di Gianluca Fedele
Io credo che i nostri paesi siano fatti anche di figure le quali, pur essendo a noi poco note, contribuiscono con il loro quotidiano, minuzioso e per certi versi invisibile lavoro, a seminare quella cultura che si trasforma poi nella nostra identità e per molti aspetti anche orgoglio di appartenenza.
Giuseppe Lisi, che mi è stato segnalato da Marcello Gaballo prima e Sandro Tramacere poi, è il prototipo di quel soggetto appena descritto. Personaggio eclettico, artista spontaneo e docente presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce; vanta una mole di informazioni invidiabile, alla quale io naturalmente qui posso solo accennare.
Ospitale. Una volta concordata telefonicamente la data per l’incontro mi invita nella sua nuova abitazione e tiene a precisare che ciò che vedrò è solo un frammento del suo patrimonio fatto di opere e pubblicazioni, poiché la restante parte non è ancora stata oggetto di trasloco. In realtà la casa è letteralmente tappezzata di libri, tele, sculture e persino le lampade a sospensione sono frutto di esecuzione artistica.
Siamo stati insieme per quasi cinque ore ma il tempo è volato. Quella che leggerete è solo una minima parte del denso colloquio.
D.:
Mi piacerebbe cominciare questa conversazione con gli esordi artistici: in quali ambienti hanno avuto inizio le tue primissime esperienze?
R.:
Potrei iniziare parlando dell’A.C.R., che certamente mi ha formato sotto l’aspetto umano, ma devo dire che in realtà tutto ciò che riguarda il mio interesse per l’illustrazione e l’arte che mi caratterizza trova origine nella mia età più fanciulla: da bambino, piccolissimo, in campagna con mio padre. Ho anche lavorato come falegname nella bottega di “mesciu” Totò Formoso, un artigiano dell’epoca molto noto a quelli della mia generazione; insegnava disegno presso la sede della Società Operaia di Nardò. Devo quindi a questo personaggio le prime nozioni di disegno dal vero. Annovero inoltre, tra le mie importanti esperienze formative, anche l’apprendistato presso il laboratorio fotografico di mio cugino, il fotografo Gerry Bottazzo; vale a dire che già a dieci anni ero in camera oscura apprendendo, tra le varie nozioni, anche la tecnica del ritocco direttamente su pellicola o lastra.
D.:
Così piccolo e così tanti aneddoti. E lo studio?
R.:
La mia passione per lo studio la dimostrai sin da subito quando, coi sandaletti ai piedi nel freddo inverno, mi indirizzavo con una gran voglia di imparare verso la scuola elementare di via Pilanuova, all’epoca circondata solo da case diroccate. Vinsi un concorso di disegno raffigurando il “tempio della Fortuna Virile”. Conservo di quel periodo un bel ricordo del maestro Salvatore De Benedittis, il quale mi volle molto bene.
Come si è detto la mia non era una famiglia agiata e in ambito scolastico questo aspetto fu per me motivo di grande sofferenza poiché, alle medie, vi erano ancora distinzioni sociali tramite le file dei ricchi e quelle dei poveri. Mi resi conto che per essere accettato o, meglio, per ricevere maggiori attenzioni dai docenti il disegno poteva avvantaggiarmi; quindi in quel tipo di linguaggio cercai di eccellere: vinsi un altro concorso il cui premio consisteva, guarda caso, in un pacco di pastelli. Bisogna immaginare che a quei tempi, per noi bimbi, l’unico momento dell’anno in cui si ricevevano regali era l’Epifania; per me fu quindi, oltre che una grande gioia, un importante input che segnò la strada delle future aspirazioni.
Durante le vacanze estive, invece, andavo ricopiando le sculture che adornavano i viali delle ville di campagna.
D.:
Da alcune raffigurazioni mi sembra che traspaia una certa sensibilità per iconografie legate al misticismo religioso. Qual è il motivo di questa particolare attenzione?
R.:
Nell’epoca della mia giovinezza si poteva scegliere se trascorrere il tempo libero in un partito o in un oratorio. Io optai per la seconda ipotesi un po’ per una questione culturale ma anche perché avevo bisogno di risposte a certe domande esistenziali che presto o tardi tutti ci poniamo.
In quell’ambito ebbi anche la possibilità di dare sfogo alla mia creatività sia in campo teatrale, dove espressi con carattere il mio pensiero già critico, ché in quello grafico firmando, ad esempio, i manifesti per l’inaugurazione della chiesa di Santa Maria degli Angeli a Nardò.
D.:
Quali sono state le persone che ti hanno indirizzato lungo il percorso artistico e professionale?
R.:
Tra i primi nomi che mi vengono in mente, in ordine cronologico, ricordo il professore Giovanni Dell’Anna che, dopo aver visitato la biennale di Venezia, mi spinse a intraprendere la Pop Art come esercizio stilistico.
Devo molto, e in maniera diversa, anche a Giorgio Chierici, titolare della prestigiosa galleria “La Scaletta”, il quale lo conobbi all’Expo Arte e che mi presentò all’illustre critico Enrico Crispolti.
Queste sono solo alcune delle persone che notandomi hanno contribuito al mio successo ma l’elenco è davvero lungo.
D.:
È un caso che ti sia ritrovato a incontrare sempre le persone giuste al momento giusto?
R.:
Le cose accadono, ma bisogna prima di tutto volerle e perseguirle con costanza e abnegazione perché poi la bravura, specie nell’arte, la si riconosce subito, e lo dico da insegnante che è stato prima alunno. Inoltre non nascondo anche una buona dose di fortuna storica se a visitare la mostra dove io esponevo si sia trovato il gallerista o il critico giusto col quale intavolare un serio discorso.
D.:
Esiste ancora il rapporto tra Galleria e artista?
R.:
Le Gallerie, fino agli anni ’60 e ’70 avevano motivo di esistere perché vi erano ancora molti committenti in un circuito di frequentatori abituali e compratori assidui, oltre che esperti conoscitori del prodotto. Oggi quella fetta di mercato si è estinta quasi completamente e la maggior parte delle pinacoteche sopravvissute si sono convertite in associazioni culturali.
Eppure sarebbe bene che ci fossero ancora “mecenati” del calibro di Leo Castelli o Carlo Cardazzo, quelli che finanziavano le arti e facevano emergere i giovani talenti.
D.:
Credi che insegnare arte possa essere utile a uno sviluppo positivo della società?
R.:
L’arte educa, di questo ne sono convito. E, se praticata con passione, nelle scuole elementari e medie ha una valenza ancora più incisiva per il sano sviluppo dell’individuo. Ho insegnato in città degradate, con un altissimo livello di criminalità, tanto da vedermi puntare pistole contro, ma ho creduto nel potere del disegno sino in fondo. Riuscivo a comprendere la soggettività e i turbamenti dei miei alunni anche solo analizzando il loro segno calligrafico. Con l’ausilio dei mezzi più disparati, dalla videoproiezione alla fotografia, ho sottoposto l’arte a ragazzi disabili con risultati che personalmente ritengo molto appaganti. Per affrontare i casi più gravi mi sono documentato riguardo patologie complesse come la schizofrenia, al fine di essere all’altezza di un confronto con qualsiasi tipo di personalità; nel loro insieme ritengo tutte queste esperienze la mia più importante formazione.
D.:
In un mondo che pare sempre più indirizzato verso la digitalizzazione e la grafica informatizzata, che ruolo ricoprono le tecniche artistiche classiche?
R.:
Mi rendo conto che l’era digitale ha una sua funzione all’interno dell’epoca che stiamo attraversando ma bisogna capire cosa vogliamo farci. Renato Barilli una volta mi disse: “Gli artisti dovrebbero essere prima di tutto dei decoratori”. E la decorazione si esprime differentemente a seconda del luogo geografico nel quale viene realizzata: in Oriente, ad esempio, è solo modulo mentre da noi è rappresentazione visiva. Continuo citando anche Giulio Carlo Argan che osservava: “Quando si produce un’opera d’arte, per forza di cose, bisogna utilizzare degli strumenti”. Oggi ogni individuo – dotato di una certa sensibilità – può espletare la funzione espressiva con svariati mezzi ma ognuno di essi, a seconda di come viene utilizzato, modifica il senso dell’opera. Il computer può sembrarci una novità assoluta, una scorciatoia nel campo della manipolazione visiva, ma proviamo a immaginare Leonardo oppure Canaletto che già oltre cinquecento anni addietro, con le loro scarse possibilità, utilizzavano la camera ottica per imprigionare un’immagine e mantenerla ferma su un supporto, ciascuno di essi per i propri scopi scientifici o artistici.
Sto pensando naturalmente anche alla macchina fotografica analogica, la quale ha assolto la stessa funzione per decenni, lasciando all’artista la padronanza del poter definire i parametri con cui impressionare la pellicola. Per me la fotografia deve essere la sintesi di un fenomeno di istanti.
L’assenza di conoscenza ci sta inducendo a credere che tutte queste facilitazioni tecnologiche contemporanee siano anche delle novità scientifiche, ma ricordiamo che i neo-impressionisti avevano compreso, sul finire dell’ottocento, il senso del condizionamento del colore tramite il puntinismo. Quel fenomeno oggi, forse con superficialità, lo chiamiamo pixel e altro non è che una sintesi matematica di quel concetto.
D.:
Cosa rappresenta per te l’incisione?
R.:
L’incisione è la più antica forma d’arte conosciuta e i cavernicoli, in questo caso, sono i responsabili di un’operazione importantissima: hanno eternizzato la loro memoria. Molti artisti sono costretti ad affidarsi agli incisori mentre io, che conosco la tecnica, concepisco il segno in funzione dell’incisione. È un grande privilegio.
D.:
Possiamo includere le tue opere in uno stile surrealista?
R.:
Non esattamente. Come sappiamo c’è un surrealismo poetico e un surrealismo onirico, però, secondo me, visto che io guardo un insieme di cose, dalla Poesia Visiva alla natura, attraversando il disegno puro, passando per la fotografia e non ultima la criptoscrittura, direi con cognizione di causa che il mio stile è un insieme di linguaggi in cui il surrealismo occupa solo una parte. Forse, in qualche modo, anche le mie origini ma comunque diametralmente opposto al surrealismo di Dalì. Il surrealismo che accetto di buon grado è quello di Mirò o meglio ancora quello di Chagall perché ha preso alcuni aspetti del Cubismo e del Surrealismo e ne ha ricavato una fiaba. Ecco, la fiaba la vedo più consona al mio modo di comunicare. Per questo motivo io amo ripetere la formula de “Il profumo del tempo” e il profumo in fondo cos’è? Lo avverti, lo tieni dentro, non lo puoi toccare e lo esprimi con un esempio naturale citando un fiore, la brina, la terra ma resta comunque solo tuo.
D.:
Cosa rispondi a chi sostiene che ci siano delle influenze di Chagall nelle tue opere?
R.:
Quella è una storia divertente perché quando mi dissero per la prima volta che i miei lavori ricordavano i suoi quadri, io nemmeno sapevo chi fosse Marc Chagall e mi offesi quando Antonio Passa, Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Roma, mi suggerì di fare da assistente al pittore ebreo. Allora, forse per reazione, mi misi in testa che avrei dovuto preparare la tesi di laura proprio su di lui e da quel momento mi imbarcai in una ricerca estenuante fatta persino su testi russi e inglesi, in lingua originale, tradotti da amici. Oggi è certamente uno dei miei artisti preferiti.
D.:
In che cosa consiste la tua Poesia Visiva?
R.:
Quando io parlo di Poesia Visiva intendo un prodotto dalle origini antichissime, nel quale si integrano e avvicendano sinergicamente la scrittura e l’immagine, concepito per raccontare delle storie che fanno parte della cultura di un popolo, sia religiosa ché contadina. Nell’affrontare questo filone traggo molto dalla superstizione arcaica che si mescola col mistico: penso al mito della Taranta e al cosiddetto “Munaceddhu” che sono simboli del Diavolo, e persino agli angeli. Queste ultime sono figure che sento presenti, anche per vicende intime che appartengono alla mia famiglia, ma la cui effettiva esistenza viene messa in discussione finanche all’interno della Chiesa stessa. Pure per questo sono fortemente legato alla figura di Giotto e in particolare al suo ciclo pittorico delle Storie di san Francesco, per quella trasposizione di eventi che la grafica rende eterni.
Io, non a caso, appartengo alla generazione che ha trascorso la propria infanzia ascoltando le leggende che venivano tramandate dai nonni ai nipoti, tutti seduti intorno al fuoco.
D.:
Pensi che l’uomo tragga vantaggio dalla storia?
R.:
Purtroppo l’uomo cerca di percorrere sempre le strade più semplici, anche e soprattutto per la propria sussistenza. Ma io credo che le cose facili ti distruggono.