di Gianluca Fedele
Da quando ho cominciato a raccontare gli artisti del Salento ho conosciuto prevalentemente pittori e scultori. Poi, durante una delle tante chiacchierate con l’amico Marcello Gaballo – dal quale ogni volta emergono decine di idee entusiasmanti – egli mi ha persuaso ad allargare lo spettro delle mie attenzioni su altre forme d’arte, suggerendomi, tra gli altri, il nome di Aristide. Poiché di quest’ultimo possedevo esclusivamente il contatto Facebook, ho messo in conto di realizzare la presente intervista non appena si fosse palesata l’opportunità di conoscerlo di persona. Le occasioni certamente non sarebbero mancate.
In un torrido 14 agosto, partecipando al matrimonio di un mio carissimo amico dove lui era stato ingaggiato come fotografo ufficiale, finalmente ci siamo presentati.
Devo essere onesto: avendolo incrociato poche volte per strada, quando in auto si è accigliati e incazzati col mondo, dall’espressione che mi pareva di cogliergli attraverso i vetri del suo enorme Range Rover, avevo sempre immaginato Aristide come un personaggio burbero e introverso invece, già dalle primissime battute, si rivela affabile e ironico.
Al mio invito accetta immediatamente la proposta di scambiare quattro chiacchere e dopo qualche giorno lo raggiungo.
Entro in questo stanzone che è il suo studio fotografico, le cui pareti sono tappezzate da ritratti di personaggi più o meno famosi, frammenti di cerimonie e misteriosi scatoloni di cartone impilati su grandi scaffali. Poi riviste, album, computer e attrezzature varie.
Ci accomodiamo. Lui, emblematicamente, su una sedia da regista.
D.:
Sono tante le domande che vorrei porti ma la prima, quella che più mi intriga, è il rapporto della tua famiglia con la fotografia. È una relazione antica che rifugge dallo sdoganamento degli Smartphone con fotocamera incorporata e della sovrapproduzione di immagini “usa e getta”, veicolate perlopiù dai Social Network. Mi chiedevo, quindi, dove affondano le radici di questa tua passione così longeva e di successo?
R.:
Tengo molto a questo aspetto e cioè al fatto che l’interesse per la fotografia sia un attributo che oserei definire genetico. A tal proposito, anche se non l’ho mai conosciuto, ho piacere a citare mio zio Pasquale Giuri, fratello di mia nonna, che imparò a fotografare già agli inizi del novecento insieme Luigi Mancino. In realtà non ho molte notizie da darti sul personaggio in questione, anche se conto di interpellare alcuni parenti di Presicce (LE) – paese nel quale si trasferì presumibilmente dopo il matrimonio – per indagare meglio su questa figura che sento molto vicina a me. È divertente sapere che proprio zio Pasquale e mio nonno studiavano insieme in seminario per diventare preti ma rinunciarono congiuntamente al proposito poco prima di prendere i voti. Di seguito mio nonno conobbe la sorella di Pasquale che ben presto sarebbe diventata sua moglie.
Più volte mi sono ritrovato a fantasticare su quest’uomo vissuto a cavallo tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento il quale, armato di banco ottico, scelse di sperimentare la fotografia proprio nel Capo di Leuca. Immaginiamo per un attimo il clima storico nel quale queste rare figure operavano ed erano venerate dai loro clienti dell’epoca: a partire dai signori nobili che li andavano a prendere in carrozza per un ritratto, sino ai lavoratori delle classi più umili ai quali esigeva la fototessera per il documento di identità.
Proprio per venire incontro alle ristrettezze economiche degli operai, Pasquale doveva escogitare degli espedienti.
In questi casi, per cominciare, oltre trenta persone venivano posizionate sulle scalinate di un palazzo o di una chiesa e ritratte su lastre enormi in uno scatto di gruppo a lunga esposizione (le pellicole allora erano estremamente lente), per poi ritagliare ogni singolo volto. Ma non si ritagliavano certo con Photoshop! Per proiettare l’immagine su grandi fogli di un metro si utilizzava un ingranditore che sfruttava la luce del sole attraverso un tappo alla finestra, e il compito di mio padre, che naturalmente iniziò con lui a fare esperienza, era quello di controllare dal tetto che non passassero nuvole a variare l’esposizione della foto sulla carta rovinandola.
Erano mezzi a dir poco rudimentali se paragonati alla tecnologia moderna ma vi era intuito e studio.
D.:
Ero certo che mi avresti raccontato degli aneddoti caratteristici e interessanti. Di tuo padre, Egidio Mazzarella, invece cosa mi racconti?
R.:
In seguito, tra il ’55 e il ’56, mio padre ebbe la fortuna di svolgere l’attività di fotografo anche durante il periodo del servizio militare poiché, in quell’ambito, data la sua già discreta preparazione, gli venne offerta la possibilità di seguire un corso di fotografia. E i corsi professionali in quegli anni non erano certamente inflazionati come lo possono essere oggi.
Inoltre riusciva a integrare il modesto stipendio con qualche lavoro svolto in ambito civile così, rientrato dalla leva, pensò di farne la sua professione.
D.:
Quanto ha influito l’avere avuto zii e padre fotografi nell’intraprendere il tuo percorso professionale e artistico?
R.:
Non nego che nascere in una famiglia del genere abbia esercitato una qualche rilevante influenza, se non altro per il fatto di crescere tra obiettivi e rullini, ma questo non significa che io abbia intrapreso la carriera perché prima di me c’era mio zio o mio padre: la fotografia mi ha letteralmente travolto, folgorato sin da quando ho iniziato a percepirne il potere. La passione che covavo dentro è stata conservata immutata attraverso gli anni, forse è anche aumentata.
Ciò che è andato scemando ultimamente, lo devo dire, è l’entusiasmo di lavorare. Ma in questo caso è la situazione sociale – responsabilità in gran parte della politica – ad avermi condizionato negativamente. Perciò, se non ci fosse stata prima di tutto la grande passione a motivare le mie scelte, non sarei riuscito a proseguire con rinnovato vigore.
D.:
Tu appartieni a quella generazione di fotografi che ha sperimentato il passaggio dall’analogico al digitale: se ci sono, quali le evoluzioni in termini qualitativi?
R.:
Intanto definiamo cos’è la qualità: c’è la qualità strettamente fotografica nella quale incorporiamo la risoluzione, la gamma dinamica e tanto ancora; poi c’è un altro tipo di qualità che è quella legata alla praticità e alla velocità di confezionamento del prodotto.
Le differenze ci sono certamente, questo è innegabile, ma commetterei un grave errore se paragonassi questi due sistemi di fotografia che sono destinati a rimanere diametralmente differenti. Io non sono un tradizionalista e da questo punto di vista ritengo che col digitale la fotografia abbia fatto dei notevoli passi in avanti, almeno per ciò che concerne l’aspetto qualitativo dell’immagine.
Tuttavia, se si vuol fare un confronto a ogni costo, si faccia sempre attenzione a mettere sui piatti della bilancia macchine dello stesso livello; sarebbe insensato paragonare una Hasselblad con lenti tedesche Carl Zeiss, regina delle macchine fotografiche a pellicola, con una fotocamera bridge o peggio ancora una digitale compatta.
Per restare sulla Hasselblad – che fu la macchina fotografica con la quale Neil Armstrong scattò le foto sulla luna – va necessariamente raffrontata a una macchina della stessa azienda costruttrice ma digitale, che oggi arriva ad avere oltre 80 milioni di pixel e che per questa ragione richiede particolari e potenti computer affinché si possano elaborare dei file che pesano circa 200 mb.
D.:
E nella lavorazione del prodotto quali cambiamenti hai constatato?
R.:
Anche qui i vantaggi sono numerosissimi. Ad esempio all’epoca delle pellicole, usando una Hasselblad durante un matrimonio, si aveva a disposizione un rullino da 12 pose che andava sostituito ogni volta. Quindi, per ragioni di tempo ed economia, si riuscivano ad ottenere non più di 400 scatti durante tutto l’evento, mentre oggi, con una scheda di memoria, puoi arrivare a realizzare circa duemila scatti. Già solo questa è un’oggettiva evoluzione. Successivamente la Reflex da 35 mm, che affiancò la medio formato, permise di fare 36 pose con un solo rullino. E c’era un motorino a parte per le foto a raffica. Preistoria!
La Rolleiflex, mitica macchina dei paparazzi de La dolce vita di Fellini, era una macchina biottica che aveva il cosiddetto errore di parallasse, cioè una piccola differenza tra ciò che tu vedevi nell’obbiettivo e quello che in realtà la macchina impressionava sulla pellicola; a stare troppo vicino al soggetto si rischiava di tagliarne una parte.
Ancora, tra i progressi che hanno rivoluzionato il modo di fare fotografia, c’è lo schermo – inteso sia quello della macchina che il monitor del pc – divenuto ormai uno strumento irrinunciabile col quale valutare immediatamente la buona riuscita di una foto. Dieci anni fa, invece, si era costretti a fare i provini 10 x 10 coi quali far scegliere agli sposi le foto preferite per la stampa.
Infine un capitolo a parte andrebbe dedicato ai software per il fotoritocco, intanto per capire fino a che punto è eticamente giusto spingersi nell’elaborazione di una fotografia.
Di base io sono contrario ai troppi artifizi ma non mi sento affatto in colpa se talvolta mi capita di intervenire su un’immagine eliminando le occhiaie sul volto di una sposa reduce da una nottata insonne o gli aloni di sudore sulla camicia di uno sposo convolato a nozze in piena estate.
Se gli strumenti che abbiamo oggi a disposizione ci permettono di correggere alcuni dettagli non vedo motivo per cui non gli si debba sfruttare.
D.:
Nella tua grande produzione troviamo generi diversi e diversi esempi di fotografia in un ventaglio variegato di soggetti ritratti. Qual è la differenza che passa tra l’esercitare questo mestiere artisticamente e farlo su commissione?
R.:
La risposta è molto semplice perché la fotografia artistica è quella che fai per te stesso, quella che senti più tua nell’attimo in cui congeli la porzione di realtà nell’obbiettivo. Viceversa lo stile della fotografia commerciale lo detta il cliente, per cui il compito del fotografo è anche quello di cercare di appagare le molteplici aspettative. Nella mia carriera, laddove è stato possibile, ho cercato di assolvere a questo compito in una maniera professionalmente accettabile, nel rispetto delle preferenze della committenza ma senza tradire lo stile contaminando il mio gusto personale.
Ovviamente non sempre questa è la regola e io dico che c’è una proporzione inversa tra i commenti del cliente durante il mio lavoro e la buona riuscita dello stesso, ovvero: meno parla e meglio è!
D.:
Colgo l’occasione di questa chiacchierata per farti i complimenti per lo scatto col quale hai ritratto piazza Salandra a Nardò (LE), quello che poi è diventato l’ormai riconoscibile icona del calendario eventi della città. Rientra nella sezione arte o commissione?
R.:
Decisamente arte. Ricordo perfettamente che quella sera ero stato a cena con degli amici e rincasando decisi di passare dalla piazza. Erano le tre del mattino e non c’era un’anima, così andai di proposito in studio a prendere la macchina fotografica e scattai quella foto.
Quando l’assessore – che era alla ricerca di una immagine per il cartellone degli eventi – la vide per la prima volta non gli piacque molto, tant’è vero che ci misi diverso tempo a persuaderlo poiché ne voleva un’altra realizzata sempre da me ma con una macchina più limitata o con un obiettivo diverso. Inoltre nella seconda, quella che più andava a genio al politico, vi erano delle automobili parcheggiate, ciò che ho sempre ritenuto essere un pugno nell’occhio di quella piazza così magica.
Vado molto orgoglioso di quel lavoro; sono già passati quattro anni ma la grafica utilizzata dall’amministrazione è invariata.
D.:
In effetti per molto tempo quell’inquadratura ha rappresentato, più che la realtà, l’idea di come avremmo voluto vedere la piazza e il borgo antico in generale, senza traffico e senza auto abbandonate in maniera incivile. Credi di aver contribuito, con quella figurazione, a creare nell’immaginario collettivo una sensibilità e un modo nuovo di leggere e immaginare il centro storico?
R.:
Molto probabilmente ora peccherò di immodestia ma si, sono certo che la pubblicazione di quella mia foto abbia innescato, quanto meno, una reazione dopo la quale a Nardò, a seguito di decenni di stasi, si è cominciato non solo a parlare di centro storico in maniera diversa ma anche ad agire; la chiusura al traffico adottata da pochi mesi a questa parte ne è forse la prova lampante.
Naturalmente non è mia intenzione accreditarmi risultati che non mi appartengono, lode al merito anche delle attività che resistono e si stanno dando da fare per rendere quel luogo vivibile e attraente, ma certamente tanto è cambiato dalla prima volta che resi nota quella foto su Facebook e Flickr, ricevendo un notevole riscontro in termini di like e tanti commenti di apprezzamento.
Da allora registi, cantanti e artisti vari hanno trovato finalmente Nardò sulla cartina d’Italia.
D.:
Oggi Facebook, Instagram, ecc. sembra abbiano scoperto migliaia di “artisti” della fotografia ma chi lo fa in maniera seria e professionale come te che rapporto ha con i Social Network?
R.:
La mia prima impressione è che i Social stiano veicolando e omologando i gusti della gente. Voglio dire che non si può valutare una fotografia dal numero dei like ricevuti perché può capitare che un tale con pochi contatti abbia condiviso un capolavoro di foto ma passata quasi inosservata. O ancora peggio sono quei presunti concorsi fotografici in rete dove vince chi riesce a convincere più amici a cliccare “mi piace”.
Ciò che è veramente assurdo è il comportamento di alcuni colleghi professionisti che valutano il proprio lavoro non dal punto di vista concreto, seguendo parametri oggettivi ma che affidano i loro scatti al giudizio arbitrario degli utenti. Personalmente utilizzo Facebook per sponsorizzare la mia pagina, lo ritengo semplicemente un modo come un altro per farsi pubblicità senza spendere grandi cifre.
Ogni tanto però bisognerebbe staccare la spina per qualche mese e guardare la bellezza intorno a noi senza l’ossessione del pollice in su. Bisognerebbe leggere più libri prima di sentirsi poeti, visitare più musei prima di sentirsi artisti, ascoltare più musica prima si sentirsi compositori.
D.:
Ti ha mai sfiorato il dubbio che il tuo mestiere fosse superato?
R.:
Dopo l’avvento della digitalizzazione, degli I-Phone mi è capitato di mettere in discussione me stesso, di pensare che forse non servisse più la figura del fotografo, ma poi mi sono guardato indietro attraverso la storia professionale della mia famiglia e anche la mia: in trent’anni di attività ho fatto di tutto, ho usato quasi tutti i tipi di macchine fotografiche e telecamere, inoltre sono stato direttore della fotografia in un film e regista in un cortometraggio. E poi la cosa più bella è che, nonostante ho trascorso tutti questi anni a studiare, a ricercare, ogni giorno trovo in questo mondo degli stimoli e delle occasioni di crescita.
La domanda che mi sono fatto è stata: sono tutti dei geni oggi, che inforcato un telefonino hanno tutto ciò che gli serve per sentirsi arrivati? La risposta che ho trovato mi ha sollevato dal peso dei dubbi.
D.:
Ho intravisto delle fotografie incantevoli scattate in Danimarca. Come ti sei ritrovato lì?
R.:
La prima volta ci andai da ragazzo fu perché ci viveva la mia fidanzata di allora e scoprii un luogo che mi colpì molto per quei luoghi caratteristici, le luci all’interno dei pub sempre molto calde, con candele accese anche di giorno. Mi rimase nel cuore e di recente ci sono ritornato con mia moglie.
D.:
A parte quelli della tua famiglia, hai dei personaggi di riferimento?
R.:
Se intendi riferirti al mondo della fotografia, il primo che mi viene in mente è Henri Cartier-Bresson, su di lui non si discute. Poi c’è Helmut Newton col quale, nel 1989, ebbi l’onore di essere pubblicato affianco nelle pagine della rivista mensile Max. Quell’anno lui aveva realizzato il calendario proprio per il famoso periodico di moda e io, che ero stato ingaggiato per il servizio fotografico di uno sponsor del giornale, ebbi la fortuna e l’onore di essere pubblicato con delle foto in bianco e nero accostate alle sue.
In ogni caso, sembrerà strano, più che per i fotografi ho nutrito sempre grande ammirazione per i registi, non a caso il mio idolo resta Stanley Kubrick, nato comunque come fotografo e affermato solo in seguito nel cinema. Poi anche Alan Parker mi piaceva molto e mi coinvolge Tornatore; Nuovo Cinema Paradiso l’avrò visto una cinquantina di volte.
D.:
So che sei stato amico del produttore cinematografico Carmine De Benedittis, il primo ricordo che ti viene in mente di lui?
R.:
C’è una foto di Carmine molto famosa che ho scattato nel 2007, durante la campagna elettorale nella quale era in corsa per la carica di sindaco di Nardò. Quel giorno venne a trovarmi di volata, sempre pieno di impegni com’era, per un lavoro che stava curando. Io colsi l’occasione, quasi costringendolo proprio perché doveva scappare, per fargli una istantanea sfruttando un raggio di sole che reputavo molto congeniale. Ricordo che appena la vide se ne innamorò talmente tanto da buttare tutti i manifesti che aveva già fatto stampare pur di utilizzare quella fotografia.
D.:
Ci sono pittori che ti hanno condizionato con la loro arte?
R.:
La pittura ha sempre avuto un forte ascendente sul mio modo di ritrarre il mondo e le persone.
Ho visitato il Metropolitan Museum di New York e ricordo perfettamente il sentimento di stupore che mi pervase la prima volta che entrai all’interno del Museo del Prado a Madrid, stando al cospetto dell’opera Las Meninas di Diego Velázquez. Ero lì lì per scavalcare la transenna tanto era forte il disorientamento dinanzi a così tanto realismo.
Mi piacciono molto Caravaggio, Rembrandt, Jan Vermeer per l’utilizzo che fanno della luce. Trovo la Gioconda di Leonardo di un’attualità disarmante pur nel suo apparente immobilismo; un esempio autorevole per quei colleghi fotografi che confondono la spontaneità col movimento.
Adoro Picasso per quell’idea di crescita e di evoluzione stilistica che riesce a trasmettere se si conosce tutta la sua produzione, a partire dal figurativo. Mi fa riflettere sul fatto che ognuno di noi, nel proprio campo, dovrebbe provare ad essere anticonvenzionale solo dopo aver sperimentato la normalità.
D.:
Quali sono, secondo te, i fattori che determinano la notorietà di un fotografo?
R.:
Se li conoscessi forse sarei più popolare!
Battuta a parte, credo che il luogo in cui si sceglie di vivere e lavorare, le persone che si frequentano, siano alla base del raggiungimento del successo, artistico o professionale che sia. Se resti a Nardò, come ho fatto io, al massimo puoi essere popolare per quel limitato raggio geografico o poco più.
D.:
Mi pare che tu non abbia avuto molti collaboratori eccetto Marco Scorza che ti segue da anni. È difficile trovare qualcuno a cui trasmettere il proprio sapere?
R.:
Avere avuto Marco al mio fianco è stato di grande supporto in tanti momenti, se non ci fosse stato avrei dovuto inventarlo. Adesso è in procinto di aprire il suo studio e io sono contentissimo per lui perché è stato perseverante nell’apprendimento e ora è giusto che sia arrivato il suo momento.
D.:
Quali sono i tuoi progetti imminenti?
R.:
Lo dico per la prima volta che sto lavorando alla stesura di un film insieme al mio carissimo amico Pierluigi Parisi, ma non voglio aggiungere altro. Spero molto di realizzarlo e vi terrò aggiornati.
D.:
In bocca al lupo per i tuoi sogni!
Ora un’ultima domanda per concludere questo piacevole excursus attraverso uno spaccato di vite che copre oltre un secolo: cosa non deve mai mancare nel bagaglio di un buon fotografo?
R.:
La cosa più importante che non deve mai venir meno non è uno strumento ma è la verità. La fotografia è arte e l’arte è poesia; se fingi non è niente di tutto questo.