di Eliana Forcignanò
Edito per i tipi di Spagine “Anita, detta Nnita”, narrazioni e note dal Salento
Può nascere dalla fantasia o dall’osservare il racconto, talvolta da entrambi: uno scrittore non è soltanto l’artefice di un’architettura narrativa ben riuscita, bensì è anche e soprattutto colui che esercita lo sguardo fuori e dentro di sé, perché fuori e dentro – come già sosteneva Spinoza – sono l’eco l’uno dell’altro e la realtà è fitta di rimandi al mondo interiore, così come l’interiorità è sempre influenzata da ciò che accade sotto i nostri occhi. L’occhio. E la penna o, per i postmoderni, la tastiera di un computer, il foglio digitale che, tuttavia, suscita lo stesso panico da cominciamento di quello cartaceo. Perché l’esordio della scrittura non è mai impresa facile, soprattutto se questa scrittura parla di noi.
Il nuovo lavoro di Rocco Boccadamo, Anita, detta Nnita. Lettere ai giornali e appunti di viaggi (Spagine Edizioni, 2015), parla di noi. Già Compare, mi vendi una scarpa? rappresenta un approdo significativo per questo narratore di un Salento a tratti manzoniano in cui gli umili, con le loro vicissitudini e con gli stenti quotidiani, esprimono un’umanità fiera e – può sembrare un ossimoro – persino ludica nella dimensione di creatività e dignità che Quintiliano attribuiva al gioco. Ora, con questo volume, Boccadamo torna nei suoi luoghi fisici e mnestici recando con sé una denuncia velata di sottile ironia. Vi torna con sincera partecipazione emotiva nei confronti di chi ha subìto le vessazioni di un progresso sovente cieco e sordo alle esigenze dell’individuo e della collettività. Tuttavia, il progresso non si governa da solo: a guida della potente macchina ci sono uomini che fagocitano altri uomini: lo ha espresso bene Steinbeck in quel bellissimo romanzo che è Furore in cui si racconta l’esodo di una famiglia di agricoltori del Midwest verso la California. A questi poveri agricoltori il progresso aveva espropriato la terra; beneamato progresso che, dalle nostre parti, anni dopo, avrebbe portato la centrale di Cerano riducendo in ginocchio le colture tradizionali e seminando povertà fra i contadini. La Storia – come osservava Vico e come Boccadamo non manca di annotare – è fatta di corsi e ricorsi. Che cosa accomuna la famiglia rurale di Steinbeck agli agricoltori delle nostre parti? Probabilmente, quel caparbio spirito contadino, quel legame con la terra che mandò a morte anche i kulaki nell’epoca staliniana e che si può riassumere nel motto “Mai chinare la testa!”. Le terre limitrofe a Cerano, ove crescevano succose angurie, hanno sofferto l’inquinamento senza che la questione toccasse le alte sfere, eppure i contadini non si arrendevano e continuavano imperterriti nel loro lavoro sospeso fra bisogno e desiderio, pur sapendo che tanta ostinazione avrebbe potuto ridurli alla fame. L’immagine di questi uomini piegati sui campi è traslata da Boccadamo nella splendida metafora dei due cavalli da tiro che, maestosi, trainano l’aratro nella consapevolezza esiodea che le stagioni si succederanno sempre e tale regolarità – la regolarità del clima anch’essa purtroppo in via d’essere irrimediabilmente alterata – infonde negli esseri una certa speranza. O, almeno, la infondeva.
Il ricordo di Boccadamo corre da Cerano alla sua Marittima: anche qui, la terra ha mutato il suo aspetto e la sua produttività, ma c’è ancora chi raccoglie le olive, chi ne sa aspettare pazientemente la maturazione e crede che quell’olio – sacro alle antiche divinità e oggi, ancora una volta, posto in discussione – costituisca un inarrivabile punto di forza per il Salento. Così i “minuscoli frutti ovali tra il verde e il viola” si alleano con quelli “rossi e dolcissimi” per dipingere di colori e sapori (il sapere – tutto il sapere e non solo quello contadino – non è forse un sapore?) un racconto che, prendendo le mosse dal singolo personaggio, giunge a diventare resoconto corale.
Si potrebbe affermare senza timore di cadere in errore che, quando Boccadamo scrive, non ha in mente una visione meramente maschile del Salento: contadini erano uomini e donne e, se non bastasse questa evidenza, il titolo del libro chiude definitivamente le porte all’idea che il Salento sia esistito e sia oggi narrato soprattutto quale “terra di maschi”. Senza dubbio, vi sono molti modi di raccontare la femminilità e Boccadamo, lungi dal vestire i panni di uno stilnovista che angelica la creatura femminile o di un misogino che la relega alla mera funzione riproduttiva, delinea con delicata giovialità il ritratto di Anita, ragazza dai “prorompenti seni” che non aveva voluto saperne di andare a scuola e aveva suscitato amori folli in paese non solo per la sua avvenenza, bensì anche per l’acume e la sagacia. Anita – oggi, simpatica nonna ultraottantenne – nelle ore di scuola forava i lobi delle orecchie alle compagne per far posto agli orecchini e, appena adolescente, non aveva esitato a dimostrare un temperamento risoluto, rifiutando il suo primo fidanzatino che già la corteggiava ufficialmente. Anita, operaia in un tabacchificio; Anita che aveva ricevuto il suo primo bacio a diciassette anni in una casa invasa dal tufo e ne era rimasta spiacevolmente sorpresa, perché non era quello il modo in cui lei lo aveva immaginato. Colpisce, nella narrazione di Boccadamo, la capacità di affrescare i suoi personaggi di là da sterili retoriche e luoghi comuni. È evidente che, in quanto donna, la libertà di Anita fosse limitata ed è evidente che, in paese, non corressero su di lei voci particolarmente benevole, soprattutto dopo il bacio furtivo, eppure non è questo che interessa all’autore. Il fine da raggiungere sembra, invece, quello di tratteggiare un’individualità che agisce in un contesto determinato. Perché solo dal racconto dell’individualità può nascere il corale: non si è mai vista una tragedia in cui vi sia soltanto il coro né il Verga o Silone si sarebbero mai sognati di scrivere i loro capolavori senza ‘Ntoni e Berardo Viola. È la differenza che pone in luce il contesto. Si tratta di una differenza intrinseca non solo nei soggetti, ma anche negli oggetti, nelle cose che ci circondano e nei confronti delle quali Boccadamo lamenta la discuria: è il caso di quell’edificio di Castro che ospitava gli orfanelli e che viene ridipinto con un giallo “sparato” che ne deturpa l’intero prospetto. Per quale ragione – si potrebbe obiettare – scrivere di un edificio pubblico che è uno dei tanti? In fondo, sono numerosi gli esempi di cattivo gusto – o semplice noncuranza – da parte delle amministrazioni locali, tuttavia è proprio dello scrittore – più in generale dell’artista – quel senso estetico che Boccadamo definisce “senso dell’armonia” cui non mancano sollecitazioni positive e, più spesso, negative. Se tutti tacessero – sembra dire tra le righe Boccadamo – il brutto diverrebbe ordinario. A questo proposito, è opportuno precisare che questo libro non è una raccolta di racconti: accanto agli spaccati di vita che, in breve, si è tentato di delineare, compaiono lettere e articoli cui, però, non si trascura mai di conferire una dimensione vissuta e passionale, la medesima dimensione che percorre l’intero volume e lo rende non solo godibile, ma anche commovente, se per “commozione” intendiamo non la romanticheggiante lacrimuccia, ma un vero moto alla riflessione e, possibilmente, all’acquisizione di consapevolezza.