di Marcello Gaballo
Nel 1271 i francescani di Nardò avevano avuto in dono dal re Carlo I d’ Angiò, tramite il suo parente Filippo de Toucy, reggente della città, l’ antico e rovinato castello (castrum temporum & bellorum iniuria destructum), ubicato nel punto più alto della città, per farne un loro convento[1].
Il complesso è nelle vicinanze della cattedrale neritina, identificabile con l’attuale palazzo Castaldo, già Del Prete-Giannelli, a ridosso della chiesa dell’ Immacolata e dell’ Ufficio Postale.
Da quell’anno e per i tre secoli successivi le notizie sull’ordine minoritico in città e sulla loro chiesa sono assai frammentarie. Recenti rinvenimenti di rogiti notarili cinquecenteschi hanno chiarito aspetti sino a qualche decennio fa del tutto oscuri.
La nostra chiesa da svariati Autori è stata sempre attribuita al celebre Giovanni Maria Tarantino, lo stesso delle chiese neritine dell’ Incoronata, S. Domenico e S. Maria della Rosa.
Poco noti sono invece gli interventi di altri fabricatores experti neritini, altrettanto abili, che sul finire del 500 dettero a Nardò l’impronta che in parte ancora possiamo vedere e che ci sembrano meritevoli di accurato studio, in ciò confortati dalla scoperta dei documenti nell’ Archivio di Stato di Lecce, che ci consentono di collocarli, al pari del più noto Tarantino, fra i grandi della storia dell’architettura salentina del XVI-XVII secolo.
Angelo e suo figlio Vincenzo Spalletta, Tommaso Riccio, Donato, Marco Antonio ed Allegranzio Bruno, Francesco delle Verde, sono tra quelli che prestarono la loro opera per realizzare il complesso di cui scriviamo, oltre al menzionato Tarantino, che però in questo caso si limitò a ricostruire il solo chiostro (ancora esistente e adiacente la chiesa, non visitabile).
È doveroso riconoscere al prof. Giovanni Cosi il merito di aver dato per primo alla luce alcuni dei capitolati di appalto per la costruzione del nostro complesso, realizzato in più riprese in circa 20 anni, a partire dal 1577.
Altri contributi sono stati pubblicati negli scorsi anni dagli architetti Mario Cazzato, Laura Floro, Giancarlo De Pascalis, contribuendo così a delineare, con gli ultimi miei rinvenimenti, una microstoria che oggi possiamo ritenere pressocchè definita.
Occorreranno certamente altri studi ed approfondimenti, che si auspicano numerosi, per riscrivere pagine di storia della nostra città, fra le più operose di Terra d’ Otranto, almeno nei tempi passati e, lo speriamo, nel futuro.
Il primo atto notarile sul convento è del 1577, quando i frati danno incarico ai mastri Donato e Allegranzio Bruno, Tommaso Riccio e Angelo Spalletta, affinché realizzino parte della chiesa di S. Francesco (che fu dedicata all’ Immacolata solo nel XIX secolo!).
L’ anno successivo, 1578, dei predetti si ritrovano esecutori dei lavori soltanto Angelo Spalletta e Tommaso Riccio, i quali tutta predetta frabica fino al presente giorno l’ hanno fatta tutti dui essi mastro Jo. Thomasi et mastro Angelo. Ma, per motivi non dichiarati, dopo qualche mese, viene sciolta la società e si conviene con concordia et transazione, che esso m.tro Jo. Thomasi cede et renuntia come già hoggi avanti di noi cede et renuntia a detto m.tro Angelo presente la p.tta frabica di detta ecclesia di S. Francesco.
Probabilmente c’è un fermo dei lavori a causa della mancanza di fondi e solo il 15 giugno 1587, con atto del notaio Tollemeto, viene stipulata una convenzione tra i frati, rappresentati dal guardiano Donato Tabba e dal vicario Angelo Assanti, ed Angelo Spalletta. Quest’ultimo, con i mastri Allegranzio Bruno, Giovanni Maria Tarantino, Giovanni Tommaso Riccio e Giovan Francesco delle Verde, realizzerà quattro claustri (super fabrica facienda quator claustrorum). Più in dettaglio il rogito riporta:
I detti mastri siano obligati scarrare à loro dispese lo claustro fatto vecchio, cortina de la cisterna et quanto sarà di bisogno, per la quale scarratura, succedendo rovina al convento, sia à danno et interesse di detti mastri, et la terra de la scarratura et cavatuira di pedamenta detti mastri siano anche obligati portarla fora al giardino di detto convento a loro spese;
item detti mastri saranno anche obligati fare detti claustri con cinque arcate per claustro à colonne con vintiquattro lamie di spicolo;
item saranno anche obligati detti mastri fare di novo la porta di battere di detto convento di carparo bastonata, con una loggia à lamia di palmi sidici di larghezza e vinti longa.
Mentre i frati provvederanno alla calce – continua l’atto – ai mastri spetterà fornire le pietre, che nel caso delle terrazze, capitelli e cornici delle colonne saranno della tagliata di Santo Georgio. Le pietre della facciata della chiesa del convento et li pezzi delle colonne siano di la tagliata di Pergolati (Pergoleto, Galatone), de la petra forte et negra.
La somma pattuita è di 400 ducati, di cui 20 dati come acconto[2].
Ma anche questa volta il contratto fu sciolto, per cause imprecisate, perchè l’anno dopo, a proseguire e completare i lavori si ritrova ancora Angelo Spalletta, consociato però con il congiunto Vincenzo, oltre a Sansone ed Ercole Pugliese, magistri fabricatores dicte civitatis Neritoni.
Nella convenzione si stabilisce che essi realizzeranno per la fabricam faciendam in aedificandis et construendis: crocera, cubula (cupola), sacrario (sacrestia) et campanile in ecclesia conventus[i][3]. Il capitolato, alquanto articolato e assai interessante, lo riporto in successivo contributo.
Due cartigli sulla facciata riportano a sinistra le cifre “S.T.” e a destra “S.B.”; si potrebbe ipotizzare che queste siano le firme dei mastri realizzatori (Spalletta-Tarantino; Spalletta Bruno?). Al centro ancora un cartiglio sembra riporti 1580 o forse 1589, più consono con le vicende della fabbrica, come è riportato nei documenti che si allegano.
Nel 1598 ancora un contratto (che si allega nell’altro post) documenta lavori da ultimarsi: il campanile, la sacrestia, parte delle volte. Sulla conduzione del convento e sulle vicende architettoniche successive si conosce ben poco. Nel 1783 comunque dimoravano in esso undici Minori Conventuali: sei sacerdoti e cinque conversi.
Nel primo decennio del XIX secolo, a causa della soppressione di molti ordini, il nostro fu requisito dal governo e venduto a Marcello Giannelli, che ne fece la propria abitazione.
La chiesa rimase chiusa ed abbandonata, riducendosi in pessime condizioni statiche. A causa del crollo della tettoia, il vescovo Luigi Vetta, verso il 1850, fece realizzare la volta in muratura e la risistemò dedicandola alla Vergine Immacolata, gestita dalla confraternita omonima.
L’attuale chiesa, pesantemente riammodernata sotto il rettorato di Aldo Garzia, poi vescovo, risulta alta ed ampia, di forma rettangolare, con sette altari, il maggiore, tre a destra e tre a sinistra, collocati sotto arcate o cappellette.
Del primitivo altare maggiore, maestoso e in marmi policromi, poi barbaramente scomposto in più parti negli anni 70 del secolo scorso, sopravvivono due colonne con capitelli. Su una di esse, che sostiene il Vangelo, è scolpito lo stemma della famiglia Personè, probabile finanziatrice dell’opera. La balaustra, anch’essa rimossa e scomposta, è conservata nella sacrestia; niente sopravvive del pergamo e del coro ligneo dei frati, collocato un tempo dietro l’altare maggiore.
Entrati nel sacro edificio il primo altare di destra (della metà del Settecento)è dedicato a S. Giuseppe da Copertino, con una tela del titolare. Nella chiesa il santo ebbe un’estasi durante le Quarantore del SS.mo Sacramento, elevandosi sino all’altezza dell’ostensorio contenente l’Eucaristia e, nonostante le numerose candele accese, sostò tra le stesse in adorazione per qualche tempo[4]. L’ovale in alto riproduce la Visita della Madonna a S. Elisabetta.
Il secondo altare in origine era dedicato alla Presentazione di Maria al Tempio, la cui tela fu sostituita da un quadro in cartapesta a rilievo, coperto da vetro, raffigurante Santa Rita da Cascia[5].
Era privilegiato e in alto ospitava il dipinto di San Giovanni da Capestrano.
Il terzo altare era dedicato all’Assunzione di Maria, raffigurata nella tela; l’altro dipinto raffigura S. Biagio, commissionato dai baroni Sambiasi, che qui avevano diritto di sepoltura, come confermano l’epigrafe e lo stemma posti ai lati dell’altare.
Sul lato sinistro il primo altare, anche questo settecentesco, era dedicato alla Purificazione di Maria, come conferma la tela in alto. Un secondo dipinto si ritiene raffiguri il protettore cittadino, S. Gregorio Armeno; in verità sarei più del parere che si tratti di Simeone. Lo stemma del Vescovo Carafa conferma la datazione più tarda rispetto agli altri altari.
Il secondo era dedicato all’Annunciazione, con la relativa tela e l’altra sulla cimasa raffigurante la Maddalena.
L’ultimo ospita una tela con la Natività di Maria Vergine e in alto una mediocre, più piccola, raffigurante S. Giovanni Battista, forse in sostituzione di una precedente.
Rilevanti nella chiesa la grande tela con l’immagine dell’Immacolata posta frontalmente, sul presbiterio: l’artistico organo seicentesco, collocato su apposito palchetto a ridosso della controfacciata; l’interessante e molto bella statua lignea della Vergine, precariamente collocata a destra del presbiterio.
Per approfondire:
Coco Primaldo, I Francescani nel Salento, Lecce 1916.
Perrone Fr. Benigno, I conventi della Serafica Riforma di S.Nicolò in Puglia (1590-1835), voll.3, Galatina 1981.
Perrone Fr. Benigno, Neofeudalesimo e civiche Università in Terra d’Otranto, voll. 2, Galatina 1980.
Tafuri Giovanbernardino, Dell’ origine, sito e antichità della città di Nardò, in “Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio.Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò”, in A. Calogerà, Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, t. XI, Venezia 1735.
Vetere Benedetto (a cura di), Città e monastero – i segni urbani di Nardò (secc. XI-XV), Galatina 1986.
[1] Wadding Luca, Annales Minorum in quibus res omnes Trium Ordinum a S. Francisco iustitutorum ex fide ponderosius…, II e VIII, 1647: nel 1271 …Neritoni in regno Neapolitano Carolus Andegauensis huius nominis primum utriusque Siciliae Rex concessit in habitaculum Fratibus extruendum regium castrum temporum & bellorum iniuria destructum. Donationis instrumentum ipso rege praesente factum, apparet in vetusta membrana. Recensetur hic conventus sub Provincia S. Nicolai, & custodia Brundisina Patrum Conventualium.
[2] Per questo ed altri lavori del convento v. pure G. COSI, Il notaio e la pandetta, Microstoria salentina attraverso gli atti notarili (secc. XVI-XVII), a c. di M. Cazzato, Galatina 1992, pp. 72,75.
[3] Rimando al mio articolo La chiesa dell’Immacolata e il convento dei Francescani, identificati gli autori del complesso cinquecentesco, in “Portadimare”, dic. 1998, p. 3; L. Floro, La cinquecentesca chiesa di S.M. Immacolata, in “La Voce del Sud”, 22/11/1997; G. COSI, Spigolature su Nardò. Come venne su la chiesa di S. Francesco, in “Voce del Sud”, Lecce 14/11/1981; G. COSI, Spigolature su Nardò. Giovanni Maria Tarantino e il convento di S. Francesco, in “Voce del Sud”, Lecce 6/3/1982.
[4] E. Mazzarella, Nardò Sacra.
[5] Nel 1952 nella chiesa è stata istituita la Pia Unione di S. Rita da Cascia, che ancora attende alla cura ed al decoro del sacro luogo, alle funzioni liturgiche ed alla diffusione del culto e delle virtù della Santa.