Il servizio pubblico nelle ferrovie non è un optional

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di Angelo Salento e Giuseppe Pesare – Il Quotidiano di Puglia 4.9.2015

A condizione che non la si interpreti come mera rivendicazione campanilistica, la petizione contro la scelta di Trenitalia di escludere il sud della Puglia dal servizio Frecciarossa ha ragioni solide. Quella scelta rivela chiaramente il paradosso della gestione cosiddetta aziendalistica dei servizi: i servizi sono resi soltanto sin dove sono remunerativi; e con ciò, di fatto, cessano di essere servizi pubblici.
La vicenda dell’alta velocità nel Salento, tuttavia, è soltanto la punta di un iceberg, e non rendersene conto sarebbe un’occasione sprecata. Da almeno un decennio tutti i contesti locali italiani, e in particolare quelli del Mezzogiorno, pagano le conseguenze della “ristrutturazione” delle ferrovie. Il fenomeno, in verità, è di scala europea: in molti Paesi la cosiddetta liberalizzazione, iniziata con la Direttiva n. 440 del 1991, è stata interpretata come un’occasione per rendere più oneroso l’accesso dei cittadini al trasporto ferroviario, e più redditizie le imprese di trasporto. Persino nel Regno Unito, che spesso è considerato un modello di riferimento, l’ampia redditività delle imprese (private) di trasporto è garantita da un ingente flusso di risorse pubbliche.
Tuttavia, cifre alla mano (fonti: bilanci aziendali, CNIT, Istat), in Italia la tendenza a far pagare ai cittadini la redditività aziendale appare particolarmente eclatante. Entro la fine del 2015, com’è noto, una quota rilevante del capitale di Ferrovie dello Stato Italiane, ad oggi interamente nelle mani dal Tesoro, passerà a privati. Quella che andrà in vendita è un’azienda strepitosamente profittevole, con una redditività (EBITDA margin) che, stando al bilancio del Gruppo FSI, supera il 25% (per intendere: Deutsche Bahn è intorno al 12%, la francese SNCF fa circa l’8%).
A quali condizioni le Ferrovie dello Stato sono diventate un business così appetibile? In estrema sintesi, gli aspetti da considerare sono tre.
In primo luogo, soprattutto a partire dalla gestione Moretti (Amministratore Delegato dal 2006 al 2014, attualmente al vertice di Finmeccanica), le dimensioni complessive dell’azienda e del servizio sono state drasticamente ridotte: ridotta la forza-lavoro (da 120mila a 70mila lavoratori fra il 1998 e il 2013); dimezzato il materiale rotabile (da 80mila a 30mila mezzi viaggianti fra il 2001 e il 2013); ridotto il volume dei servizi (da 46 a 38 miliardi di passeggeri-kilometro e da 60 a 28 milioni di treni-kilometro nel trasporto merci, fra il 2006 e il 2013); ridotta la rete in esercizio (tra il 2006 e il 2014, soppressi 1.187 km di ferrovia, una cui frazione infinitesimale è divenuta percorso ciclabile).
La seconda chiave della redditività è stata la vera e propria rivoluzione nel rapporto dell’azienda con le finanze pubbliche, ovvero con le risorse dei contribuenti. Quanto ai sussidi per i servizi di trasporto, il valore complessivo dei contratti di servizio è passato da 1,7 a 2,3 miliardi all’anno fra il 2006 e il 2014; i costi sostenuti dalle Regioni per i servizi di trasporto regionale sono aumentati del 50% nello stesso periodo (da 6 a 9 centesimi per passeggero-km). Ma bisogna aggiungere che le finanze pubbliche sostengono anche le spese di manutenzione (5,3 miliardi nel Contratto di Programma Servizi 2012-2014) e gli investimenti (il portafoglio progetti, in ampia parte dedicato all’alta velocità sul versante tirrenico, sfiora i 99 miliardi nel Contratto di Programma Investimenti 2012-2016).
La terza mossa è stata spostare l’offerta di servizi verso le attività più redditizie. Paradossalmente, a fronte dell’ingente leva sulle risorse pubbliche, il servizio universale, ossia l’alternativa alle costose “Frecce”, è divenuto quasi impraticabile, per quantità e qualità. Fra il 2006 e il 2014 i servizi a lunga percorrenza sussidiati sono stati ridotti da 38 milioni a 23 milioni di treni-km, mentre i servizi a costo “di mercato” (si fa per dire, visto che le ferrovie sono un monopolio naturale) sono aumentati da 46 milioni a 55 milioni di treni-km.
Tutto questo ha permesso all’Azienda di aumentare strepitosamente i propri ricavi. Dal 2000 al 2013, i ricavi totali dal trasporto viaggiatori sono aumentati del 33% (del 67% se calcolati per passeggero-km).
In breve, non si può dire che il business ferroviario sia stato portato a una sostenibilità economica, anche perché continua a drenare risorse pubbliche; piuttosto, è stato reinventato, trasformando un’azienda di servizio pubblico (con tutte le sue innegabili inefficienze) in una fabbrica di utili, che persegue la propria redditività più che la mobilità dei cittadini.
Come molti altri diritti fondamentali – la salute e l’istruzione in primis – anche il diritto alla mobilità (art. 16 Cost.) è rimasto schiacciato sotto la promessa dell’efficienza gestionale. Oggi i cittadini pagano due volte: come contribuenti, finanziano infrastrutture e manutenzione, coprendo il rischio d’impresa; come viaggiatori, pagano il prezzo “di mercato” (a un’impresa sostanzialmente monopolista) per un servizio che promette alta velocità. Si realizza così una redistribuzione perversa di risorse: tutti i contribuenti, anche quelli che abitano in contesti periferici, pagano per infrastrutture e per servizi che restano confinati ai contesti più ricchi, dove l’impresa può produrre maggiori introiti.
L’Italia – lo mostra chiaramente anche il rapporto Pendolaria 2014 di Legambiente – oggi è un Paese “a due velocità”, più di quanto lo sia mai stato: il mito dell’alta velocità torna a essere una bandiera e certamente conta molti utenti entusiasti, ma i servizi ordinari e accessibili a tutti sono sempre più ridotti e scadenti; le aree metropolitane più ricche sono adeguatamente servite (per chi può permetterselo), ma le aree periferiche sono sempre più marginalizzate.
In conclusione, si chieda pure al gestore dei servizi ferroviari di (ri)portare il Frecciarossa in tutte le province pugliesi. Ma non resti, questa, una richiesta estemporanea e isolata. Sarebbe un grave errore, del resto, ottenere l’alta velocità al costo di ulteriori sacrifici sui servizi di base, o di un’ulteriore pressione sui bilanci regionali. Non restare tagliati fuori da un servizio è un obiettivo importante, anche sul piano simbolico. Ma risparmiare un’ora nei collegamenti con il Nord sarebbe un traguardo parziale, e servirebbe soltanto a recuperare fragili consensi, se si dimenticasse che i collegamenti Sud-Sud sono praticamente inesistenti, che il trasporto dei pendolari è in cronica sofferenza, che i collegamenti notturni a lunga percorrenza sono stati pressoché soppressi, che l’intermodalità è un miraggio. Per la gestione “aziendalistica” delle ferrovie, persino poter portare la bicicletta sul treno regionale non è scontato: Trenitalia pretende che per questo servizio, considerato un principio di civiltà in Europa, i viaggiatori paghino un supplemento, o che lo paghino in loro vece le Regioni (la Regione Puglia è stata la prima a farsene carico, dal 2007).
È su tutto questo, e non su rivendicazioni estemporanee, che si deve misurare la capacità delle forze politiche e delle amministrazioni del Sud Italia. Dall’Azienda e dal suo Azionista unico si pretenda che il trasporto ferroviario sia gestito a tutti gli effetti come servizio pubblico. L’Italia e soprattutto il Mezzogiorno hanno bisogno di investimenti nell’economia fondamentale, ovvero nelle infrastrutture della vita sociale: nella qualità della vita quotidiana di un popolo estenuato.

 

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