di Armando Polito
Ci ho messo settantuno anni (ho cominciato a scrivere un’ora dopo la nascita) ma finalmente ho portato a termine la stesura del mio primo libro. La presunzione mi portava a pensare che il più fosse stato fatto, ma, come l’uomo che non usava Danacol, mi sbagliavo. Ho sottoposto il parto del mio ingegno a diversi editori ma nessuno si è mostrato disposto a scommettere su di me. Da ingenuo che ero e che sono rimasto non ritenevo ancora indispensabile che a tal uopo (accidenti, eppure so usare vocaboli difficili …) fosse indispensabile ormai essere un pluriomicida o godere già di una certa notorietà televisiva che aiuta tanto nel lancio della propria creatura. Per chi si illude di uscire dall’anonimato con la pubblicazione di un libro, in parecchi casi, compreso il mio, c’è sempre, comunque, la possibilità di coronare il suo sogno, solo che quello autentico, come dice il proverbio, non costa nulla; questo, invece, obbliga ad anticipare il costo della stampa di un certo numero di copie e, in qualche caso, a cedere contestualmente i diritti all’editore. A me è stata fatta solo la prima proposta, segno evidente della grande considerazione per la mia fatica in vista di un eventuale sfruttamento futuro …
In compenso, però, mi è stato detto che sarebbe stato meglio che nelle pagine iniziali comparisse una prefazione che non fosse la mia. Su questo sono d’accordo, perché è meglio che le solite fesserie incensatorie siano dette da un estraneo che, bene che vada, del libro ha letto solo il titolo, piuttosto che da colui che l’ha scritto per intero …
Fino ad ora non ho trovato nessuno disposto a scrivere questa benedetta prefazione e, probabilmente, o sono un imbecille o uno sfigato, perché non esiste prefatore che non gongoli all’idea di leggere una volta in più il suo nome da qualche parte. Probabilmente non ho saputo scegliere persone adeguatamente poco intelligenti e molto vanitose …
Ma chi penso di essere? Forse penso di essere un duca? Quale duca, fra tanti, reali o sedicenti che siano? Le cose bisogna farle bene, perciò il duca al quale sto pensando è Belisario Acquaviva, primo duca di Nardò dal 1516 al 1528. Non so se fosse un bene o un male né sto a disquisire sulla disparità di condizioni ambientali che a distanza di secoli permangono (con un nepotismo oggi diventato di bassissima lega), ma, secondo me, la cultura non fa mai male e a quei tempi, per lo più, chi esercitava il potere era anche un uomo di grande cultura. E così, oltre che duca, Belisario fu anche letterato. Qualcuno si starà già chiedendo se non sia in atto in me un deragliamento mentale che mi ha portato dalla prefazione al duca. Un po’ di pazienza e alla fine si scoprirà che l’una è un pretesto per parlare dell’altro, e viceversa nel prosieguo.
Il nostro Belisario è ricordato per un volume di pedagogia, per così dire, aristocratica, uscito per i tipi di Bibliotheca Ioan. Pasquet de Sallo il 5 giugno 1519, come si legge nel colophon, che di seguito riproduco.
Il volume si apre con una lettera che funge da prefazione e il mittente non è uno qualunque, ma Antonio Summonte (1538 circa- 1602), autore di Dell’historia della città e regno di Napoli, Carlino, Napoli, 1601. Di seguito il testo in formato immagine e la mia traduzione.
Il Summonte saluta Belisario Acquaviva duca di Nardò. Certamente è vecchia discussione, e volesse il cielo che non fosse troppo giusta, o generoso Duca, che gli studi letterari ed artistici, al di là di quelli praticati dagli antenati, siano stati abbandonati da re e principi a tal punto che quelle arti in passato chiamate liberali ora sono scivolate ormai da quella senatoria sublimità tra il popolo e la plebe e lì sembrano essere tenute in poco conto come se fossero nella melma e nella merda. E, cosa di gran lunga peggiore, soprattutto dove la loro pratica era opportuna e necessaria, lì esse sono state lasciate senza protezione e cacciate lontano. Infatti quasi tutti ignorano quali guide del popolo Platone voleva. Per farla breve, egli, come tu sai, ritiene felici i popoli ai quali tocchi un sistema di governo originato soprattutto dalla filosofia. Quando questo avviene, è difficile a dirsi quanto completamente debba a te e quanto ad Andrea Matteo duca di Atri tuo fratello il nostro tempo in cui vediamo voi come illustrissimi esempi, tanto nel campo militare che in quello delle lettere, che possono stimolare i nobili e gli ottimati e spingerli a così onorevole imitazione. E, per tacere di tuo fratello, che è nato prima di te, e più assiduamente ha coltivato con assiduità più le lettere nelle quali, per non parlare della gloria militare che già da tempo è ritenuta peculiare della famiglia Acquaviva, quanto abbia giovato lo sanno non solo i nostri uomini ma anche i paesi stranieri. Tu stesso certamente, dopo che attraverso vari assalti del destino e la sua lunga offesa è stato possibile, ti sei così dato di recente agli studi letterari ai quali un tempo fanciullo ti eri accostato senza dare troppa importanza, e ti sei dedicato ad essi con tanta voglia di conoscere e tanto ingegno che a stento si può credere che in così poco tempo tu abbia potuto apprendere e scrivere tanto. E questo in nessuna parte ha il sapore dell’apprendista ma del veterano al quale, come dice quello,[i] è stato già donato il bastone. Molto acutamente si accosta alla dottrina la tua indagine che io loderei in primo luogo soprattutto per il fatto che hai scelto nello scrivere quella materia che fosse degna di te e che si addicesse ai nobili ed ai nati in famiglia elevatissima. Grazie a te essi hanno già di che leggere con attenzione. Infatti scrivendo anzitutto dell’educazione dei loro figli nulla hai tralasciato di ciò che riguarda la loro dignità, mentre discuti assolutamente in modo così dotto ed esauriente di arte militare, di una gara singolare, di materia economica, di caccia e uccellagione, che (questo voleva Platone) che è possibile vedere nei tuoi scritti o il filosofo che guida il popolo o il principe che parla o agisce da filosofo. Tuttavia se grazie a te ho letto volentieri di questi argomenti poiché mi sembra che tanto in materia civile che militare te ne derivi meritata gloria, l’ho fatto più volentieri per il fatto che posso a buon diritto dire grazie ai nostri tempi che comincerebbero a tornare all’antico costume e vedo pure la nostra professione essere riscattata da un luogo umile e sporco all’antica dignità ed all’abituale decoro. Sta bene.
Le pagine II-XIIIv. contengono il De instituendis liberis principum (L’educazione dei figli dei principi); segue (la numerazione riprende da capo) alle pagine I-XVIIIv la Prefatio paraphrasis in economica Aristotelis (Prefazione-parafrasi all’Economia di Aristotele) e, dopo una non numerata con gli errori di stampa, in chiusura, una vera e propria postfazione, una lettera di Pietro Gravina, altro pezzo da novanta della cultura di quei tempi.
Pietro Gravina augura felicità all’illustre Belisario Acquaviva duca di Nardò eccellente e in patria e fuori.
Hai dato alla luce gemelli economici di felicissima fattura, oriundi della famiglia peripatetica e li hai donati agli occhi e alle orecchie romane. Certamente essi già sebbene adolescenti hanno un aspetto così bello che, se non fossero distinti per ordine di nascita e di stesura, non senza difficoltà si riconoscerebbe la loro prima origine. Per entrambi la stessa statura, la stessa forma, pari soavità di linguaggio, pari passo, il medesimo aspetto, il medesimo tono di voce, pari, infine, la cura e la raffinatezza. Quando per la prima volta li ho visti ed osservati li ho baciati teneramente come quelli che capivo essere allievi di una stirpe generosa e che mostravano in fronte e in petto non solo molto della nativa bellezza ma anche molto delle gemme e li guardavo senza mai chiudere gli occhi per la gioia e l’ammirazione a tal punto che non potevo saziarmi mai del piacere della loro presenza. Si aggiungeva a questo l’eleganza dei costumi, e una maturità per così dire senile che mi manteneva, purché mi parlassero, sempre avido e in attesa di qualcosa di nuovo. Li ho visti educati da quei precetti e strutturati da quegli esempi che brevemente e lucidamente esprimono i sentimenti dell’animo e che senza indugio portano a compimento ciò che hanno proposto. Quanta dolcezza di eloquio, quanto equilibrio d’espressione, che bene ed onorevolmente sentono dei genitori, che generosamente ma non meno prudentemente s’incontrano con i servi così che non solo non sembrino da correggere, come tu nelle tue elegantissime lettere mi chiedesti se fosse da farsi, ma sapere affinché possano provvedere agli anziani. Tu veramente, illustre duca, quando segui ed emuli tuo fratello non solo nelle lodi dell’arte militare ma anche nella gloria delle lettere, non cessare, poiché la natura ti ha generato così fecondo, di accrescere il vivaio dell’una e dell’altra. E come per volere del destino ti abituasti a seguire valrosamente lo stesso Marte così non ti rincresca di abbracciare e venerare con tutto il cuore pure Minerva, che pure lei dotata di elmo vibra l’asta e scuote l’egida. Sta bene, onore dei nobili!
Il nostro Belisario, però ebbe la fortuna di avere post mortem un altro prefatore, sia pure indiretto, che ne fece, addirittura, il contraltare di colui che è considerato come il fondatore della scienza politica moderna, il Machiavelli.
Mi accingo a prendere in considerazione, infatti, un’edizione del 1576 (la data si deduce dalla lettera dedicatoria, che esamineremo tra poco, con cui si apre il volume) uscita a Basilea per i tipi di Perna e contenente, oltre al De principum liberis educandis (con una piccola differenza nel titolo rispetto al già visto De instituendis liberis principum), il De aucupio (L’uccellagione), il De venatione (La caccia) e il De singulari certamine (La lotta singolare).
Comincio dal frontespizio.
Il volume si apre, come avevo appena accenato, con una dedica a firma del Leonclavio, latinizzazione di Hans Lewenklaw (1541-1594), storico, orientalista ed umanista tedesco. La riporto nel consueto formato con l’aggiunta, di mio, della traduzione e di qualche nota.
Subito dopo la lettera del Leonclavio c’è un componimento in esametri (forse dello stesso Leonclavio) per il lettore.
– A chi tanto, a chi niente! – mi verrebbe da dire riconducendo, era ora!, me e voi dal duca alla prefazione mancata, se non fosse per due piccoli dettagli: io non sono un duca e con i tempi che corrono è sì facile trovare dei leccaculo, quali a tratti a qualcuno possono sembrare il Summonte, il Gravina e il Leonclavio (va detto, però, che l’opera in questione non detiene certamente il record specifico: fino al XIX secolo s’incontrano talora volumi con i quali, prima di arrivare al testo vero e proprio, il lettore deve sorbirsi un notevole numero di pagine contenenti prefazioni, dediche, attestati di stima e simili) ma è difficile che nello stesso tempo abbiano la loro cultura. Come ho già detto, per me niente prefazione e niente pubblicazione, ma sicuramente è meglio così che fare la fine di quel politico del tempo che fu appena eletto che fu gelato dalla madre, lei sì intelligente (ma a quei tempi, tutte le madri, e non solo, erano intelligenti …), che così accolse la lieta notizia: – Figlio mio, che disgrazia! Prima a sapere quanto sei fesso erano solo i parenti e gli amici più stretti, ora lo sapranno in tanti -.
Spero solo che questo post non sia, però, sulla mia pelle il tatuaggio di questa barzelletta …
La Prefazione fa parte delle ipotesi di risoluzione del problema editoriale che, nella sua enunciazione, non chiarisce i veri termini del problema: i libri, soprattutto quelli “di peso”, non li legge nessuno.
Premesso che il mio libro settuagenario (ma neppure più giovane) non esiste, né “leggero” né, tanto meno, “pesante”, chi sa leggere tra le righe ha certamente compreso come con un’ironia diacronica ho invitato a riflettere sulla crisi dell’editoria dei nostri tempi e sugli strumenti, non dissimili da quelli usati per lanciare un detersivo, con i quali si tenta di promuovere un libro, prefazione compresa. Non sto a disquisire sul carattere ingannevole di certa pubblicità, per me al limite della vera e propria truffa, ma, da inguaribile sognatore con i piedi per terra, apprezzo il suo realismo, ma non ne condivido la componente cinica, che vede nella prefazione un espediente per facilitare il volo dei libri “leggeri”, dal momento che quelli “pesanti” per fisiologica definizione son destinati a restare a terra. Avrei apprezzato, invece, qualche parola sul ritorno dell’editore come figura di imprenditore disposto a sfruttare solo il suo “naso” e non a vivacchiare in iniziative e progetti che hanno come obiettivo solo il bieco profitto, facendo leva (basta considerare il profluvio di “concorsi” letterari) sull’umana vanità. E ho evitato accuratamente di scomodare parole come “vocazione”, “missione,”educazione”, “scuola”, “cultura” e simili, per non sembrare a molti più pazzo che fuori dal tempo.
…e invece, c’era tutto, l’ironia per i generi letterari che vendono, l’amarezza per gli editori che fiutano solo il denaro (meglio se anticipato dall’Autore) e, quindi, anche per i sistemi di distribuzione. In effetti, mancava qualcosa: un accenno ai Premi letterari, ma di quelli ormai non vale neppure la pena parlarne.