Giovanni da Nardò, copista mediocre e versificatore maldestro …

di Armando Polito

I quattro evangelisti rappresentati come scriptores in una miniatura di un evangelario del X secolo custodito nella Biblioteca nazionale di Francia  (Dipartimento dei manoscritti latini n. 9455); l’immagine è stata tratta dal codice integralmente leggibile al link http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8490154f.r=Echternach.langEN)
I quattro evangelisti rappresentati come scriptores in una miniatura di un evangelario del X secolo custodito nella Biblioteca nazionale di Francia (Dipartimento dei manoscritti latini n. 9455); l’immagine è stata tratta dal codice integralmente leggibile al link http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8490154f.r=Echternach.langEN)

Dante, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Napoleone: sono alcuni  dei casi, poco numerosi, in cui il solo nome è stato sufficiente per tramandare alla storia il ricordo di un uomo. Può capitare, però, che lo stesso succeda per persone non famose, almeno quanto quelle prima nominate, con la differenza che il loro cognome non ci è noto. È il caso di Giovanni da Nardò, del quale nulla sapremmo, nemmeno la mutila indicazione onomastica, se Leone Allacci (1586-1669) non si fosse imbattuto in un manoscritto stilato da Giovanni e non ne avesse fatto menzione nella sua opera Diatriba de Georgiis et eorum scriptis (prima edizione uscita a Parigi nel 1651), in cui, trattando di Giorgio di Corfù, fiorito al tempo dell’imperatore Emanuele Comneno (XII secolo), a proposito di un suo trattato sulla comunione2 così scrive3:

(C’era nella Biblioteca Barberina un libro abbastanza antico, lacero, scompaginato e pieno di errori, trascritto da Giovanni di Nardò nell’anno del signore 1036, come si evince dai versi malamente composti alla fine del libro, che sono: Grazie a te, Cristo, che hai donato la legge/al tuo ingrato servo Giovanni/; conservalo in salute e da ogni danno/che distrugge l’anima tienilo lontano con la tua potenza.

Il presente libro fu scritto dalla mano di Giovanni da Nardò nel mese di giugno il 13 venerdì alle 15 nell’anno 6544 nella nona indizione. Se detrai da questi i 5508 anni del mondo rimarranno 1036 anni dalla nascita di Cristo.

x) Non dubito che ci sia un errore nei numeri e che sia scritto ζφυδ 6744, cioè 1236 d. C. Certamente i trattati di Giorgio di Corfù, che scrisse a partire dal 1180 non potevano essere copiati dall’amanuense). Allacci citando i medesimi titoli dei libri di Giorgio ed i versi con la sottoscrizione nel libro 2 del De consensu c.11, §6, p. 664 mostra ζχμδ, cioè 1136 d. C. Ma anche così è evidente l’errore da emendare nel modo che ho detto).

Il neretino, dunque, sarebbe “fiorito”, stando alla correzione apportata nella nota x dal curatore dell’edizione dell’Allacci, verso la metà del XIII secolo.

Nella vita non si può ottenere tutto e non so se il nostro Giovanni avrebbe condiviso l’aforisma Non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli, se fosse vissuto ai tempi di Oscar Wilde o viceversa. Il giudizio dell’Allacci sulla sua competenza di copista, come abbiamo visto, è impietoso: il manoscritto sarebbe erroribus plenus (pieno di errori), come lo è  quello sui quattro versi in greco definiti male conflati (malamente composti). C’è da pensare, dunque, che, se non fosse prevalso nell’Allacci il rigore documentario dovuto all’esperienza di bibliotecario, del copista di Nardò avremmo ignorato anche l’esistenza. Se sui presunti errori del manoscritto non posso pronunciarmi finché non lo avrò tra le mani (bisognerebbe prima vedere, come in nota ripeterò più avanti, se non è andato perduto; dimenticavo la cosa immediatamente dopo più importante: sarei in grado, oltretutto, di leggerlo correttamente?),  debbo a malincuore confermare che i versi lasciano metricamente a desiderare. Nell’intenzione di Giovanni sarebbero dovuti essere trimetri giambici e, come mostra la scansione che segue, nella loro forma più semplice e “dimagrita”, in cui ogni verso è composto da 12 sillabe.

Tuttavia, come ben sa chi ha dimestichezza con la metrica, non basta il numero delle sillabe, è necessario che sia corretta anche la loro quantità. Il trimetro giambico non prevede la possibilità che un piede possa essere formato da due sillabe brevi, cosa che si verifica (sottolineature in rosso) due volte nel primo verso ed una nel secondo; non è prevista nemmeno la sequenza di una sillaba lunga e una breve (trocheo), cosa che si verifica (sottolineature in verde) due volte nel quarto verso. Insomma, si salva solo un verso (il terzo) su quattro, il che giustifica pienamente, purtroppo, il giudizio dell’Allacci.

Non fa testo, e non sposta di un millimetro tale giudizio, la forma in cui i versi di Giovanni vengono citati da Giovanni Bernardino Tafuri in Istoria degli scrittori nati nel regno di Napoli, tomo II, Mosca, Napoli, 1748, p. 381; troppi gli errori (sottolineature in rosso dei più eclatanti) e non tutti, credo, ascrivibili alla difficoltà di stampa, all’epoca, dei caratteri greci.

È difficile che decida di farmi monaco nel tentativo, ormai tardivo, di purificarmi, sia pure parzialmente, dalle tante colpe che la mia coscienza fortunatamente ancora mi rimprovera. Ma, se dovesse succedere per pazzia o per un’improvviso anelito mistico, mi auguro che Armando da Nardò lasci come copista un ricordo migliore di quello di Giovanni.

Immagine tratta ed adattata da http://www.barzellette.net/f529-frate-trasferisce-dati-cd-rom.htm
Immagine tratta ed adattata da http://www.barzellette.net/f529-frate-trasferisce-dati-cd-rom.htm

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1 Se si tratta di un uomo di chiesa, è da pensare che Giovanni non fosse il nome di battesimo ma quello “d’arte”, come, restando all’ambito neretino, per il beato Giulio da Nardò, sul quale vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/04/06/il-beato-giulio-da-nardo/.

2 E non di una sua opera intitolata Modia, come  si legge in Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel regno di Napoli, tomo II, Mosca, Napoli, 1748, pp. 380-382 (ho sottolineato in rosso la notizia che ci interessa).

Evidentemente il Tafuri ha scambiato (ma potrebbe essere anche errore di stampa) per Modia (che non significa nulla) il Monodia che l’Allacci cita come seconda opera di Giorgio di Corfù (riporto di seguito in formato immagine il dettaglio di p. 661 dell’opera dell’Allacci nell’edizione indicata nella nota 3).

(2. Aveva scritto inoltre un Canto sul Nettario già detto a mo’ di epistola per il giudice Nicola di Otranto; r) Nettario morì nel 1181 come risulta dall’Acindino).

Non è sufficiente questo riferimento al Nettario per ipotizzare che il nostro Giovanni facesse parte della squadra di copisti di Casole (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/03/da-casole-a-parigi/) o che, addirittura, quel manoscritto della Barberina (sarebbe bello, fra l’altro, sapere se ancora si trova lì o, meglio, nella biblioteca Vaticana, dove nel 1902 confluirono i manoscritti della famiglia Barberini, oppure se, addirittura, è andato perduto) provenisse proprio da Casole.

3 Riporto in formato immagine  il brano tratto dalle pp. 662-663 del v. X della Bibliotheca Graeca di Giovanni Alberto Fabrizio, A spese della vedova di Teodoro Cristoforo Felginer,  Amburgo, 1737, integralmente consultabile e scaricabile in https://books.google.it/books?id=XmdNAAAAcAAJ&pg=RA1-PT77&dq=%22De+Georgiis%22&hl=it&sa=X&ved=0CDcQ6AEwBDgKahUKEwjl99GhoJLHAhUCuhQKHXCnD7A#v=onepage&q=%22De%20Georgiis%22&f=false.

 

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6 Commenti a Giovanni da Nardò, copista mediocre e versificatore maldestro …

  1. Dell’autore ne ha trattato Porzia Lovecchio, nel lavoro di tesi in paleografia greca compiuto presso la facoltà di Lettere dell’Università di Bari nell’ anno accademico 2001/02: “Il ms. Vat. Barb. gr.297: analisi testuale, codicologica e paleografica”, relatore il prof. Francesco Magistrale, titolare della cattedra di paleografia latina e greca.
    La studiosa offre delle interessanti indicazioni circa il Codice Scorialense, manoscritto risalente alla seconda metà del XIII secolo e già ampiamente esaminato dallo Jacob, opera di “Ioannis de Neritono notarii et fidelis nostri scribi” .
    In tale documento l’estensore neritino, testimone oculare dell’accaduto, riporta un’accurata descrizione dei fatti relativi al sacco di Nardò sopraccitato. Mentre fa menzione dell’assalto alla città da parte della lega antisveva (al giorno 12 febbraio 1255), a dispetto della tradizione, non riporta alcun assedio per mano dei saraceni.
    L’omissione del miracolo del Crocifisso, che tanta eco avrebbe dovuto suscitare in tutta l’opinione pubblica del tempo, sarebbe un errore imperdonabile per un cronista meticoloso come Giovanni di Nardò. La studiosa conclude: «persino il miracolo del Crocifisso Nero si traduce in una leggenda dal sapore puramente simbolico, visto che lo scriba, un religioso (!), non registra questo atto sacrilego».

  2. Ringrazio Marcello per la preziosa integrazione che impietosamente ribadisce il giudizio negativo dell’Allacci sul nostro concittadino copista, poeta ed ora pure cronista sì, ma, senza parzialmente smentirsi, più che mediocre e maldestro, per caso, come il classico turista …

  3. Non conoscevo il nome di Giovanni Neretino e questo articolo, insieme alla postilla di Marcello Gaballo, mi offrono degli interessanti dettagli per ampliare il quadro delle conoscenze relative ad un periodo importante e poco noto della storia del Salento tardo medievale che ho provato ad approfondire anche in alcuni miei studi (in particolare sulla schedografia di matrice netertina). Devo dissentire, però, dall’opinione di Armando Polito circa le doti versificatorie di Giovanni. Comincio col dire che non si può pretendere da lui il rispetto della prosodia classica, dal momento che egli scrive in dodecasillabi bizantini e non in trimetri giambici. Questo verso è la trasformazione del trimetro antico ma le uniche leggi cui obbedisce sono la parossitonesi (penultima sillaba del verso accentata) e la pausa dopo la quinta o sesta sillaba. Se si nota, i primi due versi hanno la pausa dopo la quinta sillaba e gli ultimi due dopo la settima. La parossitonesi è sempre rispettata. Quanto alla qualità della versificazione, egli era intanto un copista, o almeno questo stava facendo all’atto della composizione di questi dodecasillabi. Perciò non si può pretendere molto di più di quanto abbia prodotto, nè la coeva produzione poetica idruntina tocca altezze di maggiore rilievo. Egli prova a combinare parole omofone per ottenere un risultato sonoro interessante (v. 1). Potrebbe anche darsi che giochi sull’etimologia ebraica del suo nome (v. 2), ma su questo non sarei perentorio. In pochi versi condensa la sua robusta fede, forse di letterato ecclesiastico, quasi con una lontana parafrasi dell’ultimo passo del Padre nostro (vv. 3-4). Insomma, Giovanni da Nardò è figlio del suo tempo e da quanto leggo in questo interessante articolo ed apprendo da Marcello Gaballo, è personalità in linea con gli interessi e le qualità di un copista salentino. Certamente l’Allacci fu severo recensore delle doti grafiche del Neretino, ma iotacismi ed altre categorie di errore abbondano in ogni manoscritto. Il dotto di Chio era abituato a poesia d’autore ben più aulica, evidentemente.
    La Nardò tardo medievale è un interessante campo di indagine che spero, insieme a tutti gli studiosi del settore, di poter approfondire con maggiore dettaglio. Grazie ancora dell’interessante contributo.

  4. Ringrazio anche Francesco per il suo contributo. Debbo, però dire re che, a quanto ne sapevo, l’endecasillabo bizantino (erede del trimetro giambico classico), pur privilegiando l’aspetto accentuativo (accenti tonici su prima, quinta, ottava e undicesima sillaba; pausa dopo la quinta e/o la settima sillaba), richiede, comunque, l’irreprensibilità del verso per quanto riguarda il rispetto della quantità delle sillabe. È proprio quest’ultimo dettaglio che Giovanni non sempre rispetta, anche se mi rendo conto che scrivere un endecasillabo bizantino (e conciliare, dunque, l’antico col nuovo) non era cosa semplice. Per concludere: se le norme metriche da me sinteticamente riportate sono esatte, Giovanni rimane un mediocre versificatore; se, invece, il rispetto della quantità è un optional, la mediocrità di Giovanni è da limitare solo alla sua attività di cronista, accettando con beneficio d’inventario (non conosco la rilevanza statistica dei suoi errori) il principio generale che nella scrittura (copia o non copia) gli errori sono, in una certa misura, fisiologici.

  5. Infatti, Armando, il discorso è proprio questo: la quantità sillabica nella maggior parte dei poeti bizantini non è rispettata. Giusto per citare qualche “auctoritas” che possa valere più di ciò che dico io, R. Cantarella nell’introduzione a “I poeti bizantini”, v. 1, scrive che per i bizantini la “prosodia quantitativa è puramente illusoria, specialmente per le vocali dichronoi”. Lo studio di riferimento sul dodecasillabo rimane sempre quello di P. Maas del 1903. Molto interessanti e puntuali i più recenti lòavori di Lauxtermann.

  6. “Specialmente per le vocali dichronoi”: mi pare che il Cantarella, e credo che tu convenga con me, qui abbia scoperto l’acqua calda e che, con tutto il rispetto, la sua osservazione sia, più che scontata, inutile ai fini della nostra indagine perché, data la loro ambiguità o bivalenza quantitativa, qualsiasi poetastro può servirsene senza violare le regole, tanto, a seconda di come è necessario, le può considerare, legittimamente, lunghe o brevi.

    L’esame, anche di tipo statistico, invece, dovrebbe riguardare le altre vocali ed il loro uso, regolare o irregolare, in rapporto, volta per volta, al maggiore o minore prestigio del poeta. Suppongo sia questo il criterio, in fondo banale ma altri non ne conosco, seguito da Maas e da Lauxtermann. Non ho letto, purtroppo, i loro lavori né prevedo di poterlo fare date le mie limitate capacità di deambulazione; ma se qualche anima pia postasse la sezione relativa al dodecasillabo bizantino … Captatio benevolentiae? Sì, ma sacrosanta, perché asservita solo al bisogno inesauribile, che non è mai egoistico, della pura conoscenza pura.

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