di Luciano Antonazzo
Francesco del Balzo fu l’ultimo della celebre famiglia di origine francese a possedere la contea di Ugento. Condusse una vita tranquilla, mantenendo però sempre vivo nel suo animo il proposito di vendetta per la tragica fine del padre Angilberto, giustiziato nel 1491 dagli spagnoli come fautore della cosidetta “Congiura dei Baroni”. L’occasione gli si presentò nel 1527 quando scese in Italia il Lautrec, luogotenente del re di Francia Francesco I. Non esitò a schierarsi al suo fianco, ma dopo i successi iniziali l’esito della guerra arrise agli spagnoli e a Francesco non rimase che l’esilio. Riparò a Ragusa in Dalmazia dove si fermò per due anni. Esaurite le sue finanze rientrò in Italia , a Roma, dove si mise sotto la protezione del cardinale Trivulzio ricevendo per proprio sostentamento, e quello di due servi, appena due baiuli al giorno.
Ad accompagnare Francesco del Balzo nel suo esilio a Ragusa e a Roma c’era il poeta Antonino Lenio che viveva alla corte ugentina dove, per compiacere ed allietare le giornate della figlia del conte, Antonia, diede inizio alla composizione di un poema epico-cavalleresco di ben 1900 ottave, vale a dire 15.200 versi, che fu stampato in Venezia nel 1531 col titolo “ORONTE GIGANTE” e col sottotiolo “ DE LEXIMIO POETA ANTONINO LENIO SALENTINO continente le Battaglie del Re de Persia et del Re de Scythia fatte per Amor de la figliola del Re di Troia. Capitani de Perse Rinaldo, et de Scythe Orlando cose belle et nove. Con additione de le battaglie per Amor de la Figlia del Re Pancreto in Nabatea. Et certe epigramme Amorose”.
Il poema sarebbe rimasto sconosciuto se non vi si fosse imbattuto Benedetto Croce nelle sue esplorazioni della cultura napoletana. Sotto l’aspetto letterario ne diede un giudizio drasticamente negativo, ma lo definì “il più importante contributo dell’Italia meridionale alla letteratura cavalleresca del tempo”. E’ indubbio comunque che sotto l’aspetto storico-culturale il poema ha una significativa valenza, come ha evidenziato il prof. Mario Marti che meritoriamente lo ha pubblicato quasi integralmente nel 1985[1], offrendo ai lettori, con una anlisi approfondita, la possibilità di apprezzarne anche “l’ibridismo linguistico” rappresentato dall’uso di grecismi, latinismi e lemmi dialettali.
L’incipit dell’opera è costituito dalla dedica “DIVAE ANTONIAE BAUTIAE”, “donna angelica e divina-che passeggiava nel lito ogentino – de chi lo padre tiene la signorìa” (libro I, canto VI, vv. 356-58), versi che attestano inconfutabilmente che quantomeno il primo libro del poema fu composto in Ugento. Rimane invece dubbia la patria dell’autore. Egli si dice “salentino” senza precisare il suo luogo d’origine, ma per Giovanni Bernardino Tafuri sarebbe nato a Parabita, altro feudo appartenente a Francesco del Balzo.
Qualche notizia sulla sua attività poetica, e sulla sua solida formazione letteraria il Lenio la dà incidentalmente nel poema stesso, dove non manca di elogiare i grandi letterati e filosofi del tempo (suoi docenti o suoi amici) dedicatari di alcuni dei suoi 45 distici in latino formanti gli “Epigrammata” che chiudono l’opera .
Altro di lui non ci è dato sapere ma forse é sopravvissuta una testimonianza della sua presenza in Ugento.
Al piano superiore dell’ex convento dei Minori Osservantisi, oggi sede del Museo Civico, si trova una cella che si affaccia sul cortile, sulle cui pareti laterali vi sono dei disegni elementari. Vi sono raffigurate delle scene intervallate da uccelli su una sfera poggiata su una base pseudo – trapezoidale. Tali scene con figure maschili e femminili, più o meno vestite, rappresentano dei duelli e degli amplessi; sulla parete laterale destra dell’ingresso vi sono raffigurate anche alcune strutture architettoniche mentre sulla parete di fronte vi è la raffigurazione del peccato originale e un inusuale fonte della vita. Come si desume dagli abiti dei personaggi e soprattutto dalla forma triangolare del pettorale delle dame i dipinti delle pareti laterali soo databili al XVI secolo e nel complesso sembrano rimandare ad un qualche poema epico – cavalleresco.
La loro realizzazione, soprattutto per la presenza di scene di sesso, certamente non è ascrivibile al frate che vi dimorava; di contro è più verosimile la loro attribuzione a qualcuno che avesse dimestichezza con la letteratura dell’epoca.
E se si trattasse proprio di Antonino Lenio? L’intrigante ipotesi abbisognerebbe della dimostrazione che egli dimorasse nel convento e questa circostanza sembra avvalorata da una ottava nella quale ironizza sul comportamento dei frati.
Nel libro I, canto XVI, ai versi 225- 232, il poeta parla di un sacrificio di “mille bovi” alla dea Minerva Iliade, e sottolinea come la carne andava a finire ai “sacerdoti” in modo di farli “in gaudemus stare”, cioè “viver da gaudenti”; chiude quindi l’ottava dicendo con malizia “come ancor oggi i frati soglion fare”. Che questa chiusa fosse rivolta ai frati del nostro convento lo esplicita l’ottava seguente (versi 233-40) nella quale dice:
Quando la mia Signora del buon vino
e pan bianco gli manda e bei cappon
cantan devoti l’ufficio divino
con tanti pater nostri et orazioni
cogl’occhi bassi e co’ lo capo chino
reputando noi altri da babioni,
ridono in ciambra che ben chiaman cela
che li secreti loro asconde e cela.
Il tratteggiare in questo modo il comportamento che i frati tenevano in privato a nostro avviso discende da una conoscenza diretta, e dall’interno del convento, che l’autore doveva avere.
Ad avvalorare ulteriormente questa ipotesi potrebbero essere anche alcuni elementi disegnati sulle pareti laterali.
Come detto vi sono dipinti diversi uccelli e questi potrebbero avere attinenza col fatto che il poeta narra di aver sognato di essere diventato uno storno (v. libro I, canto X, vv.296 – 7) e di aver stretto amicizia con una rondinella, l’unica tra gli altri volatili incontrati (tra cui uno smerlo) a parlare l’idioma umano (v. libro I, canto X , vv. 320 -21; 345-48).
Anche le strutture architettoniche potrebbero rinviare ad alcuni degli edifici degli dei che egli particolareggiatamente descrive (v. libro I, canto III, vv. 32-36; libro I, canto XI, vv. 1-8) .
Resta da capire se i superiori del convento tollerarono o non si avvidero affatto delle rappresentazioni osées sulle pareti. Riteniamo plausibile la seconda ipotesi, perché altrimenti le avrebbero di certo cancellate. In effetti al padre guardiano del convento era precluso entrare nella cella di un ospite e quand’anche, in sua assenza, avesse voluto controllare se in quella fosse tutto in ordine poteva farlo solo sbirciando attraverso una finestrella della porta chiusa; ma dallo spioncino poteva avere solo una visuale ridotta che gli impediva di vedere i dipinti delle pareti laterali; di contro sulla parete di fronte vedeva chiaramente la raffigurazione del peccato originale e del fonte della vita, rappresentazioni che verosimilmente lo inducevano a credere che il resto dei dipinti fosse dello stesso tenore. Solo quando il poeta seguì il conte nel suo esilio i frati ebbero contezza di quello che i dipinti rappresentavano e , per nostra fortuna, si limitarono a ricoprirli con uno strato di calce che li ha preservati fino alla loro riscoperta.
[1] M. MARTI (a cura), Oronte gigante (e Bradamante gelosa di S. Tarentino), Milella Ed. Lecce 1985.