di Pier Paolo Tarsi
Quando ero piccolo andavo ripetendo che da grande avrei fatto il “dottore degli animali” (veterinario era parola impronunciabile per me), andavo pure collezionando album di figurine del WWF (e non di calciatori) e riviste sugli animali. Il primo libro che mi feci deliberatamente comprare si intitolava “L’enciclopedia del cane”, dovrei ancora conservarlo da qualche parte. Un librone che mi feci mandare per corrispondenza tramite una cartolina preaffrancata che avevo trovato su qualche settimanale che circolava per casa, un acquisto che fu peraltro l’innesco di un invio continuo mensile di libri non richiesti, protrattosi per anni nonostante le disdette, insomma l’inizio di un incubo per tutta la famiglia che si chiamava “Club degli Editori” o qualcosa del genere. Questa però è un’altra storia, che interrompiamo subito. Tra i pochi oggetti del desiderio di un futuro “dottore di animali” c’era anche un grande acquario per i pesci. Andavo continuamente ripetendo a cinque anni o giù di là che ne volevo assolutamente uno. Ebbene, qualcuno se ne ricordò a dir poco tardivamente il giorno del mio diciottesimo compleanno, quando un imponente acquario mi venne regalato, seppur ai miei occhi una cosa del genere era ormai poco più di un ingombro di cui non avrei saputo proprio che fare. Ad ogni modo onorai quel regalo fingendo di apprezzarlo come avrebbe fatto quel bambino che ero stato; comprai, seppur senza convinzione e voglia, una colonia variegata di pesci di ogni tipo e provenienza, delle piante acquatiche e qualche sasso con cui arredare il mio acquario. Sistemai il tutto lungo una parete di quello che era il mio studiolo, proprio di fronte alla scrivania dove da lì a poco avrei iniziato a studiare filosofia. È così che nella mia vita entrò Pallo. Pallo è il nome che quel pesce non ebbe mai da vivo e che gli ho dato ora, mentre scrivo, un po’ come comodo espediente narrativo, un po’ come riconoscimento postumo. Tra i ricercati, raffinati, coloratissimi e costosi pesci esotici che avevo acquistato per riempire di vita quell’acquario, Pallo era invece l’unico esemplare del più comune, umile e banale essere acquatico che potesse esserci in commercio, cioè l’unico pesciolino rosso. Ma non solo: Pallo divenne molto presto anche l’unico superstite di quella colonia di pesci, tutti morti nel giro di una sola settimana dall’acquisto, tutti tranne lui! Dall’ottavo giorno, dopo la suddetta moria, iniziai a entrare in quello studiolo con una speranza che non osavo all’inizio confessare nemmeno a me stesso, per un certo senso di colpa che ne scaturiva: la mia giornata di studio iniziava cioè con l’attesa di veder galleggiare Pallo privo di vita come tutti i compagni che lo avevano preceduto e potermi così liberare senza macchia di quell’acquario, rivendendolo in fretta. Un’attesa però puntualmente tradita: ogni mattina Pallo era là, testardamente attaccato alla vita, alla quale si tenne aggrappato a lungo! Intendiamoci, non che avessi nulla contro il povero Pallo, semplicemente mi inquietava il suo andare avanti e indietro dentro quelle pareti di vetro col suo sguardo fisso sempre addosso a me, seduto là di fronte a lui, piegato sui libri e costretto a star così per non vederlo. Nei riflessi della prigione d’acqua di Pallo iniziai infatti a vedere molto presto la mia miseria da studente, costretto a stare in quei tre metri quadrati di puzzo di fumo e poca luce tutto il santo giorno. Ma non era solo per questo che la sua presenza mi inquietava, c’era molto di più; il suo vano passaggio che non avrebbe mai condotto ad alcuna meta giunse infatti molto presto a valere per me come una denuncia incontestabile della condizione di ogni essere, me compreso: un affannarsi senza senso e senza uno scopo ultimo e definitivo, un girovagare inutile interrotto solo qua e là da momenti di gioia passeggera. Per Pallo quei momenti consistevano in qualche manciata di mangime che ogni tanto mi alzavo a gettargli. Io ero un po’ la sua sorte benevola che ogni tanto si affacciava a gettare il pizzicotto di manna, ed anche questo mio ruolo non voluto mi inquietava, un’attribuzione non richiesta della parte del dio provvidenziale che mi pesava non poco. Se riuscivo a sopravvivere al passaggio nelle pagine di Pascal, di Nietzsche, se riuscivo a non soccombere al pessimismo di un Leopardi o di uno Schopenhauer o all’angoscia di un Kierkegaard, al nichilismo di questo o quell’altro, la visione di Pallo non mi dava invece alcuno scampo. Qualunque espediente intellettuale cui ricorressi per non annegare nel non-senso del vivere che quelle grandi menti con lucidità denunciavano negli scritti che dovevo per forza studiare, nulla poteva invece contro l’inconfutabile argomento che Pallo mi sbatteva in faccia col suo semplice e inconsapevole galleggiare di qua e di là. Mi bastava alzare gli occhi e incontrare il suo sguardo fisso, nudo e crudo come l’amara e spietata verità che rispecchiava, per rinunciare a qualunque lotta e arrendermi all’accettazione, all’infrangersi di ogni mio moto di negazione e ribellione. Vi domandate, immagino, quando sia morto Pallo? Ebbene, Pallo stava là, implacabile e indifferente, il giorno in cui mi laureavo, e là stava ancora mentre accumulavo titoli post-laurea e altre stupidaggini: fu l’ombra di un percorso di studio durato molti anni, e mi lasciò infine soltanto quando insegnare iniziava a divenire il mio compito, quando soprattutto la lezione della sua ombra era divenuta per me serena premessa del buon vivere. Caro maestro terribile che galleggi chissà dove, coi tuoi occhi che scrutavano senza turbamento o un batter di ciglio una verità che ha fatto invece tremare, impazzire e disperare i migliori tra noi uomini, accetta questo mio tardivo riconoscimento, e perdonami se finora non ho avuto l’intelligenza di tributarti l’onore del nome, quello di Pallo, il vero filosofo la cui ombra inquietante mi ha guidato.