di Gianluca Fedele
Quando da ragazzino cominciai ad appassionarmi all’arte contemporanea, tra le opere che guardavo con maggiore attrattiva, dall’esterno delle gallerie del mio paese, ricordo vivamente certi ponti di Brooklyn di Tonino Caputo. Fu uno dei primi artisti che mi affascinarono, e all’epoca la seduzione esercitata dalle opere era puramente estetica, scevra da ogni tipo di contagio concettuale. A distanza di anni ho finalmente realizzato che tra gli aspetti che mi colpirono di più in assoluto vi era certamente quella luce crepuscolare che caratterizza la maggior parte delle sue vedute metropolitane.
Del mio desiderio di conoscere personalmente Caputo ne ho parlato di recente a Sandro Tramacere, un caro amico che gestisce una caratteristica galleria d’arte con annessa sala da barba su corso Galliano a Nardò (LE). Appena il tempo di fare una telefonata e mi ha già procurato il luogo per l’incontro; guarda caso il maestro il giorno dopo inaugurava una sua personale di incisioni a Lecce, su via Palmeri. Ovviamente ci vado e mi presento, e ricevo un appuntamento per la mattina seguente.
Caputo è in compagnia del suo inseparabile allievo, Marco Sciame, anch’esso impegnato negli stessi giorni nella realizzazione di una mostra all’interno del monastero dei Teatini di Lecce.
Dopo una fugace colazione insieme ci accomodiamo a chiacchierare.
D.:
Dico subito, senza inibizioni, che è per me un grande privilegio sedere di fronte a uno dei miei pittori contemporanei preferiti e offrire l’intervista che segue ai lettori di Fondazione Terra d’Otranto.
Hai acquisito l’appellativo di “pittore giramondo” grazie agli svariati viaggi, soste, lavori in ogni continente; da qualche battuta mi è parso di capire che la migrazione è una caratteristica insita nella tua famiglia, è così?
R.:
In effetti nella mia famiglia si intrecciano storie e aneddoti di emigrazione a partire da mio nonno, Eugenio Caputo, che nel 1905 partì per l’Argentina con lo scopo di andare a trovare il fratello che lavorava a Córdoba come capostazione, lo stesso anno in cui nacque mio padre. Mia nonna, che lo avrebbe dovuto accompagnare, arrivata a Napoli non lo seguì per via del suo terrore dei bastimenti. Nonno Eugenio mantenne i contatti con la famiglia rimasta in Italia sino alla guerra ma dopo la morte della moglie, avvenuta a causa di un tumore, di lui non fece pervenire più alcuna notizia. E nulla si seppe almeno fino a quando dal continente sudamericano non arrivò un Caputo, probabilmente un figlio in cerca delle sue radici, che mio padre orgogliosamente non accettò di incontrare.
Questa, in breve, è la storia dell’emigrazione più diretta che ho ma ci furono comunque diversi parenti prossini che nello stesso periodo salparono per gli Stati Uniti o per altri lidi del mondo. Il recente passato del meridione d’Italia, infatti, è costellato di vicende di questo genere poiché erano in tanti a cercare di sfuggire da quelle condizioni di vera, estrema povertà nelle quali si viveva.
D.:
Oggi la questione della migrazione la si torna a vivere ma in questo caso noi siamo dalla parte di chi ospita; qual è il tuo pensiero su questo delicato argomento?
R.:
Se ne sentono tante in TV ma io non amo quel tipo di destra che con presunzione sostiene quanto la nostra nazione sia migliore a confronto di altre. Questa gente si dimentica, per esempio, che la Reggia di Caserta è stata realizzata da un famosissimo immigrato olandese: Luigi Vanvitelli, nato Lodewijk van Wittel. La storia della penisola italica è fatta anche di storie di tanti immigrati che hanno soggiornato dimostrando passione e amore. Poi ci sono stati anche casi contrari come quello di Voltaire, che non perdeva occasione per scrive male di illustri italiani come Michelangelo e Raffaello, però in questo caso qualche stupidaggine glie la si può anche abbonare.
Noi italiani abbiamo molte peculiarità ma non più rispetto altri cittadini del mondo. Ciò che si dovrebbe recuperare è invece il senso della tradizione che va pian piano scemando senza che nessuno se ne preoccupi.
D.:
Prima di te vi erano altri artisti nella tua famiglia?
R.:
Dalle notizie che mi sono pervenute so che mio nonno materno era un falegname che lavorava in maniera estremamente rifinita, un ebanista vero, reale. Per quanto riguarda mio padre, lui era un fotografo ma all’epoca, qui, chi praticava la fotografia non era considerato effettivamente un artista.
Come si è capito io vengo da una famiglia modesta dove l’urgenza per la “pagnotta” spesso sottraeva tempo alla cultura e alle sue declinazioni. Nonostante il periodo cupo ho però sempre riconosciuto a mio padre una sete di conoscenza, manifestata soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita quando venne a vivere da me ed ebbe la possibilità di dedicare del tempo alla lettura. Amava molto Dumas de I tre moschettieri, Il visconte di Bragelonne, Il conte di Montecristo, Vent’anni dopo, e tanti altri titoli dello stesso genere. Romanzi che divorai anch’io successivamente.
A casa comunque volevano che io studiassi per diventare medico o ingegnere.
D.:
Quali sono state le circostanze in cui hai compreso di essere un pittore?
R.:
Più che le circostante sono state le persone a farmi capire che l’arte era la mia strada. Come si è detto in casa vi erano pochi libri e anche per questa ragione io frequentavo la famiglia di Ugo Tapparini dove sua madre, una donna molto colta, mi mise a disposizione la loro importante e ben fornita libreria. Lì conobbi anche Vittorio Pagano, zio di Ugo. Fu proprio il noto poeta a scoprire il mio talento quando, un po’ scettico, venne per la prima volta nella stanza dove tenevo i lavori asserendo: “tutti pittori oramai state diventando!”. Poi però andò via portandosi appresso un paio di quadri e la cosa mi inorgoglì estremamente.
Devo molto anche alla poetessa Rina Durante che mi esortò a inviare un’opera dalla quale venne conquistata alla rassegna culturale “Maggio di Bari”. In quella circostanza vinsi un premio che sancì il mio battesimo artistico.
D.:
A quando risalgono le tue prime esposizioni pubbliche?
R.:
Nel 1957 presi parte alla mia prima mostra, una collettiva che si allestì all’interno del Palazzo del Seggio di Lecce dove, insieme a me, esponevano Antonio Massari, Edoardo De Candia, Franco Gelli, Garusso e Paolo Re. Io vendetti cinque o forse sei dipinti.
Ricordo benissimo quel periodo così travagliato della mia vita: la mia compagna di allora, quella che sarebbe poi diventata la mia prima moglie, era incinta e per l’epoca rappresentava uno scandalo il fatto che non si fosse ancora celebrato il matrimonio. Dopo la funzione religiosa vendemmo gli ori e con il ricavato, sommato a quello della vendita dei quadri, partimmo alla volta di Roma dove mi stabilii definitivamente.
D.:
Cosa ti ha spinto a scegliere proprio la capitale come destinazione per iniziare la nuova vita di uomo e di artista?
R.:
Roma è certamente un luogo che non si può ignorare assolutamente. Ancora oggi dopo decenni di permanenza, quando ho la possibilità di passeggiare per le sue strade, la città eterna riesce a sorprendermi con dettagli importanti che non avevo ancora colto. Seguo e rimango ammaliato da quelle che sono le nuove scoperte archeologiche poiché arretrano la sua fondazione di circa duecento anni – in periodo etrusco quindi – ponendo il dubbio persino sulla reale esistenza di una figura cruciale come quella di Romolo.
D.:
So che hai studiato architettura: cosa mi racconti del periodo universitario?
R.:
Nella realtà dei fatti quella è una leggenda messa in piedi da chissà chi. Voglio finalmente sfatare il mito che mi vedrebbe laureato in architettura perché io mi iscrissi alla facoltà solo per essere mantenuto dai miei genitori per il tempo necessario a costruirmi una posizione. Preparai e superai giusto tre esami che poi riguardavano materie abbastanza semplici per me come “Disegno dal vero” e “Rilievo dei monumenti”. Avrei anche potuto dare matematica – ero molto bravo al Liceo Scientifico – solo che non mi interessava. Sapevo già che volevo fare il pittore, contravvenendo alle aspettative che i miei genitori coltivavano sul mio futuro.
L’architettura mi ha sempre appassionato ma da punto di vista figurativo poiché, come diceva Algarotti, essa è la madre di tutte le arti.
D.:
Dalla tua biografia scopro che a Roma non ci sei rimasto per molto tempo; quali sono state le tue prime mete fuori dall’Italia?
R.:
Ho sempre mantenuto un appoggio a Roma pur viaggiando tanto. Feci i miei primi spostamenti professionali all’estero grazie a un mio zio – l’unico facoltoso in famiglia – che lavorava presso il Ministero delle Finanze come Segretario del Capo di Gabinetto. Fu lui a procurarmi in tempi brevi il passaporto, snellendo di molto l’iter burocratico.
A soli vent’anni iniziai a muovermi scoprendo l’Europa; le prime mete intermedie furono Montecarlo e Lugano. Alla nascita di Tiziana, la mia prima figlia che ora purtroppo non c’è più, fui però costretto a rimanere fermo per un po’ e a lavorare per conto di architetti al fine di mantenere la famiglia.
Nel 1962 avvenne la separazione dalla mia prima moglie ed ebbe così inizio un periodo della mia vita caratterizzato da uno stile errabondo ma anche ricco di numerosi successi. Fortunatamente si erano concluse una serie esposizioni e la vendita di molte opere mi garantiva una certa solidità economica. In più avevo conosciuto una ragazza francese che, dopo essere stata a dormire da me per pochi giorni, mi invitò a trascorrere a Parigi qualche settimana. La prima volta ci andai esclusivamente per evidenti motivi sentimentali ma ci ritornai qualche mese più tardi con un amico pittore. Con quest’ultimo ci presentammo quasi per gioco a “La Galerie des Jeunes” presso Rue de l’Ancienne-Comédie esibendo alcuni quadri; lì io fui scelto per fare una mostra e rimasi nella capitale della moda per circa un paio d’anni.
D.:
Quand’è incominciato il sodalizio con Carmelo Bene?
R.:
Carmelo l’avevo conosciuto a Lecce che aveva sedici anni, in una piccola soffitta nella quale si ritirava per studiare e perfezionare fino allo sfinimento un italiano sempre più puro. Ci perdemmo di vista perché lui andò a Firenze e poi a Torino ma ci ritrovammo nel ’62 al teatro Ariston dove portava in scena il “Gregorio”, opera che trovai molto interessante. Salutandoci ci lasciammo con la promessa di rivederci a Roma.
E difatti Carmelo si sistemò a vivere con tutta la compagnia teatrale in un appartamento che avevo preso per me dopo la separazione. Ci dividemmo nuovamente durante la mia parentesi parigina per rincontrarci ancora nel ’66. La prima locandina che gli disegnai fu per il “Faust” e da lì tutta una serie di collaborazioni sino ad arrivare al film “Capricci”, girato quasi completamente nella mia abitazione di via di Montoro, nel quale recitavo una parte anch’io. Nelle riprese sfasciammo a colpi di arance tre opere d’arte ricostruite ad hoc con oggetti reali e raffiguranti un Morandi, un De Chirico e un Guttuso come sfregio nei confronti dell’arte contemporanea.
D.:
Chi dei due ha più influito sull’arte dell’altro?
R.:
Il barocco è mio perché questa è una caratteristica insita dei pittori e degli scultori. L’attore, come il poeta, al massimo può nascere bizantino, perché esprimersi in maniera barocca significa demolire la recitazione.
Nel caso del bizantinismo si utilizzano delle parole che possono trarre in equivoco generando differenti accezioni, mentre col barocco si può anche usufruire di un vocabolario fiorito ma il messaggio rimane univoco.
Con Carmelo ebbi una furiosa discussione quando sostenne che noi pittori siamo cultori di morte in quanto, secondo il suo parere, noi la temiamo. Io gli risposi che a temerla sono più loro che una volta scomparsi dal palcoscenico della vita lasciano poche tracce della loro opera – almeno se non si considera la recente rivoluzione radiotelevisiva –, mentre noi artisti della materia, che viviamo quotidianamente coi nostri fantasmi, disseminiamo orme colorate lungo il nostro passaggio.
D.:
L’assenza della figura umana all’interno delle opere spinge molti a definire la tua un’arte metafisica; tu che nome dai al tuo stile?
R.:
La definizione di neo-metafisico mi è stata applicata da un grande storico d’arte, il prof. Fortunato Bellonzi, segretario della Quadriennale di Roma che è stato come un padre per me. Ma io gli risposi che sono semplicemente Tonino Caputo. Le etichette sono cose superflue nell’arte, che servono solo ai critici. Devo comunque ammettere che fu proprio Bellonzi a spingermi nella rappresentazioni delle città scorgendo un piccolo quadro nel mio studio che volle assolutamente far vedere ai galleristi Antonio ed Ettore Russo.
La figura dell’uomo ha fatto, di tanto in tanto, la sua comparsa sulle mie tele ma dove possibile ho sempre preferito ometterlo perché, a mio avviso, sa essere un grande costruttore tanto quanto sa distruggere. Persino ciò che di bello ha realizzato.
D.:
La mostra di questi giorni in via Palmieri a Lecce ha come protagoniste una serie di incisioni; quanto conta la tecnica nella tua produzione?
R.:
Sono certo che un buon pittore debba essere prima di tutto in ottimo disegnatore. Per quanto mi riguarda dipingo quello che penso, ed è un criterio esaustivo perché il mio primo pensiero lo incido sulla carta e solo dopo ci costruisco intorno un quadro.
A questo proposito voglio ricordare un breve episodio accaduto tra Pablo Picasso, Henri Matisse e un artista esordiente che conversavano tra loro. Quando il giovane sostenne: “io dipingo ciò che sento!”, Matisse rispose: “io dipingo quello che posso!”. Picasso concluse: “io dipingo quello che voglio!”
In questo divertente aneddoto vi sono racchiuse le tre categorie di artisti.
D.:
Quali sono i tuoi artisti prediletti?
R.:
Sicuramente Giorgio De Chirico. Poi c’è Cosmé Tura, un pittore dall’enorme calibro artistico. Ancora Piero della Francesca, per il quale non ho mai fatto segreto il mio amore smisurato. Ovviamente mi piace molto anche Masaccio.
Comunque sia, amare un artista è un fatto che fa parte del momento in quanto, spesso, quel pittore che hai odiato in giovane età finirà per stregarti più avanti, studiandolo e comprendendone il percorso.
D.:
Durante la tua carriera hai allacciato rapporti con gallerie di tutto il mondo; quanto hanno influito sul tuo successo?
R.:
Certamente i miei galleristi hanno contribuito in maniera determinante sulla popolarità e la diffusione delle mie opere ma va sottolineato un aspetto fondamentale del mio iter e cioè che non mi sono mai fatto dettare la linea da nessuno. Persino Giorgio Corbelli di Telemarket mi ha dato carta bianca su tutte quelle che erano le mie occorrenze.
D.:
Quanto la vendita televisiva ha mutato il modo di intendere il commercio dell’arte?
R.:
Purtroppo la televendita di opere d’arte ha contribuito all’estinzione delle vere gallerie che a un certo punto non potevano più essere competitive in quella fascia di mercato. Oggi, per la maggior parte dei casi, il vero appellativo per questa categoria di intermediari è “commercianti di quadri”. Si è andata perdendo la poesia e la cultura che foraggiava le importanti pinacoteche mentre chi esercita attualmente questo mestiere, nella stragrande maggioranza dei casi, lo fa unicamente per scopi di lucro.
Come si può, mi chiedo, applicare a un’opera il cinquanta per cento di sconto, come fosse un qualsiasi complemento d’arredo.
Poi, come se non bastasse, oggi c’è Ebay a peggiorare la situazione…
D.:
Cosa suggeriresti a un ragazzo che timidamente muove i primi passi nel mistico mondo dell’arte?
R.:
Direi di diffidare dalle ammalianti sirene che suggeriscono di fare tre schizzi o un taglio per avere un’opera d’arte. Lo poteva fare Lucio Fontana ma se tu lo copi non hai fatto nulla se non scimmiottare l’intuizione altrui. Un artista che si rispetti fa prima di tutto una ricerca per se stesso, che sia intimamente reale. Per me non ci sono maestri nell’arte perché chi è artista dentro non vuole insegnare nulla a nessuno se non tramandare tecniche ed esperienza.
D.:
Che propositi coltivi per i prossimi mesi?
R.:
Amico mio, dopo una vita da ramingo, a 82 anni l’unico proposito che posso permettermi è quello di sopravvivere. Poi si vedrà.
……che sia intimamente reale – e hai ragione Tonino –però togliti la barba -ti auguro bene -se ti ricordi -peppino martina .
caro martina sei come le mie vecchie zie che mi catechizzavano cercando di farmi radere la ?E soprattutto barba ed accorciare i capelli? Gesù Cristo ce l’aveva, Garibaldi anche, senza parlare di Michelangelo e Carlo Marx… ed allora chi sono io per tradire tutti questi grandi tagliandomi barba,baffi e capelli e soprattutto chi sei tu per chidermelo?????
Tonino,mi ha fatto piacere leggere la tua intervista ed ancora di più che te passi bene. saluti anche a Maureen ,se c’hai ancora rapporti.