di Marcello Semeraro
Gli stemmi rappresentano una sorta di stato civile dell’opera d’arte. Se adeguatamente letti e interpretati, infatti, essi forniscono preziose informazioni sia sulla datazione dell’opera, sia sull’identità, lo status giuridico, le intenzioni e l’ideologia della committenza artistica. Questa premessa è utile per introdurre l’argomento oggetto di questo breve studio: lo stemma episcopale utilizzato da Mons. Alfonso Sozi Carafa, vescovo di Lecce dal 1751 al 1783. La presente indagine, in particolare, prende in esame gli esemplari a lui attribuibili, visibili negli edifici monumentali raccolti attorno a Piazza Duomo.
Il personaggio e la sua famiglia
La famiglia Sozi, originaria di Perugia, si vuole discenda dai Paolucci, il cui capostipite sarebbe stato Paoluccio d’Agato o d’Agatone, nobile perugino citato in documenti del 7601. La discendenza dai Paolucci trova comunque riscontro nel blasone, comune alle due famiglie, raffigurante un orso levato (cioè rampante) al naturale in campo d’oro, come si evince dallo stemma Sozi/Paolucci riportato nel Blasone Perugino di Vincenzo Tranquilli, un manoscritto araldico risalente al XVI secolo2.
Nel 1389, ai tempi della rivoluzione popolare a Perugia, molti patrizi furono cacciati dalla città e messi al bando. Tra questi troviamo un Giovan Francesco Sozi che nel 1414 si trasferì nel Regno di Napoli al seguito del capitano di ventura Muzio Attendolo detto Sforza, capostipite della celebre famiglia ducale3. Risale, invece, al 1575 l’acquisto di quello che sarà il feudo di famiglia, San Nicola Manfredi (Benevento), fatto da Maddalena Gentile, vedova di Marcangelo Sozi, che due anni dopo lo cedette al figlio Leonardo Aniello4.
In seguito poi al matrimonio (1656) fra Alessandro Sozi, nato da Ascanio di Leonardo Aniello e da Vittoria Giordano, e Artemisia Carafa della Stadera, figlia di Marcantonio e di Elena Daniele, la famiglia aggiunse al proprio cognome quello dei Carafa5.
Nipote abiatico di Alessandro e Artemisia fu proprio il nostro Alfonso. Egli nacque a San Nicola Manfredi il 7 marzo 1704, quartogenito di Nicola Sozi Carafa, barone del predetto feudo e patrizio di Benevento, e di Anna Maria Merenda, figlia di Giovan Battista, patrizio di Aversa e Cosenza, e di Francesca di Donato6. Dopo essere stato ordinato sacerdote nel 1727, fu creato vescovo di Vico Equense nel 1743, donde nel 1751 fu traslato alla sede diocesana di Lecce. Fu inoltre Lettore di filosofia, teologia e matematica al Collegio Clementino di Roma, diretto dai Padri Somaschi, che per più anni governò come Rettore. Morì il 19 febbraio 1783 e fu sepolto nel Duomo7.
“Uomo rigido e spendido”, “per le magnificenze de’ suoi atti e delle trasformazioni che apportò negli edifici, si poté dire l’Alessandro VII dei suoi tempi e della sua diocesi”8.
Lo stemma episcopale
Nei secoli passati lo stemma utilizzato da cardinali, vescovi ed altri prelati riproduceva per lo più la loro arma gentilizia. Ciò dipendeva dal fatto che, per lo più fino alla fine del XVIII secolo, venivano elevati ai vari gradi della gerarchia ecclesiastica soprattutto chierici provenienti da famiglie nobili le quali erano già dotate di uno stemma. Questo uso consolidato è riscontrabile anche nello stemma di Mons. Sozi Carafa, che mutuò il proprio scudo da quello gentilizio, personalizzandolo mediante l’utilizzo di un timbro corrispondente alla sua dignità episcopale, ovvero un cappello prelatizio di verde munito di sei nappe per lato, ordinate in file 1.2.3.
Rammentiamo che a partire dal XV secolo, negli stemmi vescovili ed arcivescovili, il cappello prelatizio cominciò a sostituire progressivamente la mitriache era il timbro caratteristico di coloro che, insigniti dell’ordine espiscopale, non facevano parte del Collegio Cardinalizio9.
Lo stemma gentilizio dei Sozi Carafa è costituito da uno scudo inquartato, recante nel primo e nel quarto punto il blasone dei Sozi (d’oro, all’orso levato al naturale), mentre nel secondo e nel terzo compare quello dei Carafa (di rosso, a tre fasce d’argento10). Si tratta di una tipica arma di alleanza matrimoniale, dove l’inquartatura corrisponde araldicamente al doppio cognome assunto dalla famiglia in seguito al già ricordato matrimonio fra gli avi paterni del prelato. Il blasone summenzionato è riportato anche dallo Spreti nella sua monumentale opera intitolata Enciclopedia storico-nobiliare italiana (fig. 1).
Con l’utilizzo della necessaria terminologia tecnico-blasonica, lo stemma episcopale oggetto di questo studio può essere descritto nella maniera seguente: inquartato: nel 1° e nel 4° d’oro, all’orso levato al naturale (Sozi); nel 2° e nel 3° di rosso, a tre fasce d’argento (Carafa). Lo scudo timbrato da un cappello prelatizio a sei nappe per lato, il tutto di verde.
Le testimonianze araldiche di Mons. Sozi Carafa presenti in Piazza Duomo costituiscono una chiara ed efficace rappresentazione visiva di alcuni momenti del suo episcopato e della sua committenza artistica. Segnaliamo in questa sede quelli che ci sembrano gli esemplari più rappresentativi.
All’ingresso di Piazza Duomo, al di sotto delle balaustre dei propilei, fanno bella mostra di sé due scudi sagomati e accartocciati, recanti l’arma del prelato. I due propilei furono costruiti nel 1761 a spese del presule che decise di affidarne la realizzazione all’architetto Emanuele Manieri11. Al termine dei lavori il vescovo fece scolpire le sue insegne, vera e propria firma della sua committenza. Un altro esemplare è visibile sulla facciata del Palazzo Episcopale, racchiuso in uno scudo sagomato e accartocciato di fattezze tipicamente settecentesche (fig. 2).
Nel 1761 Mons. Sozi Carafa fece costruire la fabbrica sull’Episcopio per sistemarvi il nuovo orologio, opera del leccese Domenico Panico12. Secondo il De Simone, il prelato fece abbattere la vecchia gradinata esterna del Vescovado e sulla nuova fece trasportare il nuovo orologio in sostituzione di quello vecchio che era sul portone13. Si può ipotizzare che sia stata questa la circostanza che determinò la collocazione dello stemma, ma non è da escludersi che le ragioni vadano cercate altrove.
Le armi finora analizzate risultano essere acrome, ma se ne possono trovare anche degli esempi smaltati. E’ il caso dei due gradevoli esemplari, stilisticamente molto simili, osservabili all’interno del Duomo, rispettivamente sul fastigio del monumento sepolcrale del vescovo, posto nella navata laterale di destra (fig. 3), e sul fastigio del battistero della navata laterale di sinistra, realizzato per volere del presule da Giovanni Pinto e sistemato nel 1760 (fig. 4)14.
Un altro esempio di composizione cromatica è l’arma dipinta sulla tela dedicata all’Assunta, visibile dietro l’altare maggiore. Il quadro, realizzato dal pittore leccese Oronzo Tiso e collocato nel 175715, reca in basso a sinistra uno scudo ovale accartocciato contenente il blasone episcopale di Mons. Sozi Carafa, committente dell’opera, che proprio in quell’anno riconsacrò il Duomo dopo anni di lavori voluti da Mons. Luigi Pappacoda (1639-1670)16.
Degno di menzione, infine, è l’esemplare che orna il retro di una pianeta di seta rossa, ricamata con motivi floreali e galloni d’oro, conservata nel Museo Diocesano di Arte Sacra (fig. 5). Non si tratta, però, di un caso isolato, perché da un inventario dei beni del presule, redatto nel 1752, risulta che egli utilizzò anche altri paramenti sacri stemmati (piviali, mitrie, altre pianete)17.
Note
1. Cfr. V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, Milano 1928-36, suppl. 2, p. 598; cfr. anche E. Ricca, La nobiltà delle Due Sicilie, Napoli 1869, vol. IV, pp. 248-273, dove è presente anche un albero genealogico della famiglia Sozi Carafa.
2. Il manoscritto è consultabile on line al seguente indirizzo: http://bibliotecaestense.beniculturali.it/info/img/mss/i-mo-beu-gamma.y.5.4.pdf
3. Cfr. E. Ricca, op. cit., pp. 251-252.
4. Cfr. ivi, p. 272.
5. Cfr. ivi, p. 273. Per la nobile e antica famiglia Carafa, che si suddivise in due rami detti rispettivamente della Spina e della Stadera e che diede alla cattolicità un Sommo Romano Pontefice nella persona di Paolo IV, rimando a G.B. di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane, estinte e viventi, Pisa1886, vol. 1, p. 231.
6. Cfr. E. Ricca, op. cit, p. 273.
7. Cfr. ivi, p. 267.
8. Cfr. P. Palumbo, Storia di Lecce, Lecce 1910, rist. Galatina 1981, p. 285.
- Cfr. A. Cordero Lanza di Montezemolo, A. Pompili, Manuale di araldica ecclesiastica nella Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 2014, p. 19.
10. Nello stemma dei Carafa della Stadera compare a volte anche una stadera all’esterno dello scudo.
11. Cfr. T. Pellegrino, Piazza Duomo a Lecce, Bari 1972, p. 11.
12. Cfr. ibidem.
13. L. De Simone, Lecce e i suoi monumenti descritti e illustrati, vol. I, Lecce 1874, pp. 93-94.
14. Cfr. T. Pellegrino, op. cit., p. 103.
15. Cfr. ivi, p. 65.
16. Cfr. ivi, p. 41.
17. Cfr. M. Pastore, Arredi, vesti e gioie della società salentina dal manierismo al rococò, in “Archivio storico pugliese”, XXXV (1982), pp. 133.134.