di Armando Polito
Se mi avessero detto – Ti portiamo al macello – forse mi sarei agitato di meno, ma sono sempre stato e, nonostante le apparenze, sono rimasto un timido, troppo legato alle mie abitudini e piuttosto restio e diffidente nell’affrontare un nuovo rapporto umano, da qualsiasi circostanza esso sia suggerito o imposto. A distanza di tanti decenni mi pare, perciò, strano che appena adolescente non mi sia ribellato, come ero solito fare e ancora faccio, ad una situazione che mio malgrado mi poneva al centro dell’altrui attenzione. Probabilmente nella circostanza fui oggetto di un odioso e tenero ricatto e dovetti seguire forse più o meno docilmente (in realtà chissà quante volte lungo il tragitto sarò scoppiato in lacrime, avrò fermato i miei passi o, addirittura, tentato di tornare indietro …) mia madre Rosa e mia zia Maria fino allo studio fotografico dove sarebbe stato immortalato il loro lavoro preparatorio (altra tortura!) sui miei capelli e sulla vestizione adeguata all’evento, nonché il loro orgoglio parentale. Poco poteva importarmi il fatto che a ritrarmi sarebbe stato il più famoso fotografo neretino dell’epoca.
Bisogna riconoscere che come modello non ero proprio da buttar via (magari avessi continuato, fisicamente parlando, su quella strada …), ma è innegabile che l’abilità non solo tecnica del fotografo ha un ruolo determinante in qualsiasi ritratto. L’immagine che segue non vuole essere una manifestazione di nostalgica vanità, ma solo una prova concreta, in linea col mio modo di pensare e di agire, di quanto ho appena affermato. Sarei, però, un ipocrita se non ammettessi che per qualche anno mi hanno fatto piacere i complimenti puntuali fatti al mio indirizzo da chiunque vedesse quella foto, incorniciata e collocata bene in vista da mia madre e mia zia, senza rendermi conto che l’espressione – Tale e quale! – che di solito concludeva e sintetizzava la visione era dettata soprattutto dal riconoscimento dell’abilità e della sensibilità dell’autore dello scatto. Poi gli anni passarono, passarono pure a miglior vita mia zia prima e mia madre dopo, la foto incorniciata non fu più in vista (sono sicuro che non è stata buttata, però non saprei dire dov’è stata riposta) ma l’altro giorno ne ho ritrovata casualmente una copia passando in rassegna vecchie carte contenute in un altrettanto vecchio cassetto.
A riprova della sua autenticità l’inconfondibile sigla dell’autore.
Ho pensato, allora, di scrivere questo post per riportare alla memoria di coloro che hanno la mia stessa età la figura del cavaliere Mazzarella. Del suo fisico ho un ricordo molto vago ma molto impresso mi rimase all’epoca l’appellativo cavaliere con cui sua moglie in laboratorio si rivolse a lui in occasione dell’esecuzione della foto e poi del suo ritiro (questa volta la curiosità di vedere cosa era venuto fuori vinse la mia ritrosia).
Ancora oggi la semplice pronunzia di un titolo (figurarsi quello di presidente con cui i giornalisti sono soliti rivolgersi a chi presidente non è più da tempo; capisco che dottore, ingegnere, finanche professore è per sempre, ma presidente lo si è solo pro tempore) mi procura un senso di disagio, ma il trascorrere del tempo mi ha fatto capire che probabilmente quel cavaliere non aveva una valenza esibizionistica di prestigio agli occhi degli altri, aveva piuttosto la stessa valenza affettuosa, oserei dire amabilmente ironica, del professore con cui consento di chiamarmi, e non sempre, solo agli amici più intimi.
Sarebbe bello, nell’epoca di diabolici aggeggi elettronici e di Photoshop, se altri lettori che hanno vissuto la mia stessa esperienza inviassero il loro ritratto eseguito da un figlio di Nardò che meriterebbe di essere ricordato più profondamente, con testimonianze e documenti, di quanto, per esempio, non sia avvenuto, pur meritoriamente a suo tempo, nel necrologio apparso sul foglio locale La voce di Nardò (http://www.lavocedinardo.it/Voce12006/VOCE12006PDFBW.pdf), da cui ho tratto la foto di testa.
Quel bellisssimo bambino non faceva altro che preannunciare il bell’uomo che ancora tu sei, mio caro Armando. Lo so che tu sei schivo, ma ciò non muta la realtà.
“bellissimo” (che, forse, ero)>”bello” (che certamente da moltissimo tempo non sono)>”schivo” (che credo di essere sempre stato). Tecnicamente è un climax discendente e, caro Sergio, il punto d’arrivo, purtroppo, sarà (anzi già è) “schifo”.