di Gianluca Fedele
Mi capita di rado di chiacchierare con artisti scultori perché la scultura è un’attività complessa ma soprattutto impegnativa. A mio avviso Daniele Dell’Angelo Custode si colloca egregiamente nel panorama degli artisti locali affermando il proprio estro tramite il metallo, l’acciaio per essere più precisi. Attraverso esso ha intrapreso da tempo un percorso di ricerca materica e personale dopo una lunga, soddisfacente e ininterrotta carriera da artigiano.
Le singolari opere, apprezzate ormai da un pubblico internazionale variegato, beneficiano di un’attenzione sempre crescente perché Daniele è soprattutto un instancabile promotore delle sue idee che ha la capacità di coinvolgere, nelle proprie attività e mostre, esperti e critici che sanno leggere con competenza l’arte e descriverla ancor meglio.
Per la realizzazione di questa intervista mi ha naturalmente invitato nel suo laboratorio che è anche atelier a Nardò (LE),una struttura dalle forme moderne sita in via Galatone, e ci ha tenuto a farmi visitare le stanze nelle quali maneggia, forgia e culla la materia oppure, come ama ripetere, dove “matura un’opera d’arte”.
D.:
Devo dire che sono affascinato e colpito da quello che vedo in questo laboratorio e dagli odori che rimandano ad arti antichissime; da quanto tempo hai a che fare con la lavorazione dei metalli?
R.:
Posso definirmi a giusta ragione figlio d’arte in quanto sono cresciuto, sin da bambino, nel laboratorio di mio padre, Mimino, il quale prima di me lavorava egregiamente il ferro. Inoltre lui fu tra i primi a introdurre qui da noi la lavorazione dei serramenti in alluminio e presso la sua officina hanno appreso le loro conoscenze tecniche e pratiche moltissimi giovani che ora sono affermati professionisti del settore.
Io già a una decina d’anni facevo conoscenza con gli arnesi da lavoro di papà costruendo piccoli giocattoli e modellini di automobili o aeroplanini.
Successivamente, dopo gli studi svolti presso l’Istituto Statale d’Arte di Nardò, l’ho affiancato aggiungendo alla sua esperienza l’innovazione di una lavorazione più moderna e tecnologica. Possiamo dire perciò che mi sono formato respirando tutte quelle essenze che si rilasciano durante la manipolazione dei metalli e quindi credo di aver sviluppato particolari sensibilità nei loro confronti, non solo tattili.
D.:
Oltre a tuo padre, quali sono le persone che ti hanno instradato verso questa carriera?
R.:
Lungo questo percorso ci sono state due o tre persone che mi hanno sostenuto più di altre. Sicuramente potrei citare il professore Oronzo Troso di Copertino, Nicola Nenna di Lecce e ultimamente anche Paolo Marzano; tre amici ai quali devo molto di quello che so e che mi hanno fatto comprendere l’importanza del bello, della precisione, della semplicità, dell’essenziale. Perché, come diceva Mies van der Rohe, “Less is more”.
D.:
E tra gli artisti locali, qualche personaggio al quale ti senti più vicino?
R.:
Ho letto nella tua recente intervista al caro Antonio Calabrese parole molto affettuose e di stima nei miei riguardi e non vorrei che questo ora apparisse come uno scambio di cortesie: apprezzo realmente l’arte onirica di Calabrese e il modo col quale rappresenta il mondo tramite quei suoi personaggi fiabeschi.
Credo che la forza di un artista si riconosca, oltre che dall’originalità del proprio linguaggio, anche da come riesce a rimanere produttivo e versatile; ecco, Antonio nonostante l’età non si ferma mai ed è sempre pronto a raccogliere nuove sfide, restando sempre attuale, mai scontato.
Sono orgoglioso di averlo come amico e gli auguro una carriera piena di meritati successi.
D.:
Com’è avvenuto il passaggio tra la lavorazione artigiana e il bisogno di intervenire artisticamente sul metallo?
R.:
Come si è capito la mia formazione professionale è stata determinante in questo senso, poi è ovvio che una certa sensibilità individuale e le reminiscenze scolastiche mi abbiano indotto a guardare il mio lavoro da un lato meno meccanico e più artistico fino a quando il richiamo verso la sperimentazione ha preso il sopravvento. Inoltre tengo a precisare quanto importante sia stata per me la collaborazione con tecnici, architetti e designer. Beneficiando della loro intraprendenza ho affinato la mia inventiva e messo in discussione le mie capacità attraverso sempre nuove sfide per giungere a forme davvero originali.
D.:
Cosa significa per te avere a che fare con una materia così poco docile?
R.:
Capita, a tal proposito, che qualcuno mi definisca fabbro – e ne sono lusingato – ma non è un aggettivo che sento calzarmi perfettamente addosso poiché io non modello la materia a mio piacimento, bensì la stimolo e la assecondo verso i suoi peculiari indirizzi. Quello che faccio nel mio laboratorio è sollecitare il metallo per cercare in esso delle reazioni spontanee; tali reazioni sono le sue risposte e allo stesso tempo le mie opere. Per cui è sempre il ferro che mi indirizza; gli ulteriori miei interventi sono superficiali; essi si limitato al contenimento dell’ossidazione e della ruggine al fine di preservarne al meglio la conservazione.
D.:
In che modo concili l’artigianato e l’arte?
R.:
Anche i miei galleristi spesso se lo domandano. È evidente che il mio primo mezzo di sostentamento sia la produzione di complementi d’arredo, scale e serramenti, anche perché tramite questa attività in parte foraggio ciò che ruota attorno alla creazione delle mie sculture. Per cui, ancora una volta, un aspetto è complementare e imprescindibile dall’altro.
D.:
Ti immagino nel momento in cui crei, intimamente concentrato sulla materia: che emozioni provoca scolpire l’acciaio e vederlo reagire in maniera sempre differente?
R.:
Innanzitutto diciamo che non parto aggredendo immediatamente le lastre metalliche ma, come per ogni altra forma di scultura, mi avvalgo di schizzi preparatori. Poi, come ho spiegato, una volta a contatto con fuoco, vuoi per via dello spessore disomogeneo o per la temperatura differente, è la materia che mi indica la direzione da seguire e detta le regole imponendosi sui miei progetti iniziali. In quegli attimi io mi debbo velocemente adeguare a quelle che sono le volontà del metallo e con l’esperienza sto cercando di dominare entrambi noi due. Col tempo la mia ambizione più grande è quella di riuscire ad anticiparlo.
D.:
Ho una domanda che non ho mai fatto a nessun altro artista e scelgo te proprio perché le tue sculture sono perlopiù monocromatiche: qual è il tuo colore preferito?
R.:
Non si può esattamente parlare di monocromia perché su queste superfici ci sono tutte le scale dei grigi e l’arancio per via della ruggine. Tutto ciò che di colorato vedi sulle mie opere non sono altro che ossidi, acidi, terre e agenti atmosferici. E sono esattamente questi i colori che mi piacciono.
D.:
Che funzione hanno queste opere per te?
R.:
Le opere d’arte, a differenza di un oggetto di design, sono fine a sé stesse e non hanno un valore di utilità ma un valore individuale e intimo.
D.:
Ci sono artisti ai quali ti ispiri?
R.:
Devo ammettere che molti grandi maestri gli ho conosciuti solo dopo aver prodotto ed esposto in pubblico le miei prime opere. I fruitori delle mostre mi paragonavano all’albanese Helidon Xhixha o a Pietro Consagra, ma anche ad Alberto Burri per via della tecnica di combustione della materia con la quale io agisco sull’acciaio. In quelle occasioni prendevo ovviamente appunti e dopo di ché c’è stato da parte mia un approfondimento, uno studio personale; inoltre ho incominciato a guardarmi attorno facendo delle ricerche mirate, documentandomi su quelli che sono gli autori contemporanei al fine di rintracciare il mio indirizzo. Oltre che per differenziarmi.
D.:
Essendo le tue delle opere dalle raffigurazioni prettamente informali, quale canone cognitivo deve adottare il fruitore per coglierne il significato?
R.:
Secondo me quando ci si pone al cospetto di un’opera d’arte, che sia essa figurativa o meno, quasi mai ci si dovrebbe far sovrastare dalle intenzioni dell’autore ma cercare di instaurare un legame intimo tra ciò che si vede e ciò che si percepisce, lasciandosi coinvolgere dalle emozioni personali più che da quelle indotte dalla volontà dell’artista. L’arte informale, secondo me, enfatizza questo aspetto offrendo al recettore la totale libertà di interpretazione. Il significato quindi delle mie opere non si racchiude in un pensiero univoco ma tutto il contrario; e per rifarmi alla domanda credo che bisogna porsi di fronte all’opera con tutti i sensi, spogliandosi completamente di ogni preconcetto.
Senza voler apparire presuntuoso posso dirti che nessun ospite delle mie mostre è rimasto indifferente o privo di emozioni, confermandomi così quanta poesia ci possa essere all’interno di una lastra di acciaio.
D.:
Ti pongo allora una domanda più provocatoria: in un mercato come il nostro, perlopiù amante dei ritratti e dei paesaggi, le tue opere sono anacronistiche o d’avanguardia?
R.:
Ti dirò che non mi hai sorpreso affatto con questa domanda, me l’aspettavo. Per farti sorridere ti racconterò che inizialmente la gente era titubante e preoccupata quasi di portarsi della “ruggine” in casa propria; ora per fortuna questo modo di pensare sta andando scemando.
Avendo viaggiato un po’ consentimi di affermare che il problema, se così possiamo definirlo, è tutto meridionale. Solo da Roma in giù l’opera d’arte acquistata per arredare il salotto deve essere necessariamente abbinata al divano e alle tende. Inoltre consenti a me di essere provocatorio: a mio modesto parere nel mondo contemporaneo fatto di fotocamere ad altissima definizione, stampanti 3D e pantografi a controllo numerico il ruolo dell’arte figurativa si è defilato precipitosamente. Se c’è qualcosa di anacronistico, quindi, non sono certo le mie sculture.
D.:
Esiste una corrente artistica per inserire il tuo lavoro?
R.:
No. Non credo ci sia un filone che mi rappresenti e inoltre io mi sento in continua evoluzione, sempre alla ricerca di nuove sperimentazioni.
D.:
La ricerca nell’arte quanto conta?
R.:
Conta tantissimo, due attività quasi indissolubili. La ricerca è anche curiosità ed entusiasmo perciò se non esistesse questa variabile fondamentale tutta la produzione si fossilizzerebbe riducendosi ai soliti stereotipi di canoni estetici ed espressivi classici.
D.:
Poco fa accennavi al rapporto coi galleristi e comunque so che hai dei buoni contatti: è importante avere il supporto di una galleria?
R.:
Per quella che è la mia personale esperienza le gallerie continuano a rappresentare un importante supporto, soprattutto per emergere a livello internazionale, senza il contributo delle quali sarebbe quasi impossibile. Al contrario di molti colleghi artisti io ho prima cercato un confronto europeo e solo successivamente mi sono confrontato con la piazza locale in cui mi sto pian piano affermando. Per farti un esempio immediato, mentre parliamo le mie opere sono esposte presso il 30 St Mary Axe di Londra, meglio conosciuto come “The Gherkin”, ma ho anche esposto a Dubai, Bruxelles e in molte altre grandi città del mondo.
D.:
Le esperienze di confronto che accumuli all’estero tornano utili nella realtà locale?
R.:
Che il confronto con altre culture ci migliori anche dal punto di vista umano è un dato di fatto, e inoltre ci conduce verso una crescita che può sicuramente essere persino collettiva. Non dovremmo mai peccare di quella presunzione che ci fa credere di essere migliori rispetto a tutti – né come artisti né come popolo – e chiuderci nel nostro piccolo guscio. In questo senso abbiamo ancora tanto da imparare.
D.:
Mi è parso di scorgere alcuni tuoi lavori artistici nel centro storico di Nardò, me lo confermi?
R.:
Ovviamente non sbagli. Ho realizzato per l’anniversario dei 150 anni della Società Operaia una targa commemorativa e un’altra targa celebrativa mi è stata commissionata dal Comune di Nardò per i cento anni dalla fine della Grande Guerra. Sono piccoli tasselli che si incastrano nella mia storia personale e professionale ed è superfluo aggiungere che mi inorgoglisce non poco sapere di aver posato un mio lavoro in una delle piazze più belle d’Italia, al fianco di grandi scultori come Borgia e Gaballo.
D.:
Quali sono attualmente i tuoi progetti più importanti?
R.:
Voglio rivelare ai lettori di Fondazione Terra d’Otranto che ho appena provveduto al restauro di uno dei magnifici lampioni che adornano Piazza Salandra a Nardò, disegnati sul finire degli anni ‘50 dal Sindaco Salvatore De Benedittis e realizzati dal Maestro d’Arte Luigi Cappelli. Per ora col Comune siamo in una fase di preventivo e valutazione ma tuttavia devo ammettere che è stata un’esperienza inebriante che mi ha caricato di nuova energia. Mi auguro di poter dare ancora una volta sfoggio delle mie capacità attraverso questo importante lavoro.
D.:
Questa è una notizia che ci riempie di gioia e speriamo di vedere presto quei lampioni risplendere. Per quanto concerne le mostre invece quali sono i prossimi appuntamenti?
R.:
Per fortuna sto attraversando un periodo nel quale continuo a produrre senza sosta e molte opere sono solo in attesa di essere spedite. Sono infatti in fase di definizione alcune date a Matera ma anche in Germania.
D.:
Pensi che l’arte possa aiutarci a superare l’attuale momento di crisi?
R.:
Io penso proprio di si! È nei momenti di crisi personale che ho realizzato le opere alle quali tengo di più.