di Armando Polito
Ormai più che di una serie di contributi si potrebbe parlare di una vera e propria telenovela, ma solo in rapporto al numero di puntate, non di documenti esibiti. Perché se ne renda conto al lettore basterà digitare nell’apposita casella di ricerca il nome di colui che non certo in tono benevolo ho definito il vescovo-fantasma di Nardò. Questa volta, però, spunterò una lancia in suo favore ma prima intendo muovere un affettuoso rimprovero a chi mi ha consentito di farlo, il signor Eraldo Bonaria, rimprovero (si fa per dire …) estensibile a tutti coloro che postano il loro commento sul profilo della fondazione (o su quello del suo fondatore) in Facebook e non sul blog stesso della fondazione alla quale, pure, conduce il link facebookiano. E così, in occasione della recentissima uscita del mio post sullo stemma di Fabio Chigi, il signor Eraldo così commentava: ma anche bravo poeta in latino, come si può vedere in questi ironici e divertenti versi che si riferiscono a vecchi cardinali: Ille una reboans hora quater oscitat; ille/emungit nares et bombis insonat; alter/exerit humentes cerebro, dum sternuit, auras./Alter ventriculum turgentem crudus aperto/eructat labro. Caput ille, pedes dolet iste./Hunc renes vexant, illum stranguria. Siquis/sanus, continua non cessat stertere nocte./Et tamen hic valeo et placidum conclavia somnum/haec mihi conciliant, animo deducta sereno/ut possim subita depromere carmina vena.
Non poteva partire da me una richiesta diversa da quella che gli ho inviato: Esametri, all’epoca, persone del suo rango potevano scriverne, e ne scrivevano. a tonnellate. Siccome, però, m’intriga l’ironia, le sarei grato se volesse trasmettermi il testo completo (e citazione della fonte) o in commento al post sul sito della fondazione o, se preferisce, all’indirizzo polito.armando@libero.it
In attesa di un riscontro mi son messo a cercare il testo ed oggi, essendo trascorso più di un giorno senza che il signor Eraldo si sia fatto vivo, partecipo l’esito della mia ricerca.
Come certamente saprà chi ha dimestichezza con cose di questo tipo, Google (opzione libri) offre per alcuni testi, quelli più datati e, dunque, non più soggetti al diritto d’autore, una digitalizzazione totale, per quelli più recenti parziale (anteprima) o molto parziale (snippet). Quest’ultima consiste nella digitalizzazione parziale di pochi righi di una o più pagine. Dando in pasto a Google due o tre parole-chiave consecutive sono riuscito ad arrivare a due testi, entrambi in visualizzazione snippet: 1) Humanistica Lovaniensia, volumi 17-19, University Press, Lovanio, 1968.
2) Eranos: acta philologica suecana, v. 91–93, s. n., s. l., 1993.
Sfruttando il motore interno di ricerca a ciascuno dei due con altre parole-chiave sono riuscito a recuperare dal primo due frammenti che mi hanno ragguagliato sulla natura del testo che cercavo:
Una lettera di Fabio Chigi (Alessandro VII) a Ferdinando di Fuestenberg
Fürstenberg. Gli descrive con un umorismo innegabile gli aspetti, diciamo umani, dell’augusto consiglio [il conclave] che di lì a poco avrebbe convogliato sul suo nome un numero sufficiente di voti. Diamo qui il testo di questo pezzo curioso, una copia del quale ci è stata amabilmente fornita dall’archivista.
Da entrambi, poi, sempre con lo stesso sistema, son riuscito a recuperare i vari frammenti del testo (sono tutti esametri) che presento di seguito dopo il lavoro di ricucitura, con l’aggiunta solita della traduzione.
Ut valeam quaeris; placidum ut conclavia somnum
concilient, paucis, Fernande, his conjice dictis.
Stringimur angusto complures sub lare Patres
cum famulis; sua cuique culina est eadem,
atque eadem aula, teges quam juncea fulcris1.
Unaque praecingit distenta et lanea vestis.
Hic genere et genio, hic annis et corpore discors
Turba sumus, ludens variis concentibus una.
Excreat hic et plenis projicit Ostrea buccis;
Hic raucam siccis tussim pulmonibus urget;
Huic tumidi crepitus emittunt tympana ventris,
ille una reboans hora quater oscitat; ille
emungit nares et bombis insonat; alter
exerit humentes cerebro, dum sternuit, auras.
Alter ventriculum turgentem crudus aperto
eructat labro. Caput ille, pedes dolet iste.
Hunc renes vexant, illum stranguria. Siquis
sanus, continua non cessat stertere nocte.
Et tamen hic valeo et placidum conclavia somnum
haec mihi conciliant, animo deducta sereno
ut possim subita depromere carmina vena.
(Mi chiedi come sto. Come il conclave concili un placido sonno deducilo, Fernando, da queste poche parole. Noi Padri in parecchi ci stringiamo con gli inservienti sotto un unico focolare, per ciascuno la medesima cucina, in un unico ambiente che una stuoia di giunco arreda. Cinge una sola veste morbida e rigonfia. Qui siamo una turba diversa per razza ed indole, per anni e corpo, che gioca insieme in vari accordi. Uno sputa e getta fuori ostriche dalla bocca piena; un altro tenta di reprimere la roca tosse con i secchi polmoni; a questi il tamburo del ventre rigonfio emette crepiti; quello rumoreggiando in una sola ora sbadiglia quattro volte; quello si pulisce il naso ed emette ronzii, un altro espelle, mentre starnutisce, aria umida dal cervello. Un altro rozzo erutta dalle labbra aperte lo stomaco rigonfio. Ad uno fa male la testa, ad un altro fanno male i piedi. I reni tormentano uno, la difficoltà di orinare un altro. Se qualcuno è sano non cessa di russare tutta la notte. E tuttavia qui sto bene e questo conclave mi concilia un placido sonno, perchè possa esprimere con ispirazione improvvisa poesie indotte dall’animo sereno).
Certo, non bastano questi ventuno versi per rivedere la mia opinione su questo vescovo-fantasma di Nardò, una sorta di Antonio Mastropasqua ante litteram. Non gli rimprovero, però, gli alti incarichi ricoperti contemporaneamente ma solo il fatto che avrebbe fatto meglio a rinunciare alla carica di vescovo o, quanto meno, vigilare sul comportamento del suo vicario, Giovanni Granafei, in occasione della rivolta neretina del 1647. Non fece né una cosa né l’altra, ma scrisse questi versi che me lo rendono appena appena meno antipatico …
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1 Se si conserva fulcris il verso risulta incomprensibile. Credo che si tratti di un errore di trascrizione o di stampa, da emendare con fulcit; la traduzione ha tenuto conto di questo intervento, necessario finché qualcuno non mi dimostra il contrario. A proposito di questo verso va pure detto che la pubblicazione del 1968 reca la lezione visibile nell’ultima riga del dettaglio, vale a dire un esametro mostruoso, che toglie il fiato nel leggerlo e il senno nel tentare di scandirlo …
Ho appena ricevuto dal mondo dei più un messaggio da parte del diretto interessato che recita testualmente: “Caro mio, meno male che hai attribuito i presunti errori da te rilevati non a me ma a chi ha letto e trascritto il testo della mia poesia. Dubito che una capra come te possa comprendere, anche se ti scrivo in italiano, ma mi corre l’obbligo di dirti che il verso in questione (est eadem, atque eadem aula, teges quam juncea fulcris) è di una correttezza esemplare (bada bene che vanno elisi il -dem finale nei due “eadem” e la -e finale di “atque”. La cesura (dopo “aula”) è quella trocaica. L’emendamento di “fulcris” in “fulcis”, poi, te lo metti da parte per ricordo perché il senso va a meraviglia con il testo così com’è: ” … e una medesima stanza che una sola stuoia di giunco distesa con cuscini e una coperta di lana circonda”.
Ora, se dico che è tutto uno scherzo nessuno mi crederà; scherzo, naturalmente, non il messaggio ma le mie osservazioni critiche che avevo inserito a bella posta nella speranza che qualcuno (magari qualche mio ex alunno …) non si lasciasse sfuggire l’occasione per darmi della capra, ma è stato bruciato sul tempo.
E a questo punto con quale coraggio mi azzarderò a scrivere sull’illustre personaggio qualche altro post, nel male oppure nel bene? Temo che la telenovela su Fabio Chigi, per quanto mi riguarda, termini qui ..