di Enzo Pagliara
Ero giù di morale da alcuni mesi, nel 1986/7, perché in famiglia aveva fatto irruzione la malattia grave e poi si era presentata anche la morte e mi avevano colto impreparato – non si è mai preparati a simili eventi! – ad affrontare tale grande tristezza.
Tra il preoccupato e l’irritato, mia moglie, emotivamente meno coinvolta, mi suggerì una possibile via d’uscita, da percorrere gradualmente e compatibilmente con il mio lavoro professionale: quella di frequentare, possibilmente a Lecce, la bottega di un cartapestaio di buona fama e livello artistico.
Bussai alla porta del laboratorio di Antonio Malecore, quello che tutti mi avevano accreditato come il Maestro per eccellenza, ormai da decenni.
Era ubicato in Piazzetta Panzera/via degli Alami, nel cuore della vecchia Lecce, a ridosso di Santa Irene. Attraverso un archetto secentesco, si accedeva ad un piccolo atrio scoperto, e da qui ad una “infilata” di stanzoni, il primo adibito a veloce vetrina delle opere appena completate, il secondo alquanto buio a inquietante sala d’attesa per le statue in procinto di restauro, il terzo, impregnato di odore di abbrustolito, era il laboratorio vero e proprio, perché più illuminato direttamente dalla luce naturale. E poi una serie di sgabuzzini e di bugigattoli dove c’era di tutto: calchi, bozzetti, vecchie teste di santi, arti “mozzati”, un vero bric à brac di oggetti antichissimi o moderni, tutti aventi a che fare con la gloriosa arte che in quell’officina diventava oggetto concreto da ammirare.
Il Maestro, allora nella maturità dei suoi sessant’anni, così come aveva sempre fatto con decine e decine di “aspiranti” cartapestai, mi accolse e alla prima occasione mi disse: “mi chiamo Antonio”, io gli risposi “grazie, ma ti chiamerò sempre maestro”; mi sembrava irriverente non farlo. In quella sua battuta si chiariva la persona di Antonio Malecore: si sentiva maestro, con un pizzico di orgoglio, per le cose che faceva e per come le faceva, ma sollecitava rapporti paritari con coloro che frequentavano la sua bottega per ammirare e per apprendere. Non era geloso di alcun segreto professionale, “tantu, finchè ‘rrevati allu livellu meu, jeu aggiu muertu…”, non temeva alcuna concorrenza, anzi oggi, lui felicemente vivo ed ancora in opera, ne ha riconosciuto l’eredità artistica al bravo Antonio Papa di Surano.
Frequentai la sua bottega per un paio d’anni: appresi, guardando, tanto, ma evidentemente non tutto, del necessario per avviare la propria esperienza, il resto doveva compiersi sporcandosi le mani con la creta, la pònnola, la carta intrisa, lo stucco, ecc. ecc… Paola Malecore, la nipote, esperta, umile e garbata sua collaboratrice, mi insegnò a “informare” e sformare dai calchi e mi diede suggerimenti e consigli senza tediare il maestro che, quando era all’opera, era come trasportato in un intimo colloquio con la creatura che usciva dalle sue mani.
La fase di più profonda “immersione” era per lui soprattutto la vestizione, ma anche la coloritura della statua: dopo un canovaccio di colore, vi ritornava più volte e sugli incarnati stendeva decine di impercettibili velature cromatiche per giungere all’effetto veristico delle sembianze umane.
Le sue Madonne e le Sante, diceva, “devono essere dolcissime, ma non bambole sdolcinate”; i suoi Cristi e i Santi “sereni, rassicuranti ma maschi”. Quello era il periodo in cui, innamorato della semplicità della statuaria lignea di Ortisei, ne traeva spunto nella postura e nella coloritura delle sue statue; negli ultimi decenni, invece, è tornato a strutture e decori più tradizionali nella cartapesta leccese. E’ anche vero, però, che i Malecore, nelle loro tre generazioni artistiche, hanno sempre manifestato uno stile essenziale nei panneggi e sobrio nei decori, al contrario di altre botteghe loro contemporanee che hanno ricalcato esempi barocchi o baroccheggianti.
Molto ancora si potrebbe dire ma la saggezza latina insegna: “ multa parvis, pauca magnis…”
(tratto da “Novalba”, periodico edito in Parabita, 2012)