di Felicita Cordella
Sono significative e affascinanti testimonianze della storia poverissima di uomini ricchi di forza interiore e di solidi valori, avvezzi alla fatica, nonché storia di una terra di prodotti genuini e sapori veraci. Muretti a secco, canali, “chisure”, “curti”, “paiare”, sono opere dei contadini salentini che, dissodando la brulla terra rossa, estraevano pietre e le accumulavano.
Poi queste divenivano muretti di confine ed anche costruzioni, come depositi per attrezzi come ripari per gli uomini o, come dicono gli specialisti, primitiva opera di antropizzazione degli spazi rurali. I muretti erano praticamente una frontiera fortificata per delimitare o per proteggere proprietà e attraversano millenni di stortia. Già in era messapica se ne faceva uso, sebbene avessero una struttura a blocchi poggiati orizzontalmente.
Durante la dominazione bizantina segnavano i confini tra Salento e i restanti territori.
I muretti hanno altresì funzione di sostegno per terrazzamenti, rallentano le sferzate del vento sulle colture, sfruttano il calore del sole, frenano lo scorrere delle acque piovane, mantenendo umido il terreno. In Salento dunque si sviluppò un’arte che, da padre in figlio, si tramanda da secoli e oggi rischia di scomparire: “lu paritaru”. Il muro a secco è costituito da due file parallele di grosse pietre, su cui si costruisce il vero e proprio muro, incastrando le pietre in modo da lasciare tra loro il minor spazio possibile; gli interstizi vengono poi riempiti con materiali fini.
Non si usa malta, né cemento, né calce. Alla fine si posa un cordolo con grosse pietre piatte, “li cappeddhi”. Ogni zona di una masseria o di un podere veniva recintata con muretti, per es. l’allevamento del bestiame era custodito da “lu ncurtaturu” o “lu curtale”.
I “furnieddhi” o “truddhi” o “caseddhe” o “pagghiare sono costruzioni circolari o quadrate (troncoconiche o troncopiramidali) che, ancora negli anni sessanta, costituivano l’abitazione dei contadini, soprattutto in estate. Furnieddhu deriva dalla prima funzione di forni per i fichi, abbondanti nelle campagne circostanti. Fichi che si erano essiccati sulle “littere”o sulle “lliame”, terrazze dove si lasciavano al sole anche ortaggi e legumi. Quando il sole brucia “li cuti”, gli ortaggi, il pomodoro in primis, divenivano concentrati di gusto per l’inverno. E su quelle pietre grige si cuoceva l’eccezionale pane contadino, anch’esso grigio perché a base d’orzo e cereali integrali, che condito col pomodoro, magari di “pendula”, era cibo adatto agli dei. La bruschetta salentina di pane, olio e pomodoro, dice Vasquez de Montalban, è un meraviglioso “paesaggio”, fondamentale nell’alimentazione umana.