e familiare, rivelando un popolo, la sua cultura e la sua fede.
Comprenderne la genesi aiuterebbe a preservarne lo spirito originario, sempre molto legato al culto e alla devozione sincera e, quindi, forte e “pulita”.
“Se il cielo si svuota di Dio, la terra si popola di idoli” (Karl Barth, fondatore della “teologia dialettica”)
GALATONE E LA MADONNA DALL’OCCHIO NERO….
CONDIVIDENDO con l’Autore l’opinione che “la tradizione non dovrebbe essere bruscamente cancellata o violentemente modificata solo perché oggi c’è chi si dimostra incapace di leggerla, ma piuttosto bisognerebbe indagare e riscoprire i veri profondi significati che la hanno generata e trasmetterli ancora per divulgare la comprensione e rinsaldare il legame con la comunità per fortificare la socialità e la civicità”, NON AVENDO TROVATO alcun riferimento all’icona della Madonna della Grazia, custodita e venerata presso l’omonimo Santuario di Galatone, gradirei sapere di più e meglio di questa “storia”, che risale al 1586: “Convalidano questa ipotesi i documenti manoscritti relativi all’immediato avvio dei lavori per la costruzione della chiesa” (si cfr.: “La Vergine dall’occhio nero. La Madonna della Grazia di Galatone” di Francesco Danieli: https://culturasalentina.wordpress.com/2013/08/08/la-vergine-dall%e2%80%99occhio-nero-la-madonna-della-grazia-di-galatone/#more-1953). Comprenderne la genesi aiuterebbe a preservarne lo spirito originario….
Federico La Sala
GATTA CI COVA! LA “STORIA” DI GALATONE, IL REGNO DI NAPOLI, E LA SPAGNA …
PER “spiegare” lo “strano” silenzio che ancora oggi pesa sulle tradizioni religiose e civili, legate all’icona “miracolosa” della Madonna della Grazia e al suo Santuario, bisogna risalire all’epoca della fine del “secolo d’oro” della SPAGNA, del suo REGNO DI NAPOLI, e dei lavori in corso della CHIESA cattolica per la sua Controriforma, e collocare in tale contesto quanto è “successo” a Galàtone, dalla “comparsa” dell’icona “miracolosa” alla nascita del Santuario della Madonna della Grazia e al “ruolo” del vescovo di Nardò, Mons. Fabio Fornari (1583-1596).
Come ha ben scritto Francesco Danieli (cfr. “La festa della Madonna della Grazia. Pietà e folklore galatei dal ‘500 al terzo millennio”: https://culturasalentina.wordpress.com/2011/09/07/la-festa-della-madonna-della-grazia-pieta-e-folklore-galatei-dal-%E2%80%98500-al-terzo-millennio/), è “un’operazione, insomma, nel più tipico stile del Fornari e dei presuli della controriforma”! Da chiarire, ancora, resta l’origine della stessa “icona”. E’ il caso di dire: «Una manina misteriosa non so di chi»! O no?!
Federico La Sala