di Armando Polito
Pigliate ‘na pastiglia, sient’a mme … cantava Renato Carosone nel 1958. Per chi volesse ascoltare la canzone segnalo il link https://www.youtube.com/watch?v=LBbADbxlJCs, da dove è tratta l’immagine che segue.
Se questa colonna della musica leggera napoletana e italiana fosse stata salentina il titolo della canzone probabilmente (uso questo avverbio perché anche i titoli spesso sono il frutto estemporaneo di un’ispirazione fulminante) sarebbe stato: pìgghiate nnu pìnnulu, sienti me. La metrica sarebbe stata traballante anche in questo caso perché il non rispetto degli accenti principali dell’endecasillabo, compromesso già all’inizio del verso in napoletano con lo sdrucciolo pìgliate, si sarebbe aggravato in quello salentino con l’aggiunta di pìnnulu, pure esso sdrucciolo.
Se, dunque, pìgliate e pìnnulu sono due imperfezioni sulle quali per un orecchio allenato è difficile sorvolare, pìnnulu in particolare non è qualcosa da mandar giù facilmente …
Il suo etimo, infatti, al contrario di quello di pastìglia1, pone qualche problema, anche perché quelle che in altri casi possono costituire un aiuto determinante, cioè le varianti, qui sembrano creare solo confusione e suscitare quanto meno dubbi. Procedo con ordine citandole così come le trovo registrate nel vocabolario del Rohlfs.
pìnnulu (Vernole) pillola vedi pìnulu.
pìnulu (Lecce) pillola [confronta il calabrese pìnula napoletano pìnnolo; vedi pìgnulo.
pìgnulo pillola vedi pìnulu.
Non è la prima volta che col gioco dei rinvii il Rohlfs sembra non volersi assumere responsabilità; qui, poi, la questione è complicata dal fatto che pìgnulo è riportato preceduto da un segno convenzionale che equivale a parola non attestata (congetturale), anche se il lemma è seguito dalla sigla L15 che corrisponde a “Leon Lacaita, La Tarantata. Commedia in dialetto manduriano. Manduria 1944 [Trascrizione abbastanza diligente. Senza glossario, senza note]”.
Pìgnulo, dunque, troverebbe solo attestazione letteraria (sarebbe assente nella lingua parlata) e direi che il congetturale del Rholfs è una sorta di ambiguità incrociata,nel senso che potrebbe alludere ad un’invenzione del commediografo e, nello stesso tempo, ad una supposizione del filologo. Non è mia intenzione fare il processo alle intenzioni altrui, ma dico la mia basandomi sul fatto che la lettura ormai pluridecennale dell’imponente lavoro del filologo tedesco mi ha consentito di considerare in parecchi casi come suggerimento occulto, in ultima analisi criptica dichiarazione di dubbio, ciò che ad una lettura superficiale può essere considerato reticenza o, peggio ancora, espediente strategico per non formulare nessuna ipotesi , per non assumersi responsabilità di sorta, salvando, comunque la faccia.
Nel nostro caso credo che il Rohlfs con il congetturale pìgnulo abbia voluto dirci che secondo lui probabilmente tutto è collegato con pigna, non essendo praticabile l’ipotesi che pìnnulu possa essere considerato deformazione di pìllola (avrei detto pillolo, se quest’ultimo non fosse di nascita recentissima …), che è dal latino pìlula(m)=pallottolina, pillola, diminutivo di pila=palla.
Spiego il tutto partendo proprio da pìnulu. Se esistesse, il corrispondente italiano sarebbe pìnolo, diminutivo di pino. L’intervento dell’albero sembrerà meno strano pensando che pina in toscano indica il frutto, quello che nella lingua nazionale è pigna, che deriva dal latino pìnea(m)=del pino, forma aggettivale di pinus=pino. Non è finita: se pinea(m) sottintende un sostantivo femminile sinonimo di frutto, c’è da aggiungere che lo stesso succede nel dialetto neretino dove l’albero, il pino appunto, è pignu. A pignu ormai considerato assolutamente come un sostantivo si collega pìgnulu, forma diminutiva come, per esempio, in bambo>bàmbolo, banda>bàndolo (qui con cambio di genere), brocco>bròccolo, etc. etc.
Insomma, da pigna, deriverebbe solo con cambio di genere (come in banda>bàndolo) pignòlu (corrispondente all’italiano pinòlo che, però, è dal ricordato toscano pina) e, oltre che con cambio di genere anche con spostamento di accento probabilmente in funzione distintiva, il congetturale pìgnulo e da questo, per banalissima e regolare assimilazione -gn->-nn-, pìnnulu.2
Chiedo scusa a chi, tra coloro che mi hanno fin qui seguito, fosse costretto a questo punto ad inghiottirne uno contro il mal di testa; e, se è giovane, non fraintenda l’invito del vecchio modo di dire neretino sùcate ‘stu pìnnulu (alla lettera succhiati questa pillola, metaforicamente consuma lentamente questa amarezza) per sperimentare una nuova modalità di assunzione …
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1 Come l’italiano pastiglia, è dal latino pastillu(m), attraverso lo spagnolo pastilla. La voce spagnola nel neretino ha dato pastìddha che designa la castagna secca (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/05/04/la-pastiddha/).
2 Da pigna, sempre con cambio di genere, deriva nel dialetto neretino l’accrescitivo pignòne (totalmente diverso per etimo e significato dall’omofono italiano) che designa la bica di covoni o di paglia in forma di tronco di cono o, se si preferisce, di pigna.
Curiosamente, nel vecchio gergo dei muratori si chiama “pinnulu” la lama piccola della “mannara” (mentre la lama grande è chiamata “occa”). Esiste anche il verbo “pinnuliciare” ovvero picchiettare una vecchia superficie intonacata con la lama piccola della mannara per permettere la stesura di un nuovo strato di intonaco… tale pratica è ancora visibile in molti affreschi delle nostre chiese!
Il suo “curiosamente” è ispirato e, per quanto dirò, giustificato dal fatto che non sembra esserci alcun rapporto di significato tra la pillola e il “pinnulu” da lei ricordato. E, infatti, non c’è rapporto di sorta nemmeno sul piano etimologico, perché il suo “pinnulu” è diminutivo, con cambio di genere, di “pinna”. “Occa”, poi, conferma la metafora marinaresca, più precisamente ittica, iniziata con “pinnulu”. La ringrazio per avermi consentito di conoscere quest’omofono e di chiarirne la diifferenza rispetto a quello del post.