di Armando Polito
Ci sono immagini dell’infanzia o della prima giovinezza difficilmente cancellabili e spesso il velo più o meno leggero che il trascorrere del tempo stende su di esse viene squarciato dal confronto che ogni tanto le circostanze ci spingono a fare tra il passato e il presente.
Prendiamo, per esempio, le mosche. – Che schifo! – dirà chi ha inteso quel prendiamo nel significato letterale. – Che schifo lo stesso! – continuerà a dire anche dopo che gli avrò spiegato che la parola che tanto lo ha turbato è sinonimo di consideriamo.
Nessuno lo obbliga a seguirmi e vuol dire che percorrerò con altri, almeno me lo auguro, questo viaggio sul filo della memoria.
Prendendo le mosche, chi più o meno vicino ai settant’anni, non ricorda, soprattutto nel periodo estivo e non necessariamente in campagna, la casa invasa da questi insetti e unirsi, al senso di schifo che da sempre accompagna la loro vista, il fastidio di dover subire il loro contatto con la nostra pelle, insistente, petulante, testardo, peggio di un innamorato che, nonostante sia ripetutamente respinto, tenta e ritenta nel suo intento?
Quando la loro presenza, per via del numero sempre crescente o insopportabile diventava troppo invadente si adottava un rimedio incruento, non inquinante e a costo zero, insomma rispettoso della vita di tutti, mosche comprese. Per liberare una stanza dalla loro fastidiosa presenza bastavano due persone: la prima procedeva ad aprire ed a chiudere ritmicamente un’anta della porta o della finestra (l’altra doveva restare chiusa), la seconda, cominciando dal capo opposto, percorreva tutta la stanza agitando un panno bianco. L’operazione aveva lo scopo di scumagnare1 le mosche (cioè allontanarle dal punto su cui erano posate in gran numero) convogliandole verso la porta la cui apertura ritmica con l’alternanza buio/luce e viceversa esercitava su di loro un potere attrattivo irresistibile. Spettava al pilota della porta, poi, quando una buona quantità di mosche si era addensata nelle vicinanze, tenere aperta l’anta per il poco tempo necessario a che il compagno desse l’ultimo colpo di panno per accompagnarle fuori. In genere era sufficiente ripetere l’operazione tre volte per ripulire una stanza di grandi o medie dimensioni.
Poi giunsero gli insetticidi, il cui capostipite fu il DDT che, se debellò la malaria, si aggiunse al lungo elenco di sostanze cancerogene e, a dimostrazione delle conseguenze del suo impiego massiccio, tracce ne sono state rinvenute nel grasso di orsi bianchi e foche nell’Artide e di pinguini nell’Antartide. Anche allora, e mi limito a riferirmi alle parole, il fattore commerciale prevaleva su quello scientifico; così anche dalle nostre parti ddiddittì, pronuncia (con raddoppiamenti consonantici tipicamente nostri, ma che nella fattispecie possono essere stati ispirati anche dalla rabbia contro le mosche o dall’efficacia del prodotto …) di DDT, a sua volta sigla di diclorodifeniltricloroetano, venne soppiantato da flitti, pronuncia di flit, nome commerciale e abbreviazione di fly-tox (veleno per mosche). E ben presto flitti si chiamò per metonimia pure l’attrezzo (una pompa con serbatoio) utilizzato per spruzzarlo.
In fondo, a proposito di metonimia (figura retorica che non è solo del poeta che, per esempio, dice pino o legno per nave) negli stessi anni esordiva la registrazione magnetica e il nome commerciale dei primi nastri (Ampex) sarebbe diventato di lì a poco nome comune (registrazione in ampex, trasmissione in ampex), destinato a durare fino a ieri, cioé fino all’avvento della tecnologia digitale
Messo al bando il DDT, sono subentrati altri insetticidi, sicuramente efficaci, ma la domanda che mi pongo è sempre la stessa: lo studio sui rapporto benefici-rischi è stato approfondito, cioé è durato un certo numero di anni per valutare, sia pure nel medio termine, gli effetti del prodotto sulla vita (animale, vegetale e … pure minerale) e sull’ambiente nel suo complesso? D’altra parte solo un idiota come me non si è ancora rassegnato all’idea che il progresso, per come comunemente è inteso, non è scindibile dal profitto.
Sotto questo punto di vista, ben pensarci, rimane più ecologica, anche se poco igienica, la paletta di plastica.
Ma essa è un’arma certamente non adeguata quando le mosche da eliminare non sono tre o quattro ma uno stormo. E poi, dove mettiamo la comodità delle bombolette (non aggiungo spray, non solo perché non è necessario, ma perché da un po’ di tempo a questa parte l’inglese non mi sta simpatico …) ?
– Spray no e polish si? – dirà qualcuno. Nessuno è perfetto e senza polish non avrei venduto nemmeno una bomboletta. A proposito: si accettano prenotazioni … e, per tornare alle mosche, nessuno vieta agli scettici, ai retrogradi e agli ambientalisti fanatici, in attesa che l’ingegneria genetica introduca nell’insetto il gene dell’antipatia per l’uomo e per il suo ambiente, di ritornare al passato e di giocare, almeno in casa, con le ante e col panno bianco, ma costoro si ricordino, ad operazione avvenuta, di chiudere la porta o la finestra …
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1 Gerard Rohlfs nel suo Vocabolario dei dialetti salentini registra la voce ma non avanza nessuna proposta etimologica; Antonio Garrisi nel suo dizionario Leccese-ìtaliano esagera con la sua propensione agli incroci, per cui la nostra voce sembrerebbe frutto di un’ammucchiata “tra i latini excombinare, excommentari ed exglomerare“. Se excombinare ed exglomerare sono semanticamente plausibili, non lo è certamente excommentari (che in latino non esiste) nemmeno considerando il semplice commentari che vuol dire riflettere; ma, forse, il Garrisi invece che a commentari intendeva riferirsi a comitari=accompagnare che, accoppiato ad ex iniziale avrebbe dato un excomitari col significato di scompagnare. Anche in questo caso, però, l’ipotesi d’incrocio del Garrisi sacrificala fonetica, anzi, appare come un comodo pretesto per bypassarla. Il segmento –agna– di scumagnare suppone un iniziale –anea-, come stamegna è da staminea; ora non si vede traccia di tale segmento in nessuna delle tre parole in presunto incrocio e, per quanto pericoloso esso sia, sarebbe dovuta restare qualche traccia, per quanto minima, dell’incidente. Per non tirarla per le lunghe. La voce da cui partire è il latino commanere (composto da cum+manere)=restare insieme che nel latino medioevale ha dato commanes=coabitanti; da una forma aggettivale *commaneus/a/um si è sviluppato il verbo *commaneare=restare insieme che, con aggiunta in testa di ex– privativo e passaggio, passaggio al valore fattitivo e scempiamento di m come in comune da commune(m), ha dato vita a scumagnare col significato di privare della possibilità di stare insieme, dividere e, per traslato, quello riflessivo di agitarsi che trova la sua celebrazione poetica in una poesia popolare registrata a Morciano da Antonio Cassetti e Vittorio Imbriani in Canti popolari delle provincie meridionali, Loescher, Roma, Torino, Firenze, 1871, p. 179, dove al v. 5 così descrive l’avversione di una madre per il corteggiatore della figlia: quandu me vide tutta sse scumagna (quando mi vede si agita tutta).