Piccoli e semplici gesti… grandi e genuini ricordi… ed è festa!
Le pèttuli, il sapore della mia terra
di Daniela Lucaselli
Il 22 novembre ricorre, nell’anno liturgico, una delle feste più popolari della tradizione, santa Cecilia. Per Taranto e i tarantini è un giorno speciale in quanto questa ricorrenza segna l’inizio dell’Avvento, l’alba dei festeggiamenti natalizi, in netto anticipo rispetto a tutti gli altri paesi in cui si respira aria di festa solo dall’Immacolata o da Santa Lucia.
Il perpetuarsi di antiche usanze rende vivo il legame col passato e, nel caso specifico, le festività natalizie si arricchiscono di un profondo significato, che supera le barriere dello sfrenato consumismo di una società che sembra non credere più negli antichi valori.
Una magica atmosfera avvolge, in una suggestiva sinergia musicale, le tradizioni sia religiose che pagane. Non è ancora l’alba quando, per le strada di Taranto, si ode, da tempi ormai remoti, la Pastorale natalizia. Ed è così che nasce questa tradizione. Le bande musicali locali, in particolare il Complesso Bandistico Lemma, città di Taranto, svegliano gli abitanti dei quartieri della città, diffondendo, nella nebbia mattutina, la soave melodia, per onorare Santa Cecilia, protettrice dei musicisti. I primi ad alzarsi sono i bambini che, incuriositi, corrono vicino ai vetri della finestra che affaccia sulla strada e, con la mano, frettolosamente, puliscono i vetri appannati. Dinanzi ai loro occhi, i musicanti infreddoliti, orgogliosi protagonisti di questo momento, augurano un buon Natale. Si vanno a rinfilare sotto le coperte, al dolce tepore del letto, chiudono gli occhi e continuano ad ascoltare, in un indimenticabile dormiveglia, le note della banda. Rimangono in attesa del momento in cui sentiranno l’odore di olio fritto…
Secondo la tradizione, infatti, le mamme preparano, al passaggio dei suonatori, le pettole. Le famose “pastorali” sono state composte da maestri musicisti tarantini, come Carlo Carducci, Domenico Colucci, Giovanni Ippolito, Giacomo Lacerenza, , che si sono ispirati ad antiche tradizioni, che affondano le loro radici nelle melodie suonate dai pastori d’Abruzzo che, durante la transumanza, scendevano nella nostra terra, con il loro gregge.
Muniti di zampogne, ciaramelle e cornamuse percorrevano i vicoli della città, regalando le loro dolci melodie in cambio di cibo. I tarantini donavano ai pastori delle frittelle di pasta di pane, un prodotto povero e semplice, ma, allo stesso tempo, gustoso e nutriente. Erano le famose pettole.
Un’antica leggenda arricchisce, con la sua narrazione, la nostra tradizione.
Si racconta che il giorno di Santa Cecilia una donna si alzò come di consueto per preparare l’impasto per il pane. Mentre l’impasto lievitava sentì un suono di ciaramelle, si affacciò e vide i zampognari che arrivavano. Come ipnotizzata da quella melodia scese per strada e si mise a seguire i zampognari per i vicoli della città.
Quando tornò a casa si accorse che l’impasto era lievitato troppo e non poteva più essere usato per il pane, e che nel frattempo anche i suoi figli si erano svegliati e reclamavano la loro colazione.
Senza lasciarsi prendere dalla disperazione, la donna mise a scaldare dell’olio e cominciò a friggere dei pezzettini di pasta che nell’olio diventavano palline gonfie e dorate che piacquero molto ai suoi figli, che con la loro tipica curiosità le chiesero: “Mà, come si chiaman’?”- e lei pensando che somigliavano alla focaccia ( in dialetto detta “pitta”) rispose: “pettel'” (ossia piccole focacce).
Non ancora soddisfatti i figli chiesero: “E ‘cce sont?” – e lei vedendo che erano molto soffici rispose: “l’ cuscin’ du Bambinell” (i guanciali di Gesù Bambino).
Quando finì di friggere tutto l’impasto scese per strada coi suoi bambini, felici e satolli, per offrire le pettole ai zampognari che con la melodia delle loro pastorali avevano reso possibile quel miracolo.
In passato, quindi, le donne, per preparare questa “delizia”, usavano “u luat” (piccolo panetto di pasta cresciuta, utilizzata come lievito), si alzavano verso le due di notte per “trumbà” (impastare) la pasta. Di solito le pettole sostituivano il pranzo e la cena e venivano preparate in abbondanza, dato che dovevano sfamare famiglie numerose “cu na morr’ di figghije” (con tanti figli).
L’impasto si preparava int’ u limm’” (grande coppa in terracotta smaltata all’interno) e lo si lasciava lievitare, coprendo il limmu con una “manta” (una coperta) di lana. Lo si riponeva, per facilitare la lievitazione, in un luogo caldo, di solito vicino al camino o vicino “a fracassè” (antica cucina a legna, con caldaia).
Il miracolo continua… ed ecco che il 22 novembre nonne, mamme e zie si svegliano a notte fonda per preparare le pettole, da mangiare all’alba bollenti.
L’impasto è molto simile a quello del pane, ma con dei piccoli segreti. In una coppa la brava massaia setaccia la farina, preferibilmente mista a semola rimacinata, al centro versa un po’ d’acqua tiepida, per agevolare la lievitazione, e il sale, scioglie il lievito di birra e lavora energicamente il composto, aggiungendo acqua fino a quando necessita. Con le mani solleva l’impasto più volte dal fondo della ciotola e lo sbatte in essa, sino ad ottenere un impasto omogeneo, cremoso e fluido. A questo punto lo copre con una coperta di lana e lo lascia riposare, fino a quando raddoppia di volume e, sulla sua superficie, si formano delle bolle d’aria. E’ giunto il momento in cui deve preparare una pentola alta, con abbondante olio di oliva, in quanto le pettole devono friggere galleggiando nell’olio. Quando l’olio comincia a fumare, con le mani bagnate in acqua tiepida (per lavorare l’impasto senza appiccicarsi le mani), prende un po’ di pasta, stringe la mano a pugno tanto da formare una pallina, tra pollice ed indice, da staccare e farla cadere nell’olio.
L’impasto può anche essere preso con un cucchiaio e lasciato cadere nell’olio. Operazione quest’ultima che fa perdere la “poesia” del momento.
Nell’olio la pasta si gonfia, mai una pettola è uguale all’altra, e la fantasia di grandi e piccini si sbizzarrisce nell’individuare la forma più originale o particolare. Quando sono ben dorate, una alla volta, la donna le tira su con la schiumarola e le ripone in una coppa, per essere immediatamente gustate, davanti ai fornelli ancora accesi e alla pentola sfrigolante, da tutta la famiglia. Sò tropp’ cannarut’(sono golosissime) al naturale, o ricoperte di zucchero, di miele, di vincotto, ma anche di sale.
Le pettole si possono gustare anche in versione rustica, semplici o ripiene, e se accettiamo i suggerimenti della nostra fantasia, spesso vengono preparate come antipasto. La versione salata prevede la farcitura: prima di friggerle, si inserisce nel composto di pasta, pezzi di baccalà fritto o lesso, filetti di acciughe salate, cozze crude sgocciolate, pezzetti di parmigiano, broccoletti di cavolo, olive, prosciutto e tutto ciò che ci detta la nostra golosità.
La sera di Santa Cecilia, ogni famiglia tarantina allestisce il presepe e l’ albero di Natale, si organizzano i primi incontri tra parenti ed amici, durante i quali si rispolvera la vecchia tombola.
Questa particolare ed unica tradizione che lega noi tarantini alla Patrona dei musicisti, porta la nostra indagine ad approfondire più da vicino questa figura esemplare nella storia dell’umanità.
Sulla vita della vergine e martire non ci è pervenuta alcuna testimonianza sicura. Il documento cristiano più antico,la Passio Sanctae Cecilia, risale al V secolo, periodo nel quale si diffuse il culto della santa.
Intorno alla sua figura è nata, comunque, una leggendaria storia di vita, che ha ispirato pittori, musici, poeti e la stessa Liturgia. Cecilia appartenne ad una delle più illustri famiglie di Roma e sarebbe stata costretta a sposare un giovane pagano, di nome Valeriano. La sera delle nozze Cecilia dichiarò al marito di aver fatto, davanti a Cristo, voto di castità e lo convinse a purificarsi. Valeriano si recò sulla via Appia e, incontratosi con Papa Urbano I, si fece battezzare. Tornato dalla sua sposa, la vide in compagnia di un angelo, al quale chiese la conversione di suo fratello Tiburzio. I due fratelli iniziarono a diffondere il messaggio evangelico e convertirono al Cristianesimo anche il funzionario romano Massimo. Turzio Almachio, prefetto di Roma, ordinò l’uccisione dei due fratelli ed anche del funzionario romano, seppellito da Cecilia in un sarcofago cristiano. Almachio, per appropriarsi dei beni di Valeriano, cercò di uccidere la giovane romana, gettandola in liquidi bollenti, nelle terme del suo palazzo, ma la santa dal rogo ne uscì incolume. A questo punto il prefetto predispose la decapitazione. Il boia la colpì tre volte ferendola gravemente al collo, ma non riuscì ad ucciderla. Agonizzante, Cecilia sopravvisse tre giorni, durante i quali donò tutti i suoi beni ed averi ai poveri e il suo palazzo in Trastevere alla Chiesa. La Legenda Aurea (cap. CLXIX, Santa Cecilia) narra che Papa Urbano I (222 -230), con l’aiuto dei suoi diaconi, «seppellì il corpo di Cecilia tra quelli dei vescovi e consacrò la sua casa trasformandola in una chiesa, così come gli aveva chiesto». Il Papa, infatti, depose il corpo della vergine, vestito con un abito di broccato d’oro, che indossava nel giorno del martirio, nella tomba posta nelle Catacombe di San Callisto (qui riposano i corpi dei martiri e dei servitori della Chiesa), in un posto d’onore, accanto alla ” Cripta dei Papi “.
Nel secolo VI Cecilia era forse la santa più venerata di Roma. Più tardi, Papa Pasquale I, grande devoto della Santa, restaurò la sua chiesa. Una notte, in sogno, gli comparve una giovane bellissima, che gli disse essere il suo corpo molto vicino alla chiesa restaurata. Fatti degli scavi, venne ritrovato il “corpo” vestito di broccato. Il Papa ne ordinò la traslazione nella cripta della Basilica di Trastevere, a lei dedicata, e i suoi resti furono collocati in un sarcofago di marmo, sotto l’altare della Chiesa.
Nel 1599, durante i lavori di restauro della Basilica, commissionati dal cardinale Paolo Emilio Sfondrati, in occasione del Giubileo del 1600, venne ritrovato un sarcofago, che custodiva il corpo di Cecilia, in uno stato di conservazione eccezionale, avvolto in un abito di seta e d’oro. Il cardinale, allora, commissionò allo scultore Stefano Maderno (1566-1636) una statua in marmo che riproducesse l’aspetto e la posizione del corpo di Cecilia così com’era stato trovato, simulacro che evocasse il valore della verginità e il coraggio del martirio. Da quel momento, come canta un inno, ” il corpo riposa sotto il marmo silenzioso (l’altare centrale della chiesa), mentre in cielo, sul suo trono, l’anima di Cecilia canta la sua gioia e accoglie con benevolenza i nostri voti”.
Dal tardo Medioevo, la Santa Romana è stata considerata, dalla tradizione popolare, musicista e patrona di musicisti, in quanto si dice che “”mentre risonava la musica, Cecilia in cuor suo cantava la sua preghiera”. Il motivo per cui Cecilia sarebbe diventata patrona della musica è incerto. Controverse, infatti, sono le tesi che sostengono l’inclinazione di Cecilia alla musica.
Cantantibus organis, Cecilia virgo in corde suo soli Domino decantabat dicens: fiat Domine cor meum et corpus meum inmaculatum ut non confundar (“Mentre suonavano gli strumenti musicali, la vergine Cecilia cantava nel suo cuore soltanto per il Signore, dicendo: Signore, il mio cuore e il mio corpo siano immacolati affinché io non sia confusa”) è il testo, in latino, dell’Antifona nella festa della santa. Il testo, tradizionalmente, faceva riferimento al banchetto nunziale di Cecilia: mentre gli strumenti musicali (profani) suonavano dolci melodie, Cecilia cantava interiormente lodi a Dio al quale si era consacrata.
In realtà, i codici più antichi non riportano questa lezione dell’antifona (e neanche quella che inizierebbe con Canentibus, sinonimo di Cantantibus), bensì Candentibus organis, Caecilia virgo…. Gli “organi”, quindi, non sarebbero gli strumenti musicali, ma gli strumenti di tortura, e l’antifona descriverebbe Cecilia che “tra gli strumenti di tortura incandescenti, cantava a Dio nel suo cuore”. L’antifona non si riferirebbe dunque al banchetto di nozze, bensì al momento del martirio.
Un’altra interpretazione, quasi certamente non esatta, vedeva la figura di Cecilia che cantava a Dio… con l’accompagnamento dell’ Organo. Si cominciò così, a partire dal XV secolo, a raffigurare la Vergine con un piccolo organo a fianco.
Nel XIX secolo sorse il cosiddetto Movimento Ceciliano, dedicato alla santa, che si diffuse in Italia, Francia e Germania. Vi aderirono musicisti, liturgisti e altri studiosi, che intendevano restituire dignità alla musica liturgica, sottraendola all’influsso del melodramma e della musica popolare.
Le foto sono di Daniela Lucaselli
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